Intervista esclusiva al campione NBA, nemico mortale di Erdogan.
Enes Kanter è centro dei Boston Celtics, neo cittadino statunitense – il 30 novembre scorso ha giurato dinanzi alla costituzione ed è diventato, così, a tutti gli effetti, un cittadino degli Stati Uniti d’America, cambiando poi il suo nome in Enes Kanter Freedom – si è trasformato, nel corso degli anni, in un’icona di grande popolarità, un simbolo di opposizione e resistenza ai regimi totalitari, dislocati in qualsiasi parte del mondo, un difensore del diritto e della libertà, che non pare intenzionato ad arrestare la propria corsa. Anzi.
Dal 2016 è voce delle vittime del governo Erdoğan (la Turchia gli ha revocato il passaporto e lo ha etichettato come “terrorista” dopo le critiche al leader del Partito della Giustizia e dello Sviluppo), si è scagliato, negli ultimi mesi, con particolare veemenza contro il Partito Comunista Cinese, schierandosi a favore delle cause del Tibet e dello Xinjiang. Del resto, sulla t-shirt attillata che indossa con orgoglio nel corso della nostra lunga chiacchierata via Zoom, campeggia un eloquente “Silence is Violence”. Una rappresentazione plastica della sua lotta che assume tutta la forza di uno slogan di rara efficacia: Silence is Violence ed Enes non è assolutamente intenzionato a tacere.
Nonostante tutto, non possiamo non partire dal Basket. Lo scorso agosto è tornato ai Boston Celtics, dopo una breve parentesi con i Portland Trail Blazers. La stagione, però, non sta rispettando le aspettative e le ambizioni della franchigia.
Non possiamo essere soddisfatti del nostro record e delle nostre prestazioni. Non siamo dove vorremmo essere, è innegabile. Quello dei Boston Celtics, però, è un roster ricco di talento, in grado di battere qualsiasi team della Lega in ogni arena/palazzetto della nazione, dobbiamo solo trovare la giusta chimica di squadra per rendere al massimo. La stagione è ancora lunga, c’è ancora spazio per far bene e far divertire i nostri tifosi. Starà a noi riuscire a dare il 100% e fare il tanto atteso salto di qualità.
Crede quindi che alla base dei risultati degli ultimi mesi ci siano questioni emotive più che tattiche.
Assolutamente sì. La nostra difesa, numeri alla mano, è una delle migliori della Lega. Dobbiamo, semplicemente, riuscire a giocare con la stessa consapevolezza anche in altre zone del campo. Non sarà facile ma abbiamo tutte le carte in regola per riuscirci.
Negli anni ha ricevuto minacce di morte, le è stato revocato il passaporto turco, è stato accusato di far parte di un’associazione terroristica, suo padre è stato arrestato, i suoi familiari sono stati costretti a disconoscerla pubblicamente. Dove trova la forza per andare avanti? Che cosa la spinge ad essere “more than an athlete”?
Quando, fra qualche anno, avrò l’opportunità di voltarmi indietro e comprendere che cosa ho davvero realizzato nel corso della mia carriera, non voglio avere rimpianti. Non voglio essere ricordato per i miei rimbalzi, per i miei canestri o per le mie medie realizzative. Voglio piuttosto lasciare un segno quanto mai concreto nella nostra società, qualcosa che vada oltre il basket. La libertà ha un prezzo, la mia storia ne è un fervido esempio, ma Dio mi ha dato a disposizione una piattaforma privilegiata come quella offerta dall’NBA, dove potermi esprimere liberamente. Il mio compito è quello di parlare dei diritti umani, della libertà di espressione o religione. La domanda alla quale voglio rispondere dopo il ritiro è: quanti cuori ho toccato? Quante persone ho ispirato? Ho cambiato la vita di qualcuno? Non voglio e non posso perdere un’opportunità del genere. Vogliono il mio silenzio, ma il mio lavoro non è finito. Ci sono ancora tantissime persone, non esclusivamente in Turchia, che hanno bisogno di aiuto e sarò sempre la voce di chi non ha voce.
Come si sente ad essere diventato ufficialmente, dopo mesi di pettegolezzi, un cittadino americano? Quella che lei ha definito a più riprese “la più grande nazione al mondo”?
Ha chiaramente un significato particolare, come puoi ben immaginare. Sono stato apolide per anni e questa mia condizione non mi ha permesso, ad esempio, di spostarmi in completa sicurezza all’estero. Il regime di Erdoğan mi ha dato la caccia, aspettando un mio passo falso per farmi rientrare in Turchia. Dalla prossima estate, invece, avrò finalmente la preziosa opportunità di potermi spostare liberamente anche fuori dal paese. Non è una libertà da dare per scontata anzi. Da circa un mese, dopo aver ricevuto il mio passaporto americano tramite e-mail, ho l’opportunità di chiamare, nuovamente, una nazione “casa”.
Enes, lei ha richiesto a più riprese, pubblicamente, il supporto dei suoi colleghi (Lebron James su tutti) nelle sue numerose battaglie sociali. Pensa che alcuni di loro non stiano facendo abbastanza? Non ha ancora trovato la solidarietà che sperava di trovare?
Ci tengo a chiarire, una volta per tutte, una questione che mi sta particolarmente a cuore. Sono stato accusato, anche da atleti professionisti, di essere più interessato alla politica che al basket. Quando si tratta di diritti umani, diritti inalienabili dell’uomo, non si tratta di politica: è qualcosa di più. C’è un enorme differenza. Come si fa a tacere quando i regimi di tutto il mondo continuano ad imporre le loro dittature, incarcerando oppositori con le carceri piene di giornalisti, avvocati, studenti?
Quando Ibrahimović dice che se avesse voluto occuparsi di politica avrebbe fatto il politico, dice una grande falsità. Il nostro è un ruolo di responsabilità: abbiamo l’opportunità di influenzare con le nostre scelte, le nostre azioni e le nostre parole i giovanissimi, le future generazioni. Dobbiamo continuare ad ispirare i più giovani, sfruttando in maniera intelligente la nostra visibilità. Continuerò a supportare, in ogni modo, chi, come me, prova ad avere un impatto positivo e concreto sulla società. Ibrahimović è un ignorante. Non ha idea di quello che sta succedendo nel mondo, deve comprendere la centralità e l’importanza del suo ruolo nella realtà odierna.
Dopo le sfide affrontate e le umiliazioni subite, riesce ancora a sognare una Turchia libera?
Da un punto di vista economico, politico, sociale, la Turchia ha fatto degli enormi passi indietro nell’ultimo decennio. Ad oggi, quella turca rappresenta indiscutibilmente una delle peggiori economie europee. Continuano ad essere all’ordine del giorno violazioni dei diritti umani in quello che sarebbe dovuto essere, nel ventunesimo secolo, il ponte tra Oriente ed Occidente. Erdogan sta guidando il paese come un leader mafioso, non c’è libertà religiosa, politica e sta continuando a ricattare militarmente le principali potenze occidentali. Ancora oggi la Turchia è fra i paesi con il più grande numero di giornalisti in carcere e non c’è libertà di stampa. Credo sia necessario agire con forza; determinate azioni non possono più essere tollerate. Non puoi comportarti da nice guy con un terribile dittatore.
Recentemente si è anche scagliato contro Xi Jinping ed il politic bureau del Partito Comunista Cinese…
Ti interrompo subito. Il governo cinese promuove, da anni, una dittatura brutale all’interno dei propri confini nazionali e non. Mentre noi chiacchieriamo tranquillamente, continua ad essere perpetrato un terribile genocidio nei confronti della minoranza etnica degli uiguri. A febbraio sono partite le Olimpiadi invernali: sarebbe stato giusto un boicottaggio diplomatico generalizzato. Ma non sarebbe stato comunque sufficiente. Una medaglia olimpica non sarà mai più importante dei tuoi valori, dei tuoi principi. Per questo credo sia necessaria una presa di posizione, evidente, da parte degli atleti di tutte le Federazioni impegnate nelle Olimpiadi. Il Comitato Olimpico Internazionale è parte integrante del problema: continua ad essere indifferente di fronte alle continue violazioni della Repubblica Popolare cinese.
Il caso della tennista Peng Shuai – scomparsa per settimane dopo aver accusato di violenza sessuale Zhang Gaoli, l’ex vicepremier della RPC – sotto questo punto di vista, è emblematico. Con quale coraggio una Federazione invia a “cuor leggero” i propri atleti a Pechino dopo determinati avvenimenti?
Il portavoce del ministro degli esteri cinesi Wang Wenbin l’ha descritta come “un atleta alla disperata ricerca di attenzioni”. Poco dopo, per singolare coincidenza, le partite dei suoi Boston Celtics sono sparite dal palinsesto della TV cinese.
È un bugiardo. Non vedo come parlare dei diritti umani possa corrispondere ad un ricercare disperatamente attenzioni. Voglio essere la voce di chi non ha voce senza dover accettare ricatti di nessuna forma. Tornando al punto focale della questione: chiedo giustizia per il popolo tibetano, chiedo che venga interrotto il genocidio nello Xinjiang, invoco severe indagini riguardo le violazioni dei diritti umani ad Hong Kong e per la Repubblica di Cina (Taiwan)!
Lebron James, Micheal Jordan, la Nike con le loro partnership ed i loro accordi commerciali sono ugualmente responsabili e parte integrante del problema. Non possono più fuggire dalle loro responsabilità. Il mondo è ormai consapevole delle violazioni che il governo cinese continua a perpetrare. A questo punto sta a noi prendere decisioni coraggiose e non essere spaventati dalla potenza economica/politica del loro regime.
In Italia è stato Roberto Saviano il primo a parlare della sua storia in un lungo monologo nel corso del programma televisivo “Propaganda Live”. Ha avuto modo di conoscerlo?
Siamo diventati buoni amici. Devo essere sincero, prima della sua performance, a me dedicata, in Italia non conoscevo il suo particolare vissuto. Ho avuto modo di informarmi e leggere la sua storia. Ora ci sentiamo periodicamente ed abbiamo avuto modo di incontrarci di persona circa due anni fa. Condividiamo determinati valori ed una certa visione del mondo. Stiamo anche lavorando ad alcuni progetti assieme.
Ha mai pensato di entrare, ufficialmente, in politica?
In un prossimo futuro, sì. Senza dubbio. In America però, non in Turchia. Non ci crederai, ma attualmente sono in contatto con diversi politici italiani. Stiamo riflettendo sul come aumentare la sensibilità dei cittadini del Bel Paese riguardo alcune delicate tematiche sociali: Covid-19, questione vaccini. Non posso anticiparvi altro, non voglio rovinare la sorpresa. Posso dirvi che non vedo l’ora di annunciarle ufficialmente.
Mi sembra evidente che lei, attualmente, abbia una forte relazione con l’Italia.
Assolutamente sì. Ho diversi amici in Italia, negli ultimi due mesi determinati legami si sono rafforzati e stiamo lavorando a qualcosa di grande. Sarà divertente te lo prometto.
L’intervista finisce. Enes Kanter Freedom mi saluta calorosamente, ringraziandomi dell’opportunità concessa. Non so perché, ma mi vengono in mente una serie di immagini e ricordi che, apparentemente, nulla hanno a che fare con la storia del cestista turco naturalizzato americano. Una in particolare: l’immagine di due atleti neri, alle Olimpiadi di Mexico 1968, sul podio dopo la finale dei cento metri. Tommie Smith e John Carlos che salutano, con il pugno chiuso coperto dal guanto nero, in omaggio alle vittime della repressione della polizia messicana, a sostegno del movimento denominato Olympic Project for Human Rights (Progetto olimpico per i diritti umani) e, più in generale, del potere nero. Le parole dure, sferzanti, dolorose di Enes Kanter Freedom mi pare siano, in qualche misura, generate dalla stessa rabbia e dalla stessa lucida consapevolezza che ispirò il clamoroso gesto dei due velocisti afroamericani. Il filo della rivolta e della ribellione contro le ingiustizie e le disuguaglianze è ancora lontano dall’essere spezzato.