Quel matto di Fabio Fognini diventa il Re di Montecarlo, ed entra a suo modo nella storia del tennis.
Finalmente Fognini. Per una volta, Fabio è stato all’altezza dei suoi mezzi. Sì perché parliamo di un talento tennistico enorme, sconfinato: per qualcuno, che magari non mastica questo sport, simili parole potranno suonare un po’ retoriche, esagerate, tipiche di un giornalismo da titoloni che sale sul carro del vincitore. Ebbene noi saliamo sì sul carro del vincitore, ma che Fognini avesse un talento sterminato, beh questo lo abbiamo sempre detto e pensato. Fino ad oggi, però, tutto ciò non era mai bastato, o comunque non era stato sufficiente per ottenere una finale e quindi un trionfo in un Master 1000 (i tornei più importanti subito sotto i quattro grandi Slam).
La settimana nel principato di Monaco, oltre ad essere stata la migliore nella carriera del tennista ligure, ha assunto i tratti della telenovela, è sembrata il copione di una di quelle commedie in cui succede un po’ di tutto, con il protagonista che all’inizio se la passa assai male per poi, passando per infinite peripezie e situazioni rocambolesche, giungere all’inevitabile lieto fine. Fognini infatti era arrivato a Monaco sotto i peggiori auspici, con un parziale di 4 vittorie e 8 sconfitte nel 2019 e nemmeno un successo sulla terra. Ma al di là dei risultati, era proprio il tennis di Fabio ad essere irriconoscibile, quello stesso tennis che si era visto nel primo turno, e che lo aveva fatto piombare 6-4 4-1 sotto contro un carneade di nome Andrej Rublev.
Da qui è iniziato un filotto nel quale Fabio ha primo sbrigato la pratica Rublev, per poi liquidare in due set un certo Alexander Zverev, numero 3 del mondo e stella più brillante della nuova generazione tennistica, rimontare un set di svantaggio a Borna Coric – a proposito di giovani talenti – e infine impartire una lezione di tennis a Rafael Nadal, il più forte giocatore sulla terra rossa nella storia di questo sport, nonché re di Montecarlo per ben 11 edizioni; qui Fognini è riuscito a fare quello che, sulla terra, avevamo visto compiere (solo in rare occasioni) a Novak Djokovic. Aggredire lo spagnolo, tenere in mano il pallino e comandare il gioco, disinnescando la disumana curva mancina del dritto dello spagnolo con un rovescio a due mani anticipato, violento e chirurgico.
Come ha sottolineato Paolo Bertolucci in telecronaca, questo nel mondo riescono a farlo solo lui e il campione serbo, numero 1 al mondo. Se a ciò aggiungiamo una straordinaria condizione fisica e un dritto semplicemente impressionante, che causava continue e ripetute espressioni di stupore del pubblico monegasco, il quadro è quasi completo. Ecco in sostanza come è maturata una delle sconfitte più pesanti della carriera di Nadal sul rosso, che nel secondo set ha rischiato addirittura un clamoroso cappotto trovandosi in svantaggio 5-0 e 40-0 – con tre match point a disposizione di Fabio -, dovendosi aggrappare alla grinta e all’orgoglio per perdere “solo” 6-2.
Ma ecco che arriva il difficile: sì perché Fognini aveva già battuto diverse volte Nadal mostrando un gioco straordinario (è anche stato l’unico giocatore in grado di recuperare a Rafa un vantaggio di due set a zero in uno Slam, mandandolo poi a casa, – US Open 2015); e in generale Fabio aveva già vinto partite straordinarie in carriera, ma puntualmente il turno successivo si era sciolto come neve al sole, vittima dei suoi demoni e dell’enorme mancanza di disciplina. Questo alla vigilia era il timore che vivevano il pubblico italiano, lo staff del ligure e, ne siamo certi, in parte anche lui stesso: quello di scrivere l’ennesima bella storia priva del lieto fine.
In un tale scenario Lajovic, il suo sfidante, rappresentava lo sfidante in teoria migliore, ma in pratica peggiore: un giocatore modesto, con mezzi immensamente inferiori a quelli di Fognini ma con tanta grinta, una solida disciplina e un’ineccepibile tenuta mentale. Ebbene l’azzurro, camaleonticamente, è diventato grande giocando male: indubbiamente la partita in cui ha dimostrato meno. Una finale oggettivamente bruttissima, piena di errori e condizionata dalla paura reciproca (ché pure il buon Lajovic una opportunità simile fino ad oggi se l’era sognata, e difficilmente la riavrà a disposizione nei prossimi tempi).
In questa situazione Fognini ha vinto di testa, non facendo il Fognini, insomma: è rimasto sempre dentro la partita, concentrato, attaccato a tutti i punti. E alla fine è riuscito ad ottenere il primo titolo 1000 per un italiano, trionfando sul suolo del principato oltre mezzo secolo dopo Nicola Pietrangeli (che vinse nel ’67). Domani Fabio avrà la migliore classifica in carriera, raggiungendo il numero 12 del ranking mondiale, ma già abbiamo sentito troppi ragionamenti a lungo termine: Roma, Roland Garros, Wimbledon.
Non commettiamo lo stesso errore di sempre e, per questo sia inelegante dirlo, non facciamo affidamento su Fognini. Non possiamo permettercelo, poi probabilmente resteremmo scottati, come sempre. Godiamoci il successo di oggi, straordinario e meritatissimo, ma non progettiamo nulla su Fabio: resta il solito enorme talento ma, con tutto l’affetto del mondo, rimane anche una di quelle teste calde che agli appuntamenti ti danno sempre buca. E ogni volta, immancabilmente, ti incazzi e lo maledici, gli dai ultimatum su ultimatum, ti riprometti che la prossima volta non lo degnerai nemmeno di un’occhiata sfuggente; ma poi, altrettanto immancabilmente, non vedi l’ora che si rifaccia vivo. Fabio Fognini è così, prendere o lasciare, e se cambiasse, forse, non ci darebbe nemmeno simili soddisfazioni.