Francesco Sani
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“L’Empoli non si discute, si ama”. Una scritta su un muro è resistita a lungo a intemperie e al passaggio delle stagioni calcistiche. Poi, alla vigilia del lockdown, quel muro è stato imbiancato, quasi un presagio del campionato sospeso dalla pandemia secolare. Così, proprio nell’anno del Covid-19, l’Empoli Football Club festeggia il suo Centenario. Come si può spiegare a chi non vive in Toscana cosa significano i colori azzurri? Operazione semplice e difficile al medesimo tempo. Forse aiutano le parole del centrocampista Filippo Bandinelli:
“per un calciatore toscano è motivo d’orgoglio vestire la maglia dell’Empoli”.
Tuttavia non basta una frase, non può bastare per un club che ha tratto forza e fortuna dal rimanere sempre legato alle sue radici. Eppure Empoli è una città poco “toscana” all’apparenza. Citata da Dante nella Divina Commedia – come sede del concilio dei Ghibellini nel 1260 dopo la sconfitta della Repubblica fiorentina nella Battaglia di Montaperti – è oggi un polo industriale più tipico della Brianza che da riva d’Arno.
Nessun palio o giostra di origine medioevale dove dividersi in contrade rivali. Però un tessuto sociale vivace come si addice ai luoghi strategici di crocevia. Una città a metà strada tra le colline del Chianti e il mare, all’ombra della vicina e ingombrante Firenze, con la squadra di calcio come simbolo identitario. Il presidente Fabrizio Corsi, in sella da trent’anni, è empolese doc e primo tifoso. Lo staff, la dirigenza, perfino gli sponsor sono tutti legati al territorio.
Il club, fondato da un gruppo di studenti nel 1920 come divisione calcistica dell’Unione Sportiva Empolese, dalla stagione 1963/63 è militante stabile delle categorie professionistiche. Con 13 campionati di Serie A – che valgono quanto qualificarsi alla Champions League per una big – e una partecipazione alla Coppa UEFA nel 2007, l’Empoli è assunto alla fama nazionale in quanto fucina di calciatori dal florido settore giovanile. Alcuni erano cittadini, Andrea Salvadori e Fabrizio Ficini hanno addirittura capitanato la squadra in Serie A, altri sono giunti dalla fertile terra di talenti di Campania per fare la fortuna degli Azzurri: Vincenzo Montella, Totò Di Natale, Francesco Tavano o Carmine Esposito.
Un capitolo a parte, lungo, meriterebbero i calciatori cresciuti e poi venduti a peso d’oro: da Massimo Maccarone al Middlesbrough a Ismaël Bennacer al Milan, per citare la prima e l’ultima cessione eccellente del nuovo secolo. E poi un laboratorio calcistico che ha lanciato la carriera da allenatore di Renzo Ulivieri (1974-1976), Luciano Spalletti (1995-1998) e Maurizio Sarri (2012-2015). Ma in panchina molti si sono distinti per proporre un gioco moderno e divertente: da Gaetano Salvemini a Francesco Guidolin, da Silvio Baldini a Marco Giampaolo. Qui c’è nel DNA la ricerca del bel calcio in qualunque categoria.
Aurelio Andreazzoli nella stagione 2018/19 – dopo una clamorosa traversa di Ciccio Caputo con Handanović già battuto – è retrocesso tra gli applausi di San Siro, tanto per gradire.
Nella Serie A italiana purtroppo per salvarsi bisogna saper giocare le partite “sporche” e gli Azzurri, invece, in più di un’occasione hanno fatto come il calcio della Jugoslavia, tanta bellezza e poca concretezza. L’ultima retrocessione non è stata l’unica che grida vendetta. Dieci anni prima, anche Gigi Cagni non riuscì per un solo punto a salvare una talentosa quanto sfortunata squadra, che aveva in rosa giovani destinati a fare strada: Ignazio Abate, Sebastian Giovinco e Claudio Marchisio.
Per rendere l’idea delle sliding doors di una stagione anch’essa segnata a San Siro – per un rigore sbagliato da Luca Saudati – bisogna citare proprio l’autobiografia di Marchisio. Nonostante sia una bandiera della Juventus, nel suo libro scrive che la delusione più grande della carriera è stata la retrocessione nel 2008 con l’Empoli. Come?! Lui che ha perso una finale degli Europei con la maglia della Nazionale e due finali di Champions League con quella bianconera!? Sì, spiega, perché raggiungere quelle finali era già stato un successo e le aveva giocate da sfavorito. Delusioni messe in conto, ma quella stagione in maglia azzurra meritava un destino diverso.
La bacheca è povera di trofei: una Coppa Italia di Serie C nel 1996 e 2 campionati di Serie B vinti sui 21 disputati (per un totale di 6 promozioni). Ma comunque i trofei non sarebbero rappresentativi del Centenario. Lo sono, bensì, gli infuocati derby con la Fiorentina, il Pisa, il Siena o la Pistoiese. E ancora salvezze miracolose e vittorie storiche contro le big del calcio italiano. La prima di queste proprio alla prima in assoluto in Serie A, il 14 settembre 1986, quando l’Empoli giocò con l’Inter allenata da Giovanni Trapattoni. A causa dei lavori di adeguamento allo stadio, l’esordio ebbe luogo al Comunale di Firenze.
Tutti si aspettavano che la squadra di Rummenigge e Passarella travolgesse i ragazzi di Salvemini. Ma di quel giorno, per i tifosi azzurri presenti, rimarrà a vita un fermo immagine: al 37’ Salvadori sradica un pallone dai piedi di Tardelli. Giro palla veloce in contropiede a Casaroli, poi Della Monica, da questi a Zennaro, il cui traversone fu incornato in rete con perfetta scelta di tempo da Marco Osio per l’1-0. Il clamoroso risultato rimase immutato fino al triplice fischio di Pairetto.
“Le sue prodezze confondono i buoni e fanno digrignare i più esigenti. Se basta l’umile Empoli a mortificare le nostre deità, non sarà errato il culto di cui ci andiamo beando?” (Gianni Brera)
Quel campionato culminò nella prima mitica salvezza, ottenuta all’ultima giornata sul campo del Como, il 17 maggio 1987. La classifica dopo la penultima partita diceva: Udinese già retrocessa con 14 punti, Empoli e Atalanta 21, Brescia virtualmente salvo a 22. Nel finale dell’ultima gara ecco il miracolo. La Juventus piegò il Brescia 3-2, la Fiorentina non fece sconti all’Atalanta vincendo 1-0 e… Marco Osio al 66’ chiuse la stagione come l’aveva iniziata, segnando una rete decisiva.
Per chi trova il video della gara su YouTube è emozionante vedere quanti fossero gli empolesi al seguito in tripudio. Già, gli empolesi, non una nota tifoseria calda ma sempre tanti in rapporto alle dimensioni della città. Il 22 giugno 1996 saranno in 6.000 a Modena alla finale Play off che sancì il ritorno in Serie B, altrettanti un anno dopo a Cremona per assistere al ritorno in Serie A lasciata nel 1988 (a causa di una penalizzazione di 5 punti per presunta combine di una vecchia partita, sul campo Salvemini e i suoi si erano salvati di nuovo).
L’Empoli, nel 2020, è ancora quel club tipicamente della provincia italiana con tutti i suoi vizi, virtù e l’incredibile capacità di attrarre allo stadio Castellani con richiamo settario: è la squadra che sceglie i suoi tifosi e non viceversa. Proprio Carlo Castellani, il giocatore simbolo della storia azzurra, dice molto sullo spirito del territorio: si consegnò ai tedeschi al posto del padre e morì in un campo di concentramento nazista (oggi la foto con il suo sguardo fiero accoglie le squadre all’ingresso degli spogliatoi dell’impianto, che porta il suo nome).
Tra giocatori e tifosi spesso la simbiosi è speciale. Molti calciatori scelgono di rimanere a vivere in città finita la carriera e alcuni si legano così alla maglia da continuare la tradizione dei dirigenti “fatti in casa”. Gli ultimi due DS (che hanno arricchito le casse societarie con il calciomercato) sono appunto ex giocatori: Marcello Carli ieri, Pietro Accardi oggi. E scommetteremmo su Domenico Maietta domani. Nell’organigramma figurano anche Massimiliano Cappellini e Antonio Buscé, simboli rispettivamente del ciclo vincente con Spalletti e con Baldini. Ed è doveroso ricordare Giovanni Martusciello, allenatore in seconda con Sarri e poi con lui alla Juventus.
Per chiudere, uno sguardo sui tifosi, in precedenza solo accennati.
Gli spalti empolesi hanno accolto tutti e di tutto: vecchi romantici di un calcio che fu, ancora sognanti il gol del mitico Johnny Ekstroëm alla Juventus; calciofili che si sono appassionati per le magie di Ighli Vannucchi; i figli degli immigrati meridionali prima e quelli dei “nuovi italiani” poi; l’attore Carlo Monni e il comico Giorgio Ariani; i giovani militanti del PCI negli anni Settanta e il gerarca fascista Onorio Onori negli anni Trenta. Fu proprio quest’ultimo che evitò la radiazione della società dopo il ritiro dal campionato 1935/36, giustificando in Federazione che i giocatori fossero andati a combattere niente di meno che nella guerra d’Abissinia
Tutte queste anime in un frullatore hanno condensato la loro parte nei 100 anni di vita di una realtà che si vanta essere l’unica del calcio professionista toscano a non essere mai fallita. L’unica, che non sia la Fiorentina, ad aver rappresentato la Toscana in un campionato di Serie A dopo la bancarotta dei Viola nel 2002. L’unica che tutti gli altri club della regione citano come modello di gestione da cui prendere esempio. Ma l’Empoli Football Club è una realtà unica perché questa è la sua storia. Buon Centenario!