Roberto Puglisi
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Calcio
Roberto Puglisi
07 Luglio 2020
Schillaci era un ragazzo come noi
Gli occhi ridenti di Totò, le sere d'estate e i profumi dei gelsomini.
Ascoltate, adesso, il racconto di un esule del calcio degli anni Ottanta, quello vero, non la pallida imitazione contemporanea. Avvertenza: sono più i sogni e le bolle di sapone che le cose concrete. Lo schema si presentava semplice. Il goal da mangiare posticipato era il sacramento della domenica e l’immenso Paolo Valenti era il benevolo officiante che spalancava lo scrigno, lì dove si custodiva il tesoro dei servizi dai campi su Novantesimo minuto, la trasmissione-rifugio di quasi tutti i maschi italiani nel pomeriggio del dì di festa.
Ogni inviato possedeva una caratteristica che lo rendeva immortale. Luigi Necco, collegato dal San Paolo, somigliava a un magnifico Pulcinella senza maschera: o forse era un De Filippo in sedicesimo e con le sue manone sceneggiava il commento sportivo, sicché a un certo punto non ti saresti meravigliato nel sentirgli chiedere: “Te piace ‘a partita?”.
Giampiero Galeazzi, sul prato dell’Olimpico, tampinava chiunque, marcandolo a uomo: arbitri severi, giocatori corrucciati, e a chicchessia strappava una dichiarazione. Ma, del resto, tra i protagonisti del circo, che aveva un sapido retrogusto familiare, scorreva una simpatia umana che sfociava nella compagnoneria. Si lascia ricordare, per esempio, un autentico pezzo di teatro di Nils Liedholm – che Brera chiamava Liddas – nel riguardare l’azione di un rigore dubbio in area della Roma.
Liedholm: “E mi pare che ha preso la gamba…”. Giornalisti: “E la palla?”. Liedholm: “E la palla è finita fori” (risata generale).
Toninocarinodaascoli si recitava attaccato. Marcello Giannini era stilisticamente innamorato di Antognoni. Ecco gli angeli custodi della passione di tanti calciofili appartenenti a nuclei familiari, invece, per niente appassionati. Costoro venivano relegati in un cucinino, da Belluno a Capo Passero, con la schedina trattenuta febbrilmente in mezzo alle dita.
Immaginiamolo, adesso, questo esule degli anni Ottanta di cui si narra, magari un ragazzo siciliano, che aveva trascorso il pranzo domenicale con amatissimi zii e zie, immancabilmente professori di Lettere nei licei, chissà perché, nemici della matematica e della Dea Eupalla. Quando a tavola approdavano i cannoli, l’esule e uno zio clandestino (aveva lavorato da ferroviere) si appartavano nel minuscolo perimetro di una stanzetta in penombra. La casa era grande, con soffitti alti e affrescati da starci bene in una poesia di Larkin.
“E all’improvviso non una parola viene, ma il pensiero di finestre alte: il vetro che assorbe il sole e, al di là, l’aria azzurra e profonda, che non mostra nulla, che non è da nessuna parte, che non ha fine”. (Philip Larkin)
In quello stanzino, si accendevano, magicamente, una radiolina color rosso ruggine e un televisorino in bianco e nero che non trasmetteva – erano gli anni Ottanta, diamine! – gli highlights in contemporanea, ma un monoscopio con le partite e i risultati aggiornati di volta in volta. Una elementare stregoneria. Intanto, Scusameripregociotti prendeva il sopravvento. La radiolina gracchiava e un uomo gridava: rigore!. Il calcio era la sorgente di un suono che si scioglieva nel timbro del cronista radiofonico per colare nelle orecchie e da lì sgorgare nella camera oscura della fantasia che si incaricava di stampare incerti fotogrammi.
Era una camera oscura assai partigiana in cui i gol degli avversari prendevano le sembianze di clamorose botte di gluteo, favorite da arbitri sempre pronti a concedere massime punizioni cornute, mentre i tuoi eroici marcatori esultanti sembravano dei dell’Olimpo in rapido volo sull’erba. Ma che calcio fiabesco che era.
Le sue formazioni sono rimaste impresse nella perennità degli scioglilingua in una indistinguibile mescolanza: “Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea… Conti, Prohaska, Pruzzo, Di Bartolomei, Iorio”. Il cantore supremo del mito sferico era Gianni Brera, inventore sperimentato di un linguaggio che confinava con una ruvida poesia. Lo stesso Brera che in una intervista con Roberto Gervaso confessava un originale cocktail di sentimenti:
“Qualche volta mi son sentito snobbato, ma io penso sia meglio far bene il sarto che male il letterato. Confeziono mutande di felpa che poi agghindo con pizzi, tanto per dimostrare che conosco anche il ricamo”.
Torniamo a quella domenica da esuli. Bruscamente, si spegnevano i suoni della radiolina, tra le quattro e un quarto e le cinque meno un quarto, secondo l’orario di inizio. E cominciava l’attesa dei servizi. Qualche anima pia, dalla cucina, recava in soccorso caffè bollente e avanzi di cannolo: a Belluno il pastin. La pennichella si faceva strada, con il suo incedere felpato, tra i furori del primo pomeriggio. In una sorta di allucinazione, sulla parete bianca e marrò della stanzetta, si tiravano i calci di un campionato onirico. Alle sei e venti circa, la rinascita.
Stavolta, per esaltare l’evento, si transitava nel soggiorno, con il televisore a colori. Le zie giochicchiavano a canasta. Gli zii chiacchieravano di politica, usando soprattutto tre parole (‘Andreotti, Craxi, Berlinguer’). Il nipote esule e lo zio clandestino, all’apice della crisi di astinenza da gol, piazzavano gli occhi fissi sullo schermo, fino a quando non si materializzava lui. E lo zio sfiatava di gratitudine: “Paluzzo, finalmente…”.
Paluzzo era, appunto, Paolo Valenti, col suo sorriso accogliente da gentiluomo di campagna, la cravatta ardimentosa e una caterva di marcature da mostrare, beninteso dopo la sigla di Novantesimo minuto. Al suo schiocco di domatore gentile accorrevano in folla i suoi prodi inviati. Si presentavano come i Re Magi, alla grotta del bambino-telespettatore, con le mani ricolme dell’identica mirra: l’urlo che segue il gol, lo scusi chi ha fatto palo, e ancora l’uomo che grida rigore in effigie. Era fascino. Era orgasmo a spicchi di palloni. Era cultura popolare.
Infine, si spegnevano i suoni e la tivvù. Le zie continuavano a giochicchiare a canasta, gli zii si abbracciavano dopo avere litigato per la politica. I balconi fioriti di gerani non si lamentavano dell’inverno alle porte. Si avvertiva come una felicità in bianco e nero da respirare fino in fondo. Tramontava così una domenica pallonara degli anni Ottanta con i suoi titoli di coda, da Capo Passero a Belluno.
‘Novantesimo’, in sottofondo, svaniva, rimettendo in pista il palinsesto consueto. Lo zio indossava cappotto e sciarpa. Gli esuli tornavano, mestamente, alla normalità. Uno spavento di quaderni a quadretti e compiti di matematica si insinuava tra le figurine Panini dei più giovani. Era già arrivato il momento di pensare al lunedì. Ma domenica era sempre domenica.