Intervista a Simone Eterno, autore di “Contro: vita e destino di Novak Djokovic”.
Siamo abituati da sempre al racconto delle imprese degli eroi, ma esiste un’epica dell’anti-eroe? Di sicuro, il fascino perverso del cattivo fa più fatica ad attecchire, abituati come siamo a tifare per eroi tutt’al più fragili o sfaccettati, ma mai per chi si oppone loro. Anche solo per questo motivo, merita un plauso il coraggio di Simone Eterno, voce e cronista di Eurosport e autore di “Contro: vita e destino di Novak Djokovic”. Nole, il serbo ammazza record che ha guastato l’epica – di nuovo – della rivalità perfetta tra Nadal e Federer, è, nel tennis, il cattivo per eccellenza. Antagonista principale, più che anti-eroe, si è messo di traverso ai campioni perfetti, inserendosi nella corsa al più grande di sempre. Questo fu il peccato originale, aggravato poi da comportamenti e prese di posizione che tutto hanno fatto meno che accorciare la distanza con media e appassionati.
Nole è un cattivo anomalo per la storia del tennis. Non è subdolo come Nastase né iconoclasta come McEnroe. Non profana la sacralità compita del gioco del tennis come il primo Agassi, né spacca le racchette come il bad boy di turno – l’ha fatto, ma non è il motivo per cui ha attirato tante antipatie. Al massimo, può ricordare alcune sfuriate isteriche di Connors. Djokovic si nutre dell’ostilità della folla, la provoca: si porta il dito all’orecchio per aumentare i decibel dei fischi del pubblico. La sua è una sfida continua e esistenziale, contro tutto e tutti, dalla quale, anche quando perde sul campo, non pare mai uscire del tutto sconfitto.
Simone Eterno ne ripercorre la carriera, dall’infanzia sotto le bombe della sua Belgrado al Grande Slam sfiorato nel 2021. Un’ascesa non lineare, ma costellata da frenate, di cui Eterno fa menzione, approfondendo così il lato umano di Djokovic e i suoi caratteri personali, spirituali e politici. Fino all’ultimo capitolo dedicato alle recenti vicende australiane, la cesura definitiva sul rapporto tra Djokovic e la parte maggioritaria del pubblico.
Ciao Simone. La prima cosa che voglio chiederti è cosa ti abbia spinto a raccontare Novak Djokovic e se la tua percezione di lui sia cambiata, dovendo studiare a fondo la sua figura, rispetto a quella che avevi prima di iniziare a lavorare al libro.
Diciamo che il libro parte da una necessità. So che può sembrare paradossale, ma non sono un fan delle biografie di un atleta che sta ancora giocando. Però su Djokovic secondo me era necessario mettere un punto sulla sua carriera. Dal 2011 – quando inizia a vincere con costanza – al 2021, il serbo scala una montagna che sembrava impossibile da scalare e sentivo la necessità di raccontare questo decennio. Non soltanto da un punto di vista dei risultati ottenuti sul campo, che in tanti conoscono, ma anche dalla percezione che ho avuto in questi dieci anni in cui ho spesso avuto la fortuna di seguirlo sul campo.
Quel che ho sempre percepito, a tutte le latitudini, è che per lui ci fosse una fetta di pubblico non tanto grande quanto fosse quella di Rafa Nadal e di Roger Federer. Questa cosa è sempre stata un po’ il motore che Djokovic ha utilizzato per scalare questa montagna. Ed è davvero affascinante, secondo me, perché penso che abbia fatto un qualcosa di veramente complicato. Non solo nei risultati che sono assurdi, cioè la scalata fatta a due che reputiamo tra i più grandi della storia del tennis, ma anche per il come è stata fatta, cioè spesso – e qui viene il titolo del libro – contro tutti. Contro i più forti, sul campo, e contro buona parte del pubblico che non l’ha mai adottato come ha adottato gli altri due.
Nel libro dividi la carriera di Djokovic in due fasi: quella in cui faceva le imitazioni dei colleghi e bramava l’amore del pubblico e una seconda fase, quella più recente, in cui invece ha accettato il ruolo del cattivo. Quale dei due secondo te è il vero Djokovic? Il Nole “odioso” è solo la conseguenza del non-amore ricevuto a inizio carriera o lo avremmo visto comunque?
È una buona domanda. Io credo che lui abbia sempre continuato a cercare una fetta di pubblico. Forse, però, il vero Djokovic non l’abbiamo mai visto, è sempre stato in qualche modo limitato da sé stesso. Ha sempre dovuto “recitare” una parte e autolimitarsi caratterialmente. Mi spiego: il vero Djokovic secondo me viene fuori quando lo vedi tirare l’urlaccio e quando per un istante sembra impazzire. Poi però torna subito dentro al suo quadro perché sa che è necessario ricomporsi per il suo obiettivo, cioè quello di vincere la partita. Anche questo è parte di queste enormi capacità mentali che io credo lui abbia nel limitare tutto ciò che è superfluo per raggiungere la vittoria.
Tu scrivi che Djokovic era considerato il “terzo incomodo” anche tra i giornalisti, e che parte della sala stampa lo ha spesso considerato quasi uno di troppo.
C’è una definizione del mio collega Lorenzo Cazzaniga che cito volentieri: quella tra Nadal e Federer era la rivalità da ufficio stampa. Una contrapposizione perfetta sotto tutti i punti di vista. Anche, banalmente, a partire dal brand: lo stesso per entrambi ma che prende due fette di mercato completamente diverse. Poi ti arriva uno che riesce a sconfiggere sia l’uno che l’altro e rompe questa rivalità perfetta, beh, è inevitabile che nella narrazione dei media assuma il ruolo di terzo incomodo.
Anche chi fa il mio mestiere ha, ovviamente, simpatie e antipatie ed è pure normale che la maggioranza degli addetti ai lavori parteggiasse per uno tra Federer e Nadal, dal momento che loro due erano quelli arrivati prima. Poi c’è chi riusciva a nasconderlo meglio e chi faceva più fatica, soprattutto una volta che si spegnevano i microfoni e l’articolo era stato scritto. Non che questo andasse a inficiare il lavoro dei giornalisti, ma la sensazione che Nole fosse il terzo incomodo era evidente. Anche se alla fine Djokovic in realtà ha fatto comodo alla narrazione, alimentando ulteriormente l’epoca irripetibile di questo sport, con i tre più grandi di sempre tutti nella stessa era.
Di Djokovic dà una definizione puntuale il suo preparatore atletico, l’austriaco Phil-Gritsch: «Nole è un perfezionista, ma ha iniziato a esplorare l’esoterismo della vita». La dichiarazione risale al periodo in cui Djokovic intraprende il percorso con Pepe Imaz e abbraccia una dimensione più mistico-spirituale. Più in generale, leggendo il libro si ricava un Djokovic a due facce: da un lato testardo fino a sacrificare la partecipazione ai tornei per le proprie idee, dall’altro così malleabile da farsi influenzare fino in fondo dalle suggestioni di qualcun altro. Come si coniugano questi due aspetti?
Io credo che il lato spirituale di Djokovic sia stato fondamentale per costruire l’atleta che è stato in grado di vincere così tanto. Sembra un paradosso, perché in realtà quando conosce Pepe Imaz e esplora di più questo suo lato della vita zen non ottiene grandi risultati. Però credo che questa sua fase della vita sia stata raccontata in maniera un po’ superficiale, del tipo: trova il santone e perde la retta via, mentre per tornare a vincere ha bisogno di tornare al suo vecchio team, riabbracciare Marian Vajda (il suo storico coach, nda) e abbandonare la vecchia strada. In realtà la vecchia strada Djokovic non l’ha mai abbandonata. Anzi, contribuisce a sviluppare un lato di Djokovic ancora più profondo.
Quando nella conferenza stampa successiva alla finale di Wimbledon 2019, dichiara che, mentre tutto il pubblico urlava Roger! Roger!, lui nella sua testa sentiva Nole! Nole!, capisci che dentro di sé ha una capacità di concentrazione, di esularsi da tutto e lavorare sulla testa che è probabilmente figlia di quella dottrina lì e agevolata da quello spirito di cercare un lato esoterico della vita. Credo che sia stato funzionale anche quello nella carriera di Djokovic. Lo ha dimostrato anche nella questione vaccini, comunque la si pensi. Il corpo è il santuario di Djokovic. E il suo saper staccarsi dalla realtà e lavorare su sé stesso è stato fondamentale per ottenere vittorie in cui la sua testa ha saputo fare la differenza, molto più delle sue capacità balistiche.
Veniamo alla patata bollente: la questione vaccino e l’esclusione dagli Australian Open. Djokovic è stato escluso non per altro quanto perché la sua presenza in Australia avrebbe potuto «incoraggiare emulatori o ammiratori» e «fomentare sentimenti anti-vaccinazione». Secondo te è corretto considerare gli sportivi come dei role modele e attribuire loro un plus di responsabilità rispetto a un cittadino comune?
Non lo trovo giusto, per quella che è la mia visione del mondo. Comprendo che la narrazione dello sport voglia che siano non solo degli atleti, ma dei punti di riferimento anche comportamentali. Lo comprendo, ma non lo condivido. È un mio punto di vista.
Ti sei mai chiesto perché Djokovic, che basava la sua esenzione sull’avvenuta guarigione dal Covid-19, non avesse dichiarato pubblicamente di aver contratto il virus una seconda volta, come invece aveva fatto ai tempi della prima infezione, nell’estate del 2020?
Beh, questo fa parte di una gestione assolutamente rivedibile, senza ombra di dubbio. Diciamo che a livello comunicativo quello di Djokovic è stato un grande fallimento. Lo ritengo una vittima di quello che è successo in Australia, ma da parte sua non ci sono dubbi che sia mancata una chiarezza che abbia contribuito a creare l’escalation dei giorni caldi australiani. Sicuramente lo shooting fotografico con L’Équipe dopo essere risultato positivo è una macchia. Non è stato chiaro nella gestione di quei giorni e questo è stato controproducente per la sua immagine.
Venendo all’attualità, Djokovic tornerà presto in campo e dovrebbe poter disputare la maggior parte dei tornei europei, che non prevederanno l’obbligo vaccinale. Pensi che il caos australiano si farà sentire o riuscirà ancora una volta a alienarsi?
Psicologicamente non credo sia un problema, lo sarà l’inattività tennistica. Rientrare in campo dopo un lungo stop ed essere subito competitivo ad alto livello è difficile anche se ti chiami Djokovic. Da un punto di vista mentale non ho dubbi, anzi, credo che la vittoria di Nadal in Australia e la striscia di successi sul cemento del maiorchino abbia ricaricato ancora di più la sete di record di Djokovic. Nutro dei dubbi invece sul piano tennistico: l’aver giocato poco ci restituirà un Djokovic da testare e magari vulnerabile, come lo abbiamo visto a Dubai. Quindi la sua rincorsa al record degli Slam e il controsorpasso su Nadal potrebbe non essere così facile.
Le carriere di Nadal e Djokovic non dureranno in eterno e ancor meno quella di Federer, la cui fine sembra ancora più vicina. Come vedi il tennis senza questi tre mostri sacri? Guardi con ottimismo alle nuove generazioni o appartieni al filone dei nostalgici secondo cui tennisti di questo livello non torneranno più?
Allora, sono quasi certo che l’età dell’oro che abbiamo ammirato sia irripetibile. Tre campioni di quel calibro, tutti assieme e capaci di raggiungere quel livello soprattutto mentale credo che non ripasseranno mai più. Detto questo, il tennis sopravviverà. Forse perderemo una fascia di pubblico, quella che era stata catturata da questi tre alieni assoluti. Rimarrà però lo zoccolo duro. Nasceranno sicuramente nuovi campioni, magari anche di questa portata. Certo, forse non tutti nello stesso periodo.
Per chiudere, visto che nel libro racconti (di riflesso) anche la tua vita da inviato in giro per i tornei più importanti del mondo, ci puoi spiegare quanto è diverso seguire un torneo sul posto e farlo dalla redazione?
Cambia totalmente. Il tennis è lo sport meno televisivo che ci sia. La televisione schiaccia, appiattisce. Per seguire un torneo nella sua pienezza, per quanto tu possa leggere tutto il possibile anche da casa, bisogna vederlo dal vivo. E non mi riferisco solo alle partite, ma anche alle dinamiche dentro a un torneo che puoi vivere seguendo un allenamento o una conferenza stampa. Per esempio, solo avendo visto Nadal che entra zoppicando nella sala stampa degli Australian Open, il modo in cui è arrivato a sedersi su quella sedia, capisci la sofferenza dell’atleta, che da dietro un monitor non puoi cogliere.
Oppure ricordo Chung, sempre in Australia, quando si ritirò e aveva una vescica enorme sotto al piede e saltellava su un piede solo invece di camminare. Dal vivo puoi restituire al pubblico molto di più, dalle condizioni climatiche – fondamentali nel tennis – all’intensità degli allenamenti o anche soltanto le sensazioni che puoi assaporare stando lì. Per fortuna dopo uno stop di due anni dovremmo poter tornare già a Montecarlo, che è un torneo a cui sono molto affezionato.