Apologia di Re Eric. Dalla Gallia, alla conquista di Albione.
«Fare la rivoluzione è semplicissimo. Tre milioni di persone in piazza non cambiano le cose. Se invece tre milioni di persone ritirassero i propri depositi dalle banche, il sistema crollerebbe. Senza armi e senza spargimento di sangue. Alla Spaggiari». Chi parla è un rivoluzionario, solo che ha cambiato il mondo su di un rettangolo verde ed ora davanti (e dietro) ad una cinepresa. Stiamo parlando di Eric Cantona. King Eric o The King per i mancuniani. A palleggiare sono capaci tutti – meno El Mago, Luis Jiménez, con un passato nell’Inter – ma in pochi riescono a far correre la propria lingua, pensante, più veloce del pallone.
Il francese, nato a Marsiglia, porta nelle vene il calore dei paesi latini con un padre di origine sarda e una madre catalana. Socialista a suo modo e mounsieur, per vocazione, ha scalfito le icone del passato per immortalarsi tra i giganti di sempre. La sua più grande impresa è stata quella di rimanere nell’immaginario collettivo pur provenendo dall’era pre-digitale.
Lo ha fatto nella stessa misura in cui gli Oasis sono riusciti a raccontarlo nella pellicola “Oasis:Supersonic”, un bagliore lucente prima che la massa diventasse notizia. Un riverbero che ancora oggi giunge fino a noi. Il doppio concerto che nel 1996, la band dei fratelli Gallagher, realizzò a Knebworth, davanti a 250.000 spettatori, equivale alla poesia della segnatura di Cantona con la maglia del Manchester United contro il Sunderland.
Prima che i cellulari intelligenti e Google ci svelassero il terzo segreto di Fatima. 21 dicembre 1996. Spalle alla porta riceve palla nella zona di centrocampo. Una finta, due finte, mentre gli avversari lo accerchiano. Si gira e con un tocco spiazza il marcatore, la palla lo segue ed apre il gas. La corsa è appesantita, ma un’aura avvolge la sua figura e nessuno può fermarlo. Duetta con Brian McClair, il numero 13 dello United, che lo serve al limite dell’area.
Cantona aggiusta la corsa, guarda l’angolino in alto a destra e calcia. Un sublime pallonetto, vellutato, con difensore in scivolata ed il portiere in salto. La rete era già stata segnata, fin da quando era nella mente del transalpino. Palo, goal. Il numero 7 della Manchester rossa si guarda attorno, ruota su se stesso, e si gusta il tributo dell’Old Trafford. Nessuno potrà mai scalfire le sue magie.
“Sono molto orgoglioso che i tifosi cantino ancora il mio nome allo stadio, ma ho paura che un domani loro si fermino. Ho paura perché amo questa cosa. E ogni cosa che ami, hai paura di perderla”
I seguaci del talento non dimenticano, e in questo periodo di “voglio tornare negli anni ’90”, nella confortevole dimensione del ricordo, le prodezze di Cantona non passeranno mai di moda. Partito dall’Auxerre ha conquistato la fama a calci, compresi quelli dati a colleghi, avversari e tifosi. Nel 1988 trascinò la Francia under 21 alla vittoria dell’Europeo, l’anno successivo non venne convocato dalla nazionale maggiore e definì, Henri Michel, l’allenatore dell’epoca un “sacco di merda”, “sac à merd” per usare un francesismo.
Mentre giocava nell’Olympique Marsiglia, durante un’amichevole contro il Torpedo Mosca, gettò a terra la casacca della compagine della sua città e fu sospeso per un mese. A Montpellier rifilò una pedata in faccia al compagno Jean-Claude Lemoult, la presidenza lo mise fuori rosa. Solo l’intervento di Laurent Blanc e di Carlos Valderrama portarono al reintegro di Eric e alla conquista della Coppa di Francia da parte della squadra dell’Occitania.
Torna al Marsiglia vince il campionato, ma il rapporto con Raymond Goethals non gira e finisce al Nîmes. Qui tira una pallonata all’arbitro: un altro mese di squalifica. A rifilarglielo è la federazione francese, degli “idioti” per The King. Allora i mesi diventano tre. A questo punto la storia tra Cantona ed il pallone potrebbe finire. È ferito. I pensieri corrono forte, scopre l’arte e non vuole più sentir parlare di calcio. Ma il colpo di scena è dietro l’angolo. Il figlio magnificente del Dio pallonaro d’oltralpe, Michel Platini, ci mette bocca:
“Per il cinema e i disegni ci sarà tempo quando sarai vecchio, stanco e rincoglionito”.
Il momento di cambiare aria è alle porte. Platini consiglia il giovane manesco al Liverpool. Il Sheffield Wednsday di Trevor Francis lo prova, poi gli offre un secondo provino, ma non si può mettere troppo alla prova la pazienza di un Re. Quando tutto sembra finito arriva il Leeds. La “favola bella” parla di scudetto al primo anno, e per il francese si aprono le porte del Manchester United.
Sir Alex Ferguson lo accoglie così: “Mi chiedo se tu sia abbastanza bravo per giocare qui”. Lapidaria la risposta: “Mi chiedo se Manchester sia abbastanza per me”. Anche la numero 7 finirà per andargli stretta. Come Bobby Charlton e George Best, forse più di Bobby Charlton e George Best. Cinque stagioni, quattro Premier, due F.A. Cup e nel 1994 il titolo di Player of the year.
Ma il riconoscimento più grande arriva dalla gente, dai tifosi dei diavoli rossi. Viene eletto miglior giocatore del XX secolo dei Red Devils, un francese padrone nella Perfida Albione. Arriverà poi il calcio rifilato a Matthew Simmons, il tifoso del Crystal Palace, reo di avergli gridato: “Back in France, fucking bastard”. Ci saranno gli otto mesi di squalifica e la passione che svanisce.
Il ritiro a neanche 31 anni, il 22 maggio del 1997, perché la definizione di calciatore cominciava ad andargli stretta. Arriverà il cinema, ed un film su tutti “Il mio amico Eric“. La pellicola di Ken Loach ci porta nelle paure di tutti i giorni, in quelle che troviamo allo specchio. Eric Bishop (Steve Evets) chiede al suo amico-idolo immaginario Cantona qual è stato il suo momento più alto in un campo da calcio.
“È stato un passaggio a Irvine contro gli Spurs, quasi un’offerta al grande Dio del calcio”.
Nel sacrificio c’è la risposta ad ogni domanda. In una frase, di Hermann Hesse, è rinchiuso il colletto alzato e l’Au revoir di Eric Cantona: «Chi ha un forte senso individualistico deve riconoscere che la vita è una lotta tra sacrificio e fierezza, tra il riconoscimento sociale e la salvezza della personalità». E dobbiamo dirlo: tra un Mauro Icardi ed un Lionel Messi, le personalità alla The King ci mancano tremendamente.