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Editoriali
Andrea Antonioli
19 Aprile 2021
Fate la Superlega e levatevi dai c*glioni
Il calcio appartiene a noi, non a loro.
“Ed io non voglio più essere io!”, prorompe il poeta dall’animo esausto, consapevole di non potersi adattare ad una vita profondamente impropria, insoddisfacente. Il temperamento desolato e insofferente nei riguardi dell’esistenza lega la celebre lirica di Gozzano all’animo afflitto di Edoardo Agnelli, anch’egli torinese, moribondo e crepuscolare. Primogenito di quell’esteta gelido che fu l’Avvocato, in potenza predestinato ma fatalmente inadatto al jet set del capitalismo italiano. Edoardo Agnelli non fu soltanto un rampollo mancato, ma rappresentò la vera e propria nemesi di una dinastia, di un’epoca e di un’ideologia, quella capitalista, che mantiene, secondo le parole di Byung-Chul-Han, «la credenza arcaica che il patrimonio accumulato scacci la morte».
Edoardo nasce a New York nel 1954, l’infanzia è a metà tra Villar Perosa e gli States, dove studia lettere e si appassiona alle religioni orientali. Del pragmatismo mordace di famiglia non eredita pressoché nulla: ricorre sovente ad una boutade, “più fiori e meno automobili a Mirafiori”, che certo l’Avvocato non doveva gradire. Usava indirizzare al padre delle missive in cui, all’emblematica intestazione di “Signor Presidente della Fiat” seguivano strali di critica alla gestione oltremodo utilitaristica e alienante della Fiat. Scriverà, nell’ultima lettera alla sorella,
«lo sai bene che la mia mente vola alto sopra le megalopoli industriali e, osservando con attenzione sotto, vede poco di buono e tantissimo da trasformare».
È quanto basta a mostrare le dinamiche di un rapporto inconciliabile tra mondi e personalità antitetici. Gianni, charmeur mondanissimo, superuomo dell’industria dall’ego smisurato, ed Edoardo, fine umanista capace di dibattere con Margherita Hack, incline allo svuotamento del sé nella meditazione più che all’andare camminare lavorare.
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