La Bellezza è un enigma, dice Myškin. Attraverso di essa si è salvato il mondo, si è salvato il Napoli, ci siamo salvati noi.
Non c’è aforisma più abusato di “la bellezza salverà il mondo”, principio cardine su cui si fonda gran parte dell’opera dostoevskiana. Non vediamo l’ora di utilizzarlo per dimostrare in un colpo solo sensibilità e cultura. In fondo sono cinque parole facili da ricordare e che ben si adattano a ogni situazione, togliendoci fuori dagli impacci in una frazione di secondo: una vera e propria uscita di sicurezza a portata di chiacchiera. In realtà, tale semplicità nasconde una complessità impareggiabile.
Il solo soffermarsi sul concetto di “bellezza” richiederebbe uno sforzo non indifferente, al punto che se arrivassimo a dominarlo ci penseremmo su più di una volta prima di tirarlo fuori così a cuor leggero: l’ambita uscita di sicurezza di colpo si tramuterebbe in un baratro senza fine. Perché la Bellezza è sì alla portata di tutti, ma non è gratis. Arrivarci è un vero e proprio lavoro. Implica la ricerca in chi la crea e la comprensione in chi la riconosce. Due attività accomunate da un perpetuo dubitare, ovvero ciò che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi.
Perché sì, non esiste vera Bellezza senza l’uomo: lo stesso mare si scoprirebbe improvvisamente piccolo e insicuro se non ci fosse l’uomo a raccontarlo e a magnificarlo, conferendogli il dono dell’invincibilità a volte a costo di perdere la vita. Ma soprattutto non esiste Bellezza senza dubbio. Ecco perché è pressoché impossibile riconoscere la Bellezza nella concretezza, in quanto tutto ciò che è quantificabile dispensa l’uomo dal pensare e dal dubitare, quindi dal prendere parte al salvataggio del mondo.
Un mondo che è necessariamente in pericolo, altrimenti non avrebbe bisogno di essere salvato. Così come sono in pericolo tutti i microcosmi contenuti al suo interno. Calcio compreso. Per la verità il mondo del pallone ha provato più volte a recepire la visione dostoevskiana, ma al momento opportuno l’ha rinnegata in nome del resultadismo, ossia della concretezza.
Con la Bellezza si è solo riempito la bocca evitando accuratamente di perseguirla, riconoscerla e difenderla veramente. Di recente, l’unico tentativo idoneo a salvare il calcio, segnatamente la Serie A, è stato messo in pratica da Maurizio Sarri. Nelle ultime stagioni il massimo campionato italiano è diventato il torneo più ‘pericolante’ tra quelli che contano. Il fatto che a dominare la scena da sette anni sia la stessa squadra, la Juventus, che peraltro fonda la sua stessa esistenza sulla concretezza, eleggendo la vittoria a unica cosa che conta, è giocoforza il più difficile da salvare.
Intendiamoci, pur essendo due cose ben distinte, Bellezza e concretezza in casi eccezionali possono anche coesistere. Ma la convivenza sarebbe inevitabilmente a tempo determinato. Non si sopporterebbero. A un certo punto la concretezza prenderebbe il sopravvento invadendo gli spazi di pertinenza della Bellezza. Limiterebbe il suo raggio d’azione fino ad annientarla. O peggio, a confondersi con essa. Illudendosi e illudendo di essere essa stessa Bellezza, con il rischio di dare vita a uno scenario apocalittico in cui non ci sarebbe il benché minimo margine per letture alternative della realtà che siano scevre da numeri o bacheche.
Ebbene, il Napoli di Sarri in questi tre anni ha impedito questo scempio dello spirito critico. Si è accreditato come eterodossia in un mondo prono all’ordine precostituito che si nutre di chiusura mentale e letture geometriche. Ha dimostrato che due + due non è sempre uguale a quattro. Sarri ha preso una buona squadra e ne ha fatto Bellezza. Ha inculcato il dubbio in ciascun giocatore, che, proprio come l’allenatore stesso, ha iniziato a cercare e a cercarsi.
Prima dell’avvento di Sarri, ogni calciatore del Napoli era convinto che il suo livello massimo fosse stato già raggiunto e che magari andava soltanto limato. Sarri ne ha invece rivoluzionato la vita. Ha insegnato a ognuno di loro la gioia di giocare a calcio, impegnandosi in prima persona a risarcirli della curiosità fanciullesca che con il passare degli anni tutti noi siamo destinati a perdere. Questo mix tra curiosità e ricerca ha dato vita a una sorta di interdipendenza del miglioramento.
Ogni singolo giocatore ha trovato la sua massima libertà di espressione nell’affermazione dell’altro e viceversa. Non c’è stato spazio né bisogno dell’individualismo. Avrebbe significato un’interruzione della ricerca, quindi del divertimento, in ultima istanza del perseguimento della Bellezza. E invece la ricerca è durata tre anni. Tre anni meravigliosi in cui guardare una partita del Napoli è stato un privilegio. Perché quel risarcimento che Sarri ha corrisposto ai giocatori, i giocatori l’hanno destinato a tifosi e appassionati, che come d’incanto si sono sentiti parte integrante di quella macchina del tempo perduto.
A un certo punto, però, il livello raggiunto è stato talmente elevato da autorizzare qualche concessione al resultadismo: in fondo se il Napoli di Sarri avesse vinto qualcosa sarebbe stato uno di quei casi eccezionali di convivenza tra Bellezza e concretezza. Anzi, la concretezza sarebbe stata proprio una conseguenza della Bellezza. Eppure non è successo.
Pur avvicinandosi di anno in anno sempre di più alla prima della classe, Sarri ha lasciato la bacheca azzurra così come l’aveva trovata. Per un semplice motivo: si è trattato di Bellezza vera. Di quella Bellezza che non scende a compromessi con il risultato per garantirsi un posto nella memoria collettiva. Non siamo ipocriti, la conquista dello scudetto avrebbe dato vita a uno scenario irripetibile in una città irripetibile, ma allo stesso tempo avrebbe reso la Bellezza troppo riconoscibile. L’avrebbe sviata dalla sua missione primordiale. Perché contrariamente a quanto si possa pensare, la Bellezza non può conquistare niente e nessuno.
E’ la Bellezza che deve essere conquistata. Solo allora potrà ricompensare lo sforzo profuso per inseguirla con la salvezza del mondo. E’ per questo motivo che ricordarsi del Napoli di Sarri sarà un po’ come salvarsi.