Un articolo dalla “Posta del cuore” de l’Ultimo Uomo, a cura dell’eccellente Dario Saltari, cercava di sviluppare un pensiero sullo sfondo distopico della domanda: è possibile rimuovere il pareggio nel calcio? Il tema è profondo perché non riguarda la singola partita ma l’essenza stessa del football.
Nonostante il senso comune ci suggerisca l’equazione pareggio=noia, una partita finita 3-3 è stata, con ogni probabilità, tutt’altro noiosa; allo stesso modo, se una partita finisce 1-0 non è affatto detto che sia stata divertente. Questo banale doppio esempio è necessario a scacciare i guai derivanti da una lettura superficiale dell’argomento.
Nel libro di Nick Hornby, Fever Pitch, si legge una frase poi rimasta celebre: «C’è sempre un’altra stagione». Che c’azzecca, questo, col pareggio? Apparentemente niente. Forse Hornby vuol dire, semplicemente, che alle delusioni di un tifoso segue inevitabilmente la speranza di una nuova aurora ricca di gioie; che il sereno, insomma, lo sia ancor di più dopo la tempesta. Meno poeticamente, che ad una sconfitta possa seguire una vittoria. O un pareggio.
Eroe per sempre: Simeone abbraccia Castroman, autore del gol del 2-2 nel derby di Roma, stagione 2000/01 (foto LaPresse)
È difficile identificare nella vita qualcosa come il pareggio, perché sono molte – nel calcio – le occasioni in cui un pareggio fa gioire come una vittoria, molte quelle in cui fa disperare come una sconfitta. Il bello del pareggio è proprio questo. È impossibile figurarsi la parità nella vita di tutti i giorni: la parità non è nell’evento come tale, ma al termine di ogni tempo. Nella dialettica degli opposti non si dà mai sintesi, ma tensione.
Ecco: Alessandro, morto e seppellito,
ritorna polvere. Polvere è terra;
e con la terra che si fa? La creta.
E perché con la creta in che è ridotto
non possiamo turare un barilotto?
“L’imperial Giulio Cesare
“potrebbe ben servire
“a chiudere uno spiffero di vento.
“Quella creta che tenne il pugno duro
“sul mondo, messa a fare da rammendo
“alla crepa d’un muro,
“fa da riparo al soffio dell’inverno”. (Amleto, Atto V)
«Panta rei», signori miei. Tutto scorre, ecco il pareggio. Nella logica positivista che vorrebbe ad ogni costo vedere la sconfitta o la vittoria al termine di un incontro di calcio si nasconde, in fondo, l’idea di sport americano-centrica: quella per cui, in fondo, è la statistica a mangiarsi l’evento. È il calcolo rapido e soddisfacente ad oscurare il divenire. Vittoria o sconfitta, dunque. Non però al grido di “O Fiume o morte!”. La vittoria, anzi, equivale in un certo modo alla sconfitta, perché ciò che conta davvero è mangiare tanto, non bene. Quindi? Aboliamo il pareggio! Una squadra o vince o vince. E l’altra, la perdente, che fine fa? Un’ombra senza corpo. Che lo spettacolo abbia inizio (cioè fine).
Il pareggio di Materazzi durante la finale del Mondiale 2006 (foto di Martin Rose/Bongarts/Getty Images)
«Ogni partita», disse un giorno Blatter «dovrebbe avere una squadra vincitrice. Una partita è fatta di emozioni. C’è passione. Può essere drammatica. Alla fine, è quasi sempre una tragedia». Blatter, qui come altrove, caga fuori dal vasetto. Le sue parole sono pericolose: “dramma” e “tragedia” sono utilizzate a sproposito, perché se c’è qualcosa che rende il calcio davvero unico è la sua imprevedibilità. L’imprevedibilità è il destino e il destino è la tragedia. Assegnare la vittoria ad una delle squadre significa perdere di vista la tragedia come tale, ghiotti solo dell’esito. Inutile dire, poi, che se ogni tragedia è anche drammatica, non ogni dramma è tragico.
C’è poi da affrontare un discorso prettamente calcistico. Che il calcio stia andando nella direzione dello spettacolo per lo spettacolo è un fatto piuttosto evidente. Che da ciò ne derivi una dimenticanza pressoché totale del credo difensivo non è un fatto ma una sua possibile (e più che plausibile) interpretazione. I difensori non sanno più difendere, i portieri non sanno più parare; gli uni devono saper impostare, gli altri devono saper far partire l’azione da dietro (essere bravi coi piedi). Se una squadra segna, un portiere subisce gol. Se una squadra segna tanti gol, la difesa ha giocato male. Dietro l’ottica dell’abolizione del pareggio si nasconde infida la duplice supposizione che il portiere e la difesa siano ostacoli allo spettacolo della partita.
Manuel Neuer, autentico rivoluzionario (foto di Alexander Hassenstein/Bongarts/Getty Images)
È vero che l’obiettivo di una partita è vincere, ma non è altrettanto vero che la vittoria sia sempre quella di una squadra che ha effettivamente vinto quella partita. Se una squadra è già retrocessa e vince una partita inutile ai fini della propria stagione, ha davvero “vinto”? Al contrario, se una squadra – in un’ipotetica doppia sfida a eliminazione diretta – perde ma passa il turno, possiamo davvero parlare di “sconfitta”?
Prendete a mo’ di esempio Barcellona-Inter del 2010. L’andata finisce 3-1 per i nerazzurri. Al ritorno, col 2-0 passerebbero i catalani, ma l’1-0 basta alla formazione di Mourinho per accedere alla finale di Champions League. Quanti di voi oserebbero definire quello stoico 1-0 come una sconfitta? La storia parla chiaro: l’Inter passa quel turno, vince la finale col Bayern Monaco e passa alla storia come la squadra del Triplete.
Forse il problema è proprio la ricerca spasmodica del dominio. Quella che, tanto per intenderci, costringe i portieri a giocare la palla ad ogni costo, persino al costo di risultare goffi e pericolosi (dannosi) per la propria squadra. Da Guardiola in avanti il calcio è cambiato. È difficile stabilire se in meglio o in peggio. Vedere quel Barcellona coinvolgere tutti e undici gli uomini in campo, con un palleggio così elegante e al tempo stesso efficace, è stato emozionante; vedere l’Empoli andare in Serie B nel tentativo di giocare un calcio palla a terra, spumeggiante nelle intenzioni e vano nella pratica, è stato stucchevole.
Boniperti un dì chiosò: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta»; non specificò come. Il pareggio è il come se del calcio.
Quanta meraviglia, quanto spettacolo, nell’Atletico Madrid di Simeone, catenacciara per antonomasia; chi lo ha detto che il divertimento è il dominio? Ad un 3-0 secco e senza antagonismo è preferibile la guerra di trincea di undici uomini a difesa del proprio portiere. A chi si emoziona per un doppio passo di Neymar, rispondiamo con un recupero in scivolata de le petite diable Griezmann.
In conclusione: il calcio è un gioco imprevedibile. È un bene, ogni tanto, assistere ad una (fase) finale, godersi una lotteria dei rigori col dramma dei duellanti e la tragedia dei vincitori e degli sconfitti. È un bene, ma non è tutto. Boniperti un dì chiosò: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta»; non specificò come. Il pareggio è il come se del calcio. Salvezza delle neopromosse e frustrazione delle “big”, può far grande il piccolo, e piccolo chi è grande.
Ormai da anni rappresentiamo un’alternativa nella narrazione
sportiva italiana: qualcosa che prima non c’era, e dopo di noi
forse non ci sarà. In questo periodo abbiamo offerto contenuti
accessibili a tutti non chiedendo nulla a nessuno, tantomeno
ai lettori. Adesso però il nostro è diventato un lavoro
quotidiano, dalla prima rassegna stampa della mattina
all’ultima notizia della sera. Tutto ciò ha un costo. Perché
la libertà, prima di tutto, ha un costo.
Se ritenete che Contrasti sia un modello virtuoso, un punto di
riferimento o semplicemente un coro necessario nell'arena
sportiva (anche quando non siete d’accordo), sosteneteci: una
piccola donazione per noi significa molto, innanzitutto il
riconoscimento del lavoro di una redazione che di compromessi,
nella vita, ne vuole fare il meno possibile. Ora e sempre, il
cuore resterà il nostro tamburo.