15 novembre 2022. Piazzale Cuneo, Zona 167, Lecce. Inaugurazione del campo da calcio di quartiere, creato dal comune grazie alla vittoria di un bando messo a disposizione dallo sponsor del campionato di Serie B, secondo il progetto di riqualificazione delle periferie italiane. Un murales veglia, dal palazzone antistante, il terreno di gioco, in erbetta naturale. Affresco di sogno sopra lo squallore, che arde di poche cose, le più necessarie, sentimenti, valori, estro: Javier Ernesto Chevanton e un bambino, figure che si intrecciano nello stesso desiderio: rendere orgoglioso il Salento.
Chi è Chevanton per i leccesi di ieri, oggi, domani?
Prima di rispondere, bisogna osservare le radici di un uomo che ha fatto parlare le giocate, i gesti verso un popolo e non i media gossippari, le copertine spacca-spogliatoio e il cash sopra ogni cosa. Camicetta sudatissima, numero 19. Fin da piccolo, palleggiatore instancabile davanti al Monumento eretto per l’Indio Charrúa, nella sua Juan Lacaze, Uruguay. Cresciuto con l’aspirazione di fare piangere i potenti, sulle orme di Ghiggia, Schiaffino, Oscar Miguez – il Maracanazo come stile di vita. La maglia leggendaria de La Celeste la indosserà in 24 sfide tra Copa America e Qualificazioni Mondiali, timbrando il cartellino del gol 8 volte.
Stella impazzita classe 1980, che nemmeno maggiorenne conquista un posto da titolare nel Danubio, il club più operaio di Montevideo – oscurato dai successi debordanti dei cugini del Peñarol –, segnando 53 reti in 62 presenze. Pantaleo Corvino, lupo di campo dal fiuto infallibile, l’osserva: immagina la sua corsa sotto la Curva Nord al Via del Mare, dopo un gesto funambolico terminato in rete. Non ha dubbi: lo compra.
Chevanton si veste di pietra leccese. È la stagione 2001-02 del massimo torneo. Gli occhi dei supporters giallorossi si riempiono di colpi ad effetto: Javier Ernesto più che un attaccante è un’arma bianca, tomahawk da un metro e settantadue per settantadue chili, capace di colpire a sorpresa nei novanta minuti: sublime ferocia. 49 gol in 124 partite, numeri sugellati dal record di migliore marcatore in Serie A dei salentini (30 marcature). Il repertorio è invidiabile: doppio-passo, cambio di direzione, serpentina, incursione su lancio dalle retrovie, rientro dall’esterno e conclusione a giro, calcio di punizione interno-collo – mortifero –, destro o sinistro al volo, in coordinazione esemplare, glaciale dal dischetto, opportunismo a pochi metri dal portiere (cecchino in area).
Lui e il Lecce scrivono una storia di calcio fiammante, vero, amoroso, durata sul tappeto verde complessivamente cinque anni. E la tifoseria lo venera dal minuto aurorale. Lui segna, nel giorno più importante per i leccesi, il 26 agosto, Sant’Oronzo, contro il Parma, all’esordio, in casa, rubando la sfera a Frey, su un rinvio al volo – l’elogio della furbizia – per poi offrire ai palati ruvidi un pallonetto leggero: stappa la bottiglia del gol nel migliore dei modi. Ai microfoni di ‘Salento News’, a distanza di vent’anni, confesserà: «Il giorno della festa di Sant’Oronzo vado a fare il mio primo goal in Italia, un goal un po’ particolare contro il Parma, faccio un pallonetto proprio sotto la Curva Nord e io dico sempre che in un’altra vita sono nato qui a Lecce».
La Curva, durante le gare, esprime un motto netto, deciso, spregiudicato: “Ultras Lecce Senza Padroni”. Javier Ernesto promette al suo popolo di realizzare le loro aspirazioni ataviche: punire i padroni del Nord, Milan, Juve, per esempio.
Giorno dopo San Valentino del 2004. Javier Ernesto bacia i leccesi. Nel Salento arriva il Milan campione d’Europa di Silvio Berlusconi, Carlo Ancelotti e del Pallone d’Oro, Shevchenko. Punizione dal limite. In barriera ci sono alcuni dei difensori più forti della Serie A (quando era il campionato più bello e invidiato del mondo): Cafù, Nesta, Maldini. In porta, un mostro, l’eroe di Manchester, Nelson Dida. La sfera è decentrata verso sinistra. Lo spazio è pochissimo, la luce di sparo flebile: l’occhio che scruta la bellezza da un buchetto della serratura. Javier Ernesto parte col coraggio dell’uruguaiano che se ne fotte, arco e freccia: destro all’incrocio dei pali, gol da fare spellare le mani callose del contadino, dell’artigiano, dell’operaio.
Festa della Liberazione del 2004. Stadio Delle Alpi, Torino. La Juve degli Agnelli, della triade, Moggi, Giraudo, Bettega, di Marcello Lippi, di Del Piero e del Pallone d’Oro, Pavel Nedved. Chevanton guida l’umile armata a un pomeriggio scolpito negli incubi dei bianconeri: 3-4 per i giallorossi, con un calcio di rigore in movimento realizzato dal 19 su servizio di Ledesma: destro di giustezza che spiazza sua maestà Gigi Buffon.
Chevanton è la chitarra di Alfredo Zitarrosa. Chi è Zitarrosa? Il più prolifico, elegante, poetico cantautore uruguaiano. Javier Ernesto non lo sa ma, indirettamente, il menestrello dell’Uruguay canta le sue gesta nel Tacco d’Italia. In Vea Patrón, possiamo sentire gli smacchi calcistici riservati a Berlusconi e Agnelli:
Padrone,
quell’ombra irrompe nella luce e tu la vedi avanzare,
come un’alba, nella sua gola,
diventa un pugnale.
Tante le immagini irripetibili, fluttuanti nella mente dei tifosi licantropi come tessere di un mosaico che riempie lo Stivale di giocate, in grado di alleviare i patemi delle province salentine: il sinistro impressionante da trenta metri al Curi di Perugia; la punizione da fare arrossire Romeo e Giulietta contro il Chievo al Bentegodi; il sinistro millimetrico al Dall’Ara di Bologna; la punizione alla Baggio a Brescia (davanti al Divin Codino); la carezza di piatto a trafiggere il portiere del Bari nella partita più sentita dai leccesi, al San Nicola, il derby delle Puglie; e poi tante altre ancora, da Messina fino a Genova.
Nella stagione 2002-03, quella della promozione in Serie A, Chevanton spiazza il Via del Mare: si presenta con i capelli verde psichedelico, a pochi minuti dalla partita contro il Cosenza. Nella Zona 167, i ragazzi lo imitano con trasporto totale. Mamme urlanti, basolati del barocco rimpolpati di puntini verde speranza a inseguire un Super Santos. Javier Ernesto segna, si toglie la maglia. Espone alle telecamere una canotta con una scritta dedicata a un tifoso scomparso: Suona ancora il tamburo! Una scena che Zitarrosa aveva già cantato in Candombe del Olvido:
Fuoco verde, bagliore,
dei tuoi rauchi tamburi
Sud, soffitti in seta ricamata.
Javier Ernesto è il bomber che porta il Lecce a scalare il miglior risultato di sempre in Serie A nella stagione 2003-04: decimo posto, 41 punti in 34 partite. Javier Ernesto è il veterano che nella stagione 2010-11 segna i due gol salvezza di un’annata folle, che sembrava destinata all’umiliazione del Purgatorio: a Parma, di testa, incornata da cervo del Rio, al novantaduesimo; contro il Napoli, a una manciata di minuti dal gong, girata di sinistro, al volo, fuori area, traversa-rete, l’apoteosi del pronostico ribaltato.
Dopo la Champions League giocata al Monaco, la Coppa Uefa vinta al Siviglia, il ritorno in Serie A con l’Atalanta, il Colon in Argentina, l’ultimo abbraccio alla Primera Divison dell’Uruguay con il Liverpool Montevideo, il Salento diventa il suo orizzonte. Oggi Javier Ernesto è allenatore nelle giovanili dell’US Lecce: trasmettere il desiderio, l’orgoglio di vestire la pelle, allergica ai padroni, del popolo giallorosso.
15 novembre 2022. Ore 16:00. Un uomo perfettamente rasato, giacca color crema, maglietta scura, pantaloni chiari, scarpe marroncino western, guarda con gli occhi gonfi di gratitudine il murales di Piazzale Cuneo, zona 167, Lecce. È Chevanton, numero 19, la sajetta celeste. Sul suo profilo Instagram racconta le sensazioni del pomeriggio: «Fin da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare e ad essere fedele a quelle persone che ti hanno sempre mostrato amore e affetto… sono passati 21 anni da quando sono arrivato in questa meravigliosa città dove dal primo giorno mi hanno mostrato amore e affetto. Oggi mi hanno fatto emozionare di nuovo come hanno sempre fatto e continuano a farlo. Saro sempre leale e fedele a questa Città, ai suoi tifosi, alla sua Gente e alla mia Squadra del cuore, questo murales rappresenta più di un’emozione».
Chissà, se nella sua casa sopra il Caffè della Lupa, a Lecce, a pochi passi da Piazza Sant’Oronzo, la sajetta celeste ascolta Tanta vida in quatro versos, il riassunto della sua carriera cantato da Zitarrosa.
Sulla porta di casa mia
ho piantato tre alberelli
ho piantato una fede, una speranza
e un “non ti dimenticherò mai”.
Chi è Chevanton per i leccesi di ieri, oggi, domani? Il calciatore più forte della storia del club. Ma quali saranno i quattro versi che riassumono la sua vita, vissuta a colpire sul terreno di gioco i padroni?
Din don, din don,
din don, din don, din don
intervengo qui da Lecce
ha segnato Chevanton.
Prendiamo allora in prestito le parole di Eduardo Galeano – uruguaiano come Javier Ernesto – per concludere: “Ricordare: Dal latino re-cordis, ripassare dalle parti del cuore”. Per questo ancora oggi, a Lecce, si celebra Ernesto Chevanton: uruguaiano di nascita, leccese acquisito.