A Roma basta uscire di casa, letteralmente, per capire quanto questa città sia malata di calcio. Al bar, nei mercati, sui luoghi di lavoro ma anche per strada, dove le persone si incrociano e scambiano frasi di circostanza: si parla solo di Dybala alla Roma. Fisiologico in una città che si nutre di pallone e soprattutto di entusiasmi nel pallone, come dimostrato dai biblici festeggiamenti per la vittoria in Conference (razionalmente anche esagerati, ma emblematici) e anche dai numeri della campagna abbonamenti, 36mila tessere vendute come non accadeva dal 2004.
In questi ultimi anni, d’altronde, la volontà di potenza del tifo romanista aveva ribollito come magna nelle viscere della terra: un sentimento eterno per una città eterna, che aspettava solo il momento per eruttare di nuovo, impetuoso e incontenibile come prima, più di prima. La verità è che a Roma la vita stessa di centinaia di migliaia di persone, senza differenze di zona o ceto sociale, si identifica con il romanismo: è un marchio speciale di speciale disperazione, come avrebbe detto De André, o comunque un elemento inconfondibile e imprescindibile delle loro esistenze; insieme un assoluto di collettività e di unicità, una narrazione di popolo e un amore individuale, un orgoglio inclusivo ed esclusivo. Comunque un tifo in grado di condizionare esistenze e influenzare gli umori per giorni, settimane, stagioni.
Lotito ai tifosi della Lazio: «ma gli abbonamenti quando li fate?Stiamo ancora a 8500 abbonamenti contro i 36 mila della Roma?». Ci sarà un motivo, soprattutto dirigenziale…
In Italia infuria la crisi di governo e il Paese è alla deriva ma alla gente, o almeno ai romanisti, non gliene frega nulla. L’unico autunno caldo a cui pensano è quello con Dybala-Abraham là davanti, tra campionato e Europa League. Poi la guerra, la siccità, la crisi energetica (qualcuno l’ha definita “pandemia energetica”, e allora sì che ce la meritiamo), la pandemia normale, passa tutto in secondo piano. Gente che magari fatica ad arrivare a fine mese, a cui il lavoro va sempre peggio e lo stipendio non basta più per pagare le bollette, che pensa solo a una cosa: Paulo Dybala è un nuovo giocatore della Roma.
Questo è sintomatico, ma andrebbe compreso anziché condannato. Nell’epoca in cui tutto crolla, l’utilitarismo e il menefreghismo orientano le nostre azioni e valutazioni, ogni convinzione sembra essere annacquata e ogni coerenza superata – come dimostrano comparse di politici che sono solo il nostro riflesso peggiore –, nell’epoca ancora in cui il disincanto e il nulla avanzano a passi da gigante il tifo resiste, ostinato e a questo punto non solo contrario ma addirittura patologico. È forse rimasta l’ultima cosa in cui credere e identificarsi, l’unico motivo per scendere in piazza, la sola fonte di esaltazione e speranza, se vogliamo anche di rivincita sull’esistenza.
In tanti ottusamente non capiscono, marxiani e marziani, sgranano gli occhi e con aria di superiorità parlano di calcio come “oppio dei popoli”, non riuscendo a processare questa superstizione e incantesimo collettivo. Non comprendono anche il valore di rivalsa che una squadra come la Roma, così come tantissime altre, può avere per un suo tifoso: una vittoria o una stagione bastano per rifarsi di un’esistenza di stenti, stress, insoddisfazioni. Sembra strano ma è così, ed è un concetto chiave del romanismo riconosciuto anche dalla canzone vendittiana che parte all’Olimpico dopo ogni partita, Grazie Roma:
“Dimmi chi è che me fa sentì importante anche se nun conto niente, che mi fa re, quando sento le campane la domenica mattina. Dimmi chi è chi è, che me fa campà sta vita così piena de problemi e che me dà coraggio, se tu me voi bene”.
La Roma che “ci sono stati giorni amari che, c’avevo solamente te, e poco altro per star bene” per dirla invece con la canzone che ha spopolato di Marco Conidi, ultima speranza in un mondo disperato. E la Roma che soddisfa un ossimoro, quello di essere sia uno sfondo di senso della vita sia una fuga dalle angosce di tutti i giorni: sia moglie, in una relazione monogama ed eterna, che amante, scappatoia dai doveri quotidiani. Una passione totalitaria che ha spinto oltre 3mila persone a collegarsi su un sito per vedere a che punto fosse il volo del nuovo acquisto Dybala. Una follia febbrile che oltrepassa i limiti della sanità mentale, con migliaia di tifosi sognanti, frenetici, esagitati, sognanti, alienati, preoccupati fino alla fine che qualcosa andasse storto, che quel volo magari cascasse o non arrivasse – neanche potessero andare a Fiumicino a prendere la Joya ché l’aereo atterrava in Portogallo.
“Una malattia giovanile che dura tutta la vita”
Qua non ci interessa discutere di Dybala: del suo apporto tecnico, tattico, fisico; del fatto che la Roma fosse per lui la sola opzione possibile come scrive qualcuno, o di quello per cui chi si ritrova svincolato a 28 anni e senza offerte dei più grandi club non può essere considerato, automaticamente, tra i più grandi calciatori. Non è di questo che stiamo parlando ma dell’entusiasmo dei tifosi della Roma, sapientemente alimentato dai Fredkin i quali, ancora prima, sono stati formidabili nell’intuirne le risorse e le potenzialità: con i gesti verso i tifosi (dal vecchio stemma in parte ripristinato ai prezzi stracciati dei biglietti), con l’ingaggio di Mourinho, con il marketing, con i colpi alla Dybala.
E anche qui si sfata un tabù, quello per il quale un progetto si sviluppa innanzitutto con “il gioco”, magari con un gioco moderno ed offensivo: una semplificazione ottusa, un’approssimazione per difetto di chi è convinto che il calcio si riduca ai fatti di campo.
Un progetto può crescere invece con una gestione a 360 gradi, con il mercato, con il coinvolgimento dei tifosi, con il nuovo stadio (per cui la situazione pare essersi sbloccata nella Capitale), con la OPA lanciata per completare il delisting e quindi uscire dalla Borsa; con un allenatore che preferisce tirare fuori dai suoi fedelissimi virtù umane e caratteriali ancor prima che tattiche, che fa vincere loro partite con altre strade che non siano quella “maestra”, secondo alcuni, del gioco (come gli 1-0 in Conference), e che rappresenta una calamita e una garanzia affinché giocatori importanti sposino il progetto tecnico della squadra.
È così che a distanza di un anno dall’ingaggio del vecchio e superato Mourinho la Roma è in netta ascesa, e anche per tanti calciatori – magari in cerca di rilancio ad altissimi livelli – risulta un’opzione concreta e stimolante, preferibile rispetto ad altre che magari garantiscono palcoscenici più prestigiosi (come il Napoli con la Champions, a proposito di Dybala) ma che non danno l’impressione di avere le solide basi e i margini di crescita del progetto romanista. È l’effetto Mourinho, il quale ha contribuito a riaccendere l’effetto Roma: un entusiasmo elettrico ed antico, una forza di massa, critica e pronta a mutare, ma che senza i Friedkin sarebbe rimasta inattiva ancora per un po’. Come ha dovuto ammettere anche il barista sotto casa, un vecchio comunista convertito meloniano: “non tutti gli americani vengono per nuocere”. Non l’ha detta così letteraria, ma questo era il senso.