Una vita spesa per il pallone, una passione che trascendeva riconoscimenti e categorie.
Una sedia alzata verso il cielo di Amsterdam. Nella sera del 13 maggio 1992, all’Olympisch Stadion allora casa dell’Ajax, Emiliano Mondonico non riesce a trattenere la rabbia nel vedere il suo capitano Roberto Cravero cadere in area e reclamare platealmente un rigore, nella gara di ritorno della finale di Coppa Uefa.
Il Toro è lì a un passo dal primo successo europeo della sua storia, ma i dettagli spesso non aiutano il più debole, chi è granata lo sa da una vita, così come lo sa l’uomo che sta compiendo un gesto destinato a rimanere l’immagine simbolo non solo della sua avventura torinista, ma di una vita fuori dagli schemi.
La gestualità rusticana è nota al Mondo sin da bambino, quando a Rivolta d’Adda, estremità nordoccidentale della provincia cremonese, nella trattoria di famiglia in riva al fiume, le giornate potevano chiudersi a sediate tra due avventori giunti al culmine della tensione dopo una discussione, e probabilmente dopo aver oltrepassato una certa soglia di tasso etilico. Tra la campagna e il fiume, nella pianura padana degli anni ’50, il piccolo Emiliano iniziava a dare calci ad un pallone e una maglietta viola ricevuta in regalo lo faceva diventare tifoso della Fiorentina, cosa più unica che rara nella zona.
«Qui attorno c’era la mia giungla, ho imparato a giocare a calcio negli spazi fra i pioppi».
Dopo le piante il giovane Mondo inizia a scartare anche i suoi coetanei all’oratorio e la fama sulla sua classe si espande fino ad essere arruolato nelle file della Cremonese. Il salto definitivo avviene con il passaggio al Torino, nel 1968, e qui il ragazzo cresciuto in riva al fiume si sente già arrivato, il sogno di giocare in serie A è realizzato. La sua sfrontatezza lo libera dal peso di dover sostituire Gigi Meroni, suo idolo, nello spogliatoio granata, ma allo stesso tempo gli impedisce di confermarsi a certi livelli. Due anni senza lasciare il segno lo portano a giocare per il resto della carriera solo in Lombardia tra Monza, Atalanta e ancora Cremonese.
«Ho vissuto la mia carriera di giocatore nel pieno dell’immaturità, pensando che tutto fosse un divertimento e di non aver nessun obbligo, ma solo diritti, dando sempre la colpa agli altri. Questa è stata la mia grande forza quando sono diventato allenatore».
Nel 1979 il presidente della società grigiorossa, Domenico Luzzara, gli affida le chiavi del settore giovanile. Adesso Mondonico non è più il giocatore che insultava l’arbitro per essere squalificato la domenica successiva e non perdersi un concerto dei Rolling Stones in tour in Italia. Così come non è più quello sbattuto fuori dallo spogliatoio della Cremonese e definito dal mister di allora “mangiapane a tradimento”. Proprio in quell’occasione il Mondo ritornava al paese per organizzare i giochi della gioventù e dare consigli ai ragazzini, scoprendosi per la prima volta allenatore.
Le sue idee su come crescere i potenziali campioni sono subito abbastanza chiare. Per uno come lui, cresciuto scartando gli alberi nel bosco, il fuoriclasse va lasciato libero di esprimersi. Concetto che mette in pratica quando nel vivaio grigiorosso si ritrova tra le mani Gianluca Vialli, che ricorderà Emiliano Mondonico come un maestro. Passati entrambi in prima squadra i due saranno gli artefici, nel 1984, del ritorno in serie A della Cremonese dopo 54 anni.
«Con me, Gianluca aveva il numero 8, che ho sempre riservato all’elemento più estroso […] La posizione sul campo, giocatori così, sono loro a cercarsela. Costringere Vialli in un ruolo è sacrificarlo, lui deve andare dove vuole». Con la partenza di Vialli verso la Sampdoria, la Cremonese svolge il ruolo della vittima sacrificale, la categoria non viene mantenuta e dopo un altro anno di cadetteria Mondonico va al Como, che si piazza nono nella massima serie. Poi la svolta, nel 1987, con la chiamata dell’Atalanta, che sceglie il mister di Rivolta d’Adda per la ripartenza dopo la retrocessione.
Sin dal suo arrivo a Bergamo, il Mondo ha un rapporto speciale con la Curva atalantina, parla e discute con gli ultrà e ci mette poco a diventare l’idolo della tifoseria nerazzurra, pronta a seguirlo ovunque: in Italia e in Europa. Qualcuno storce il naso perché pensa che un allenatore non debba abbassarsi a comunicare direttamente con i tifosi più caldi, ma per Emiliano il futbol è anche, e soprattutto, questo. A lui che scoprì il pallone come primo amico e unico antidoto alla solitudine, non si può chiedere di andare al campo come un impiegato in ufficio.
«Ci vuole amore per andare in pullman a Lisbona o a San Benedetto del Tronto, senza chiedere una lira alla società.[…] Io trovo normale parlare coi tifosi, anche ultrà, ma senza l’aria di scendere dagli scalini. O dovrei parlare dell’Atalanta a gente di cui non frega nulla dell’Atalanta?».
Una bizzarria del destino ha voluto che i nerazzurri iscritti alla Coppa delle Coppe 1987-88, pur ritrovandosi in serie B, grazie alla finale di Coppa Italia raggiunta e poi persa nell’annata precedente contro il Napoli, che però partecipa alla Coppa dei Campioni avendo vinto lo Scudetto. A Bergamo l’obiettivo è riportare subito la squadra in Serie A e nessuno si immagina di fare strada in Europa, ma dopo aver passato i primi turni la banda del Mondo inizia a fare sul serio. Nei quarti, Il successo casalingo per 2-0 contro lo Sporting Lisbona, seguito dall’1-1 in Portogallo, vale una storica qualificazione alla semifinale della seconda coppa europea.
Il sogno si interrompe contro i belgi del Malines con una doppia sconfitta per 2-1, ma il cammino fatto dalla cenerentola della competizione, unito al ritorno nella massima serie, è sufficiente per rendere la stagione trionfale e consacrare Emiliano Mondoniconella mitologia della squadra orobica. Con lui al timone l’Europa diventa di casa per capitan Stromberg e compagni, che conquisteranno un sesto e settimo posto in Serie A, valevoli l’accesso alla Coppa Uefa nelle successive due stagioni.
Nel 1990 il destino tinto di granata bussa di nuovo alla porta del mister di Rivolta d’Adda, vent’anni dopo quella parentesi da calciatore. Il Torino è appena risalito dopo la seconda retrocessione della sua storia e Il Mondo costruisce un gruppo solido capace di qualificarsi alla Coppa Uefa con un quinto posto in campionato, davanti alla Juventus.
I tifosi hanno ritrovato un Toro tremendista, irriverente nei confronti della Vecchia Signora e in grado di combattere ad armi pari nei derby ed uscirne imbattuti. Il vecchio cuore granata trova ora come massima espressione Mondonico in panchina, il furore agonistico di Pasquale Bruno e la classe di Gigi Lentini sul campo.
Al via della stagione 1991-92 gli acquisti dell’attaccante brasiliano Walter Casagrande e del centrocampista italo-belga Vincenzo Scifo arricchiscono la rosa della qualità necessaria al Toro per non presentarsi come semplice comparsa ai nastri di partenza della Coppa Uefa. I granata partono forte, regolando i conti con il KR Reykjavik con un 8-1 complessivo al primo turno, proseguendo la marcia con Boavista e AEK Atene per arrivare ai quarti di finale contro i danesi del Boldklubben 1903, battuti con un risultato globale di 3-0.
L’accesso alla semifinale vale la sfida contro la rivale più prestigiosa del torneo, il Real Madrid. Dopo il 2-1 dell’andata in favore dei Blancos al Bernabeu, è il momento del match clou al Delle Alpi. Il 15 aprile 1992 per Torino-Real Madrid ci sono 70 mila cuori granata, che non hanno voluto mancare l’appuntamento con la storia. Bastano solo sette minuti per il primo boato perché su cross di Lentini, il madridista Rocha infila il proprio portiere per un clamoroso autogol. Il raddoppio lo firma Luca Fusi, nella ripresa, su assist del solito Gigi Lentini che mette in mezzo un palla da depositare solo in rete, per dare il via alla festa.
Il Toro, nella sua prima finale europea, è atteso da un’altra grande del calcio continentale come l’Ajax. Nel match d’andata, al Delle Alpi, il Torino rimonta per due volte lo svantaggio, con una doppietta di Casagrande per il 2-2 finale. Ad Amsterdam bisogna vincere e il Toro le prova tutte per sfidare la sorte, compresa la sedia alzata dal Mondo, ma i sogni di gloria del popolo granata si infrangeranno per tre volte contro i legni, che negheranno il sapore che si prova ad alzare quella coppa.
«Quella sedia è il simbolo di chi tifa contro tutto e tutti. È il simbolo di chi non ci sta e reagisce con i mezzi che ha a disposizione. È un simbolo-Toro perché una sedia non è un fucile, è un’arma da osteria».
Nell’estate del ‘92, in piena crisi societaria, il Torino è costretto a vendere alcuni dei pezzi pregiati, tra i quali Cravero, e soprattutto Lentini con la fragorosa cessione al Milan per 18,5 miliardi di lire. Nonostante mezza squadra smembrata, il mister non molla la presa per altre due stagioni e porta il Toro alla conquista della Coppa Italia nel ‘93, vinta contro la Roma, dopo aver eliminato la Juve in semifinale. Ad oggi questo è l’ultimo trofeo aggiunto nella bacheca granata.
La carriera di Emiliano Mondonico è sulla rampa di lancio e ci si aspetterebbe una chiamata da un’altra grande piazza, ma quella chiamata non arriva e il Mondo torna nella provincia che seppe rendere grande, cioè all’Atalanta, nel 1994 in serie B, dove è possibile far crescere giovani promesse con la massima libertà. Nella seconda avventura a Bergamo c’è subito un’altra promozione e l’anno successivo una finale di Coppa Italia persa contro la Fiorentina.
Il più grande talento di quella squadra, destinato a non sbocciare definitivamente, è Domenico Morfeo, a 19 anni titolare inamovibile e tra i protagonisti dell’europeo under-21 del ‘96 vinto dagli azzurrini. Poi c’è il lancio di Bobo Vieri, esordiente in serie A proprio con Mondonico a Torino, e che in nerazzurro attira le attenzioni della Juventus. Proprio come PaoloMontero, leader della difesa orobica che in bianconero verrà ricordato più per la sua garra charrùa, con tanto di record di cartellini rossi in Serie A, che per le doti tecniche mostrate all’Atalanta. Tutta gente che non si dimenticherà del mister di Rivolta d’Adda e quando avrà occasione lo ritroverà su un campo da calcio o in cascina ad aspettarla a braccia aperte, insieme al suo salame.
Nel 96/97 per sostituire Vieri arriva Pippo Inzaghi, che a Bergamo esplode e si laureerà capocannoniere con 24 reti, per poi passare anch’egli alla Vecchia Signora. A metà campionato l’Atalanta è la sorpresa, con la porta difesa da Davide Pinato che rimane inviolata per ben 757 minuti, ma l’ambiente viene scosso dall’improvvisa scomparsa, in un incidente stradale, del giovane Federico Pisani, al quale verrà intitolata la Curva Nord dell’Atleti Azzurri d’Italia. In quella stagione anche Lentini veste in nerazzurro per rilanciarsi, dopo essere sopravvissuto allo schianto che gli ha precluso una carriera da campione nel Milan, e la possibilità di una reunion con il Mondo è il motivo principale per il quale sceglie l’Atalanta.
«Lo ritengo il mio secondo papà. E’ una persona con cui c’è sempre stato un rapporto di odio e amore, spesso e volentieri ci insultavamo e poi finiva subito lì».
Gigi Lentini
I due si ritrovano anche al Torino tra il 98 e il 2000, dove stavolta è difficile costruire qualcosa di importante in una società ormai entrata nella spirale di una situazione precaria. Per Mondonico seguono annate difficili tra Napoli e Cosenza, qui ancora con Lentini, dove viene chiamato a stagione in corso in contesti incandescenti, ma che il mister porterà lo stesso nel cuore, invitando i suoi colleghi ad andare a confrontarsi con questi ambienti “dove bisogna avere la scorza dura”.
Ancora una sfida attende il Mondo e quale posto migliore della squadra per cui tifa da bambino? La Fiorentina ha bisogno di uno specialista in promozioni, dopo la caduta agli inferi con il fallimento del 2002, e quando nel corso del campionato cadetto 2003-2004 le cose non vanno come sperato Mondonico subentra a Cavasin sulla panchina viola. Il leader di quella squadra è Christian Riganò, che fino a 25 anni faceva il muratore, e dopo una vita passata ai confini del professionismo si ritrova protagonista nel suo primo anno di B, alle soglie dei 30 anni. Tra lui e Mondonico scatta subito un affetto viscerale, perché il mister più di altri sa come ci si comporta con quelli che alla fine sono pur sempre ragazzi.
«Eri un passo avanti a tutti, avevi portato brio e leggerezza in un momento difficile e avevi capito quello di cui la squadra aveva bisogno per vincere. Era difficile non volerti bene grande Mondo. Ti ricordi il torello a tempo? ’Mister, gli ultimi due in mezzo pagano lo champagne’ e si beveva il sabato sera in ritiro».
Christian Riganò
Sul pullman che porta allo stadio prima delle partite non vige più il silenzio, ma viene fatta suonare “Gli spari sopra” di Vasco Rossi a tutto volume e in trasferta può capitare che la squadra si ritrovi su una barca per un tour sul lago di Como, in visita alla Reggia di Caserta o in riva al Garda per uno spritz. Anche con queste cose il Mondo trasmette serenità al gruppo e nella maratona di 46 giornate, di quella serie B a 24 squadre, la Fiorentina riesce ad agguantare l’ultimo posto disponibile per lo spareggio col Perugia.
Il 20 giugno 2004 l’Artemio Franchi è una bolgia pronta a celebrare il ritorno in A, che si realizza con l’1-1 casalingo preceduto dalla vittoria viola per 1-0 dell’andata. Durante la festa sul campo Riganò, in quell’occasione fuori per infortunio, si mette a strattonare per la giacca Mondonico che sembra voler trattenere la sua gioia e si allontana. Un’ora dopo l’attaccante ritrova il mister chiuso nello spogliatoio e in lacrime sul lettino del massaggiatore, a sfogare tutta la tensione accumulata e la rabbia repressa, per tutte le voci che lo davano inadatto a ricoprire tale ruolo e non riconfermato anche in caso di promozione.
Il Mondo, pur di rimanere alla Fiorentina, accetta le condizioni della società, che però nell’ottobre 2004 lo esonera dopo solo sette giornate di campionato, disputate senza capitan Riganò. In un calcio che sta cambiando sempre di più il mister trova una nuova casa ancora in provincia, all’Albinoleffe, dove ogni salvezza viene festeggiata nella sua cascina invitando giocatori, dirigenti e amici, tra i quali Vieri e Montero che non si fanno scappare l’occasione di riabbracciare Mondonico.
La permanenza nella società bergamasca viene interrotta solo per scendere in Serie C e tornare nella sua Cremonese. La piccola Albinoleffe continua a rimanere in Serie B, anche nel 2010-2011 quando il Mondo deve lasciare temporaneamente la panchina per essere operato a causa di un tumore, rientrando poi come sempre ad allenare e guidare la squadra alla salvezza. Quindi il mister farà in tempo a tornare, per un attimo, al centro dell’attenzione nazionalpopolare con la vittoria a San Siro contro l’Inter, nella breve esperienza al Novara, nel febbraio 2012.
«Il pallone è il mio primo amico e sicuramente il pallone sarà il mio ultimo amico».
Prima che la malattia si ripresenti per portarselo via nel marzo 2018, l’amore del Mondo per il futbol è la forza per continuare la sua ultima battaglia e tenerlo vivo. Anche lontano dai riflettori del professionismo la sua passione serve ancora per allenare una comunità di tossicodipendenti e alcolisti, che attraverso un pallone possono riscoprire la voglia di lottare.
In fondo il calcio per Emiliano Mondonico, che fosse giocato ad Amsterdam o a Rivolta d’Adda, da campioni affermati o ragazzi in cerca di una seconda opportunità, è sempre stato la stessa cosa: un modo per condividere la strada con qualcuno, e lasciare agli altri un segno del proprio passaggio.