Forse in Tabarasan, la lingua di suo padre, la parola “arrendersi” non esiste. E forse oggi Volgograd non si chiamerebbe così senza la tempra inflessibile dei suoi abitanti. Sembra impossibile infatti sciogliere la storia di Elena Isinbaeva da quella delle sue origini: le rive del Volga la vedono venire alla luce il 3 giugno 1982 nella ex Stalingrado, teatro dell’estrema resistenza sovietica all’assedio tedesco tra il ’42 e il ‘43, e come ai suoi antenati la mollezza non le è mai appartenuta.
Viene allenata fin da piccola come ginnasta ma, giudicata troppo cresciuta per la disciplina (1,74m), compie il percoso più scontato seppur sofferto: all’età di 16 anni,passa al salto con l’asta. Sei mesi di allenamento e – stupendo anche se stessa – alla terza gara vince i Giochi Mondiali Giovanili di Mosca ’98, competizione in cui trionferà nuovamente l’anno seguente. È il segno dei predestinati, anche perché il Dio dello Sport a Sydney 2000 fa inserire nelle discipline olimpiche il salto con l’asta femminile, e la carriera di Elena è una scalata verso il tetto del mondo.
Due ori olimpici (Atene 2004 e Pechino 2008), sette ori mondiali tra indoor e outdoor, 28 record del mondo, tre riconoscimenti come migliore atleta femminile dell’anno dalla IAAF (Federazione internazionale di atletica leggera); e ancora Elena è la prima donna a superare i famigerati 5m, e il picco di 5,06m ottenuto a Zurigo nel 2009 risulta ad oggi l’altezza massima mai raggiunta nella disciplina. Costruita e purificata insieme a due dei migliori allenatori di sempre, Yevgeny Trofimov e Vitaly Petrov, la sua tecnica è perfetta e il suo gesto in pedana è una poesia che inizia con delle parole sussurrate dolci e veloci tra le labbra.
“È un dialogo tra me e l’asta. Cerco solo di mettere la battaglia dentro di me”.
Gli occhi azzurri sono profondi di concentrazione, i pugni si chiudono sull’attrezzo, il torso si inarca e le braccia alzano l’asta. La corsa è decisa, ritmata, sicura e, quando l’asta si presenta nella cassetta d’imbucata, elevazione-valicamento-ricaduta sono i tre versi di un haiku comprensibile a tutti. L’incantesimo che inizia con quelle parole silenziose avvolge lei e chiunque la guardi, fino a rompersi in un’azione tanto veloce quanto assoluta.
La vita personale racconta di una donna completa che, mentre gareggiava come capitano per il gruppo sportivo militare delle Ferrovie russe, ha intrapreso un percorso di studi universitari all’Università di Volgograd proseguito in un dottorato all’ateneo di Donetsk; in tutto questo, come se non bastasse, nel giugno 2014 è diventata madre di Eva poco dopo aver sposato il giavellottista Nikita Petinov. Una donna a 360 gradi, forte e decisa, che però sarebbe troppo semplice – e retorico – tratteggiare con lo stereotipo della sovietica invincibile. La carriera sportiva le ha riservato anche momenti non facili, che l’hanno addirittura portata a sospendere l’attività agonistica dopo grosse delusioni tra cui il quarto posto ai mondiali al coperto di Doha 2010.
Accade a molti atleti: tra leggeri infortuni e insicurezze tecniche, un muro di certezze viene improvvisamente scalfito da una piccola crepa che, se non arginata, può vanificare i risultati di anni di sacrificio. È qui che nella storia di Elena Isinbaeva emerge una forza d’animo che le permette di tornare più forte e più sicura di prima. Nel 2011 il rientro sotto la guida del suo primo mentore Trofimov è una resurrezione: record del mondo indoor a 5,01m a Stoccolma 2012 e vittoria del Mondiale di Istanbul anch’esso al coperto, seguiti da un bronzo olimpico a Londra (sempre nel 2012) e da molte altre soddisfazioni.
Oggi Elena è membro della Commissione Atleti del CIO, incarico che è libera di ricoprire dopo il ritiro “forzato” pre Giochi di Rio 2016. Un addio amaro, subìto più che scelto, conseguenza della sospensione dalle competizioni internazionali inflitta all’intera delegazione russa per l’accusa di doping di Stato. Un simile evento, però, ha fatto definitivamente emergere la personalità carismatica e patriottica dell’astista, che già si era ampiamente manifestata qualche anno prima.
2013. Opponendosi alla legislazione russa sulla pubblicizzazione di quelle che a Mosca sono chiamate “relazioni non tradizionali”, la saltatrice in alto svedese Emma Green-Tregaro si presentò ai mondiali di Mosca 2013 con le unghie dipinte della bandiera arcobaleno, sostenendo pubblicamente la causa delle comunità LGBT e criticando la normativa russa. Isinbaeva, interpellata sull’argomento, condannò la presa di posizione della collega non tanto per il merito quanto invece per il metodo: la sua intenzione, prima di tutto, era salvaguardare l’indipendenza e il rispetto dell’ordinamento del suo Paese da ingerenze esterne. Al di là del bene e del male, ma sempre dalla parte della Russia.
Nel 2016, invece, Isinbaeva si è fatta portavoce del ricorso (poi respinto) presentato dal Comitato Olimpico russo e da altri 67 atleti al TAS contro la scelta della IAAF di sospendere senza termine la Russia dalle competizioni internazionali. La decisione era stata assunta dopo l’inchiesta WADA sui laboratori di Mosca e Sochi: secondo il rapporto del giurisperito indipendente Richard McLaren, sostanzialmente, in Russia c’era un vero e proprio sistema di falsificazione statale dei test sotto diretto controllo del Ministro dello Sport.
La sospensione tuttavia aveva coinvolto spesso atleti risultati puliti a ogni controllo, anche internazionale, e – secondo Isinbaeva e Mutko, il ministro russo chiamato in causa – difficilmente la misura si poteva spiegare se non con motivazioni politiche. Costretta così a non partecipare alla sua ultima olimpiade, obiettivo a cui aveva dedicato il ritorno in pedana e la preparazione per un nuovo record del mondo, l’astista di Volgograd ha terminato la carriera con i Campionati nazionali russi a Čeboksary segnando la miglior prestazione dell’anno (4,90m).
«È il funeraledell’atletica leggera», ha detto a caldo dopo la conferma dell’esclusione. «Adesso tutti questi sportivi stranieri pseudo-puliti possono tirare un sospiro di sollievo e vincere le loro pseudo-medaglie in nostra assenza». A ridosso della finale olimpica ha invece affermato:
“Non avevo dubbi sulle mie possibilità, credevo nella vittoria. Stasera ci sarà la finale senza di me. Non sono arrabbiata con le atlete, non è colpa loro, ma se vinci senza la Isinbaeva non è vero oro. Se stasera guarderò la finale? No, ci sono atleti russi in altri sport da supportare. Non andrò in un posto dove invece non c’è nessun mio connazionale in gara. Non sarà un vero oro“.
Negli ultimi anni la querelle tra la WADA e la Federazione Russa è proseguita implacabile a colpi di rapporti, accuse, esclusioni e smentite. Non ci interessa qui approfondire la questione – né avremmo noi i mezzi per dire dove si trovi la verità – ma certamente non può essere questa vicenda ad oscurare la stella di Elena Isinbaeva.
Parliamo di un’atleta che ha segnato per sempre la sua disciplina, orgogliosa della propria Nazione e della propria storia, una donna completa che non ha rinunciato alla famiglia ma che anzi su di essa ha corroborato una personalità già solida. Un “femminismo” sui generis quello della Isinbaeva che non piace molto dalle nostre parti, troppo politico o meglio politicamente irricevibile: filo-putiniano, “antioccidentale”, ortodosso, secondo alcuni addirittura omofobo. Noi non ci permettiamo di giudicare la persona, ma certamente nella sua storia sportiva di grande atleta, madre e simbolo nazionale troviamo un modello tanto lontano quanto affascinante. Per tutto il resto, riprendendo le sue stesse parole:
“Sarà Dio a giudicare quello che hanno fatto a me e alla Russia”.
Di fronte a un'ingiustizia che sa di sconfitta, Nibali ci insegna a perseverare nella pazienza. Invece della burrasca, il mare calmo, prima che il sole sorga.