Chi si indigna non ha ancora capito che il problema è alla radice.
Nei giorni del pre-Europeo, in Italia e nel Vecchio Continente si è infiammato il tema sul futuro di Donnarumma lontano da Milano e dal “suo” Milan, già scritto al PSG a quanto pare. Si è innescata la macchina delle opinioni, giornalistiche e social-network. Gli articoli e i post a tema Gigio sono i più commentati e dibattuti, come al solito quando nel calciomercato moderno avviene una cessione illustre. Esplode il dissenso social, e anche tra i non milanisti uno slogan mette praticamente tutti d’accordo:
“traditore, mercenario, venduto”.
Ma la domanda sorge spontanea: perché, nel 2021, è ancora così presente l’accusa di tradimento? Sembrerebbe una reazione giusta da parte di tifosi e (parte della) stampa, ma la questione è più complessa. Vedere il difetto, il tradimento, è un tipico atteggiamento italiano descritto benissimo da Paolo Villaggio in Fantozzi.
L’indignazione verso il mercenario era già vecchia quando il fenomeno italiano era Balotelli, figuriamoci oggi. Lo sport vive in un contesto dove comanda il mercato. Punto. In più ci si aggiungono altre distorsioni come la mania accelerazionista della ricerca famelica del nuovo fenomeno da buttare in prima pagina e strapagare, nuovi idoli dal talento puro, seguiti dalle masse di follower, in grado di accendere gli animi dei tifosi dai quali vengono poi strappati a colpi di offerte di mercato e commissioni milionarie per gli agenti. Come possiamo parlare con tono indignato di mercenarismo, nel 2021, in questo mondo, quello che premia chi si offre al miglior offerente senza alcuna etica intellettuale prima che sportiva o identitaria? Il senso di appartenenza non lo ha ucciso di certo Donnarumma, muore ogni giorno attorno ad ognuno di noi. Tutto in nome del salvifico “professionismo“. E non serve a niente dire che non ci sono più i Maldini, i Del Piero, i Totti, o che le bandiere appartengono al passato.
Oltre a ripetere il già detto, basterebbe guardarsi attorno per evitare di gridare allo scandalo, di sbraitare a casaccio la smontatura di un idolo solo perché si comporta esattamente come viene proposto dai modelli sociali dominanti. In questo nostro mondo in cui le relazioni sociali, i rapporti di forza, i legami anche più intimi tra le persone, sono esclusivamente una questione di carattere economico dominati dal Dio denaro, si respira aria di materialismo dalla mattina alla sera, le canzoni – dal cosiddetto Rock’n Roll alla Maneskin al nuovo hip-hop della trap – non parlano d’altro che di liberazioni dalle costrizioni morali e adorazione del lusso comprato dai soldi. In questo mondo, in questo contesto, ci indigniamo? Qui non si tratta di cedere alle tentazioni, un ragazzo nato del ’99 che sceglie in base al denaro offerto non fa altro che vivere il modello di vita proposto, ovunque. È una questione culturale. Indignarsi è il sintomo del problema, non la sua soluzione.
Che ci si aspetta, che il Donnarumma di turno faccia la rivoluzione? Per favore. Come scritto ne “Il Dio che non c’è“, viviamo in una nullificante banalità del quotidiano, consumatori spasmodici di uno sport ridotto a numeri, statistiche, prestazioni fisiche. Tra società dello spettacolo e dell’edonismo, l’unica cosa che conta è il potere dell’esibizione che è dato dal potere dei soldi. Il resto sono chiacchiere romantiche. Perché dimenticarsene e ricordarsene a comando, giusto per sentirsi in pace con la propria (ormai risibile) sensibilità? Di nuovo basterebbe guardarsi attorno perché, come dice il filosofo Galimberti, finché tutti non rinunceremo a qualcosa di utile per qualcosa di giusto, non cambierà niente.