L'automa che si scoprì fragile.
L’abbiamo sempre paragonato a un cyborg. Un esperimento vincente che, esclusa una piccola parentesi della sua straordinaria carriera, ha annichilito tutti prima che sul campo nella testa. È entrato dentro quella di tutti gli avversari del circuito e li ha fatti andare in tilt, dai campioni più celebrati ai giovani più promettenti. Ieri notte, invece, Djokovic è sembrato improvvisamente umano. Troppo umano, verrebbe da dire, per poter completare il Grande Slam, l’impresa a cui tutti guardavano, la chimera irraggiungibile del tennis. Sotto gli occhi attenti di Rod Laver, ultimo uomo a completarlo, Nole si è inceppato.
Le sue gambe da clonare si sono improvvisamente bloccate, incapaci di assistere i suoi colpi, poco agili nei movimenti di fondo campo, pigre nell’assecondare le variazioni in back sul rovescio. I capisaldi del suo gioco sono improvvisamente collassati: poco penetrante da fondo campo, spesso fuori giri nei ritmi forsennati imposti dal suo avversario. Da grande campione, Djokovic ha provato a reagire a modo suo, cambiando il piano tattico e mordendo la rete a ogni occasione, in un saggio di serve&volley quasi inedito per il serbo, che però l’ha mantenuto in scia. Ha provato a scaricare la tensione distruggendo racchette, arringando il pubblico, mettendo Medvedev con le spalle al muro davanti alla storia.
Ma questa volta i mind games non hanno funzionato. Troppo in palla il russo nell’arco di tutto il torneo, ingiocabile a tratti per chiunque, compreso ieri sera. Sicuro, glaciale, dominante da fondo campo nel terreno di conquista del serbo, Daniil ha comandato il match in modo così schiacciante che il 6-4 periodico è persino stretto al russo. Scomodando un paragone azzardato, ha ricordato da vicino l’impresa di un suo connazionale, istrionico come lui, quando sullo stesso cemento di Flashing Meadows Marat Safin lasciò solo le briciole a un annichilito Pete Sampras.
Solo un turno di battuta un po’ tormentato, non a caso quello per chiudere il match 6-2 dopo meno di due ore di gioco, ha aperto uno spiraglio nei sostenitori di Nole. Ha cambiato maglietta il serbo, volontariamente di un colore diverso, quasi a ricordare a Medvedev che la partita non sarebbe finita lì, ed effettivamente non lo è stata. Un break viziato dalla tensione, con un Championship point buttato al vento e poi un break viziato da tre doppi falli consecutivi spinti dall’indecenza yankee. Il pubblico, palesemente schierato con Nole, più che per tifo probabilmente perché nell’ignoranza dell’Arthur Ashe si voleva semplicemente assistere alla storia, ha iniziato a fischiare e rendere insostenibili i turni di servizio di Medvedev, nonostante gli inutili richiami del giudice di sedia.
Tuttavia, all’ultimo cambio campo, prima della seconda opportunità per chiudere il match, tutto è sembrato chiaro e inevitabile. Il 20 volte campione slam si è commosso. Non ha saputo gestire il terremoto di emozioni mosso dentro dal pubblico di New York: al di là dell’indisciplina e della maleducazione, mai nessuno aveva dimostrato tale affetto per Nole. Il serbo ha pianto al cambio campo e si stava ancora asciugando le lacrime quando è andato a rispondere in attesa delle bordate del russo, campione ormai incoronato degli U.S. Open. Djokovic aveva scacciato la storia per tutto il torneo, evitando di alimentare le aspettative in conferenza stampa, smarcando sempre le domande aventi oggetto quel graal, ‘Grand Slam’, che evidentemente rappresentavano più di un semplice sogno.
«Giocherò come fosse l’ultimo match della carriera» aveva detto Nole alla vigilia, lasciando per una volta intendere la portata stratosferica dell’incontro. La storia si è fatta, ma per ricordarci che siamo tutti terribilmente umani. Il contentino di Medvedev: «Non l’ho mai detto a nessuno, ma per me tu sei il più grande di sempre» è una magra consolazione, ma con i Roger e Rafa incerottati e reduci da operazioni a ginocchia e piedi, il ventunesimo slam è dietro l’angolo e la storia si farà, in un modo o nell’altro. Chissà se avrà ancora la possibilità di completare un Grande Slam, Novak Djokovic, non dovesse riuscirci sapremmo definitivamente che non è un’impresa da umani, ma da replicanti. Un tabù che nemmeno il più automa dei campioni è riuscito a sfatare.