Calcio
29 Novembre 2018

Espanyol, l'altra Barcellona

L'Espanyol dimostra che a Barcellona c'è tutto un altro mondo oltre il Camp Nou.

Nel 2007 il mondo della musica perse Luciano Pavarotti, mentre quello del giornalismo salutò Enzo Biagi. Dopo 59 anni venne giocata l’ultima schedina del Totip, Ennio Morricone fu insignito dell’Oscar alla carriera e Steve Jobs presentò il primo Iphone. La Spagna era nel vivo del primo governo Zapatero ed il Real Madrid conquistò il suo trentesimo campionato trascinato dalle 25 reti di Van Nistelrooy; in campo europeo, poi, la nazione iberica iniziò a porre la prima pietra sulla sua futura egemonia, potendo contare su entrambe le squadre finaliste della Coppa Uefa. Il 16 maggio, infatti, nello scenario mozzafiato dell’Hampden Park di Glasgow andò in scena il derby iberico tra il Siviglia e l’Espanyol.

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Dopo 120 minuti di trascinante intensità, il risultato era fissato sul 2 a 2. I biancoblu, reduci da una sorprendente quanto entusiasmante cavalcata, pur essendo riusciti a rispondere entrambe le volte ai gol avversari, sbagliarono tre calci di rigore, regalando la vittoria agli andalusi. Questo incontro segnò l’ultima apparizione della squadra di Barcellona nelle coppe europee: adesso, a più di dodici anni di distanza, occupa inaspettatamente il quinto posto in Liga, che potrebbe valere il ritorno in una competizione continentale.

Il portiere del Siviglia Palop fu in quell’occasione un autentico fenomeno

L’Espanyol, fondato nel 1900 come Sociedad Espanola De Football, rappresenta storicamente l’ultimo baluardo dell’identità nazionale in terra catalana, prevedendo, in origine, la presenza di soli giocatori spagnoli e catalani. Divenuto un nemico naturale dei più celebri concittadini, nel corso degli anni si è limitato tuttavia al ruolo di sparring partner, non potendo competere né a livello calcistico, né a quello economico.

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La peculiarità del club, o come venne chiamata da quelle parti, “La Forca D’un Sentiment”, era racchiusa dentro un catino degli anni venti, cornice del capolavoro firmato da Pablito e dagli uomini di Bearzot: lo stadio Sarrià per più di settanta anni fece infatti da contraltare al Camp Nou, dando una dignità anche al “secondo violino” della città. Un luogo iconico, che, grazie alla carica ed all’energia che tracimava dagli spalti, fu designato per la seconda fase del Mundial: ebbe quindi l’onore di ospitare il gironcino più prestigioso, che poteva vantare ben sei titoli iridati: i tre del Brasile, ed i due di Italia e Argentina.

Lo stadio “Sarrià” lo portiamo anche nei nostri cuori

La morfologia calcistica di Barcellona, quindi, prevede due blocchi ideologici ben definiti. Da un lato il Barca, nato dalla mente dello svizzero Gamper, che fin dall’inizio ebbe un’anima più cosmopolita ed aperta ai giocatori stranieri: spesso poi, come sappiamo, si erse, a portatore ed attivo sostenitore della causa catalana, con i calciatori e la società stessa che più volte si sono esposti in prima persona. Durante il delicato referendum di un anno fa, per esempio, fu emesso un duro comunicato in cui condannarono il comportamento del governo centrale, e il Camp Nou si trasormò nel megafono propagandistico del Sì all’Independencia, in un tripudio di bandiere catalane.

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Dall’altro, però, resiste fieramente una squadra insignita nel 1912 del titolo di “Real Club” da parte dell’allora Re Alfonso XII, a cui venne addirittura concesso l’uso della corona reale sul proprio stemma. Una realtà non allineata, e che alle parole d’ordine dei cugini rispose con una dichiarazione in cui sottolineava il coraggio di non aumentare il conflitto nella proprio terra. Il primo ottobre 2017, l’Espanyol chiarì di voler mantenere netta la distinzione tra lo sport e la politica, etichettando le posizioni del mondo blaugrana come “piene di parole vuote che non aiutano la distensione”.

Subito dopo il referendum, l’Espanyol venne ospitato dal Real Madrid al Santiago Bernabeu e fu accolto da un mare di bandiere spagnole e cori nazionali: diciamo che per molti tifosi biancoazzurri non fu un dramma, anzi…

Ma torniamo ad una breve cronistoria dell’Espanyol: giocatori e tifosi sono soprannominati Peroquitos, letteralmente “i pappagalli”, non in riferimento ai volatili, bensì per una vignetta degli anni ‘30 comparsa sulla rivista El Xut che commentava il trasferimento al Real Madrid del capitano Zamora. Essa raffigurava quattro gatti che richiamavano il personaggio del “Gatto Felix”, conosciuto come “Gato Periquito” ed ironizzava sull’enorme seguito che accompagnava la nuova squadra del difensore, rispetto ai “quattro gatti” dei biancoblu.

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Come detto, il club non ha mai potuto contare su di una solidità economica tale da rimanere in pianta stabile ad alti livelli. Tanto che nel 1997, i vertici societari dovettero procedere alla vendita del terreno su cui sorgeva il celebre impianto della squadra. Nella peggiore delle umiliazioni, calcisticamente parlando, il Sarrià venne poi demolito per fare spazio ad un elegante complesso immobiliare. La tifoseria si trovò, così, privata del bene più prezioso, quello che per più di mezzo secolo era stato il teatro delle loro gioie e delle loro delusioni. Improvvisamente calò il sipario su di una tradizione ultracentenaria.

La storica ed eloquente vignetta

La nuova casa divenne l’anonimo e poco ospitale Stadio Olimpico Lluìs Companys, oltretutto intitolato al presidente della Generalitat Catalana fucilato dalle truppe franchiste. Situato sulla collina di Montjuic, si rivelò oltremodo scomodo da raggiungere e non fece mai breccia nel cuore dei tifosi. Nel 2009 tuttavia, in una ritrovata disponibilità finanziaria, l’Espanyol procedette ad un investimento da più di 50 milioni di euro per la costruzione di un nuovo impianto.

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Il “Power8 Stadium”, per tutti Cornellà-El Prat, erede del Sarrià, incarna e custodisce il sentimento di una tifoseria che da quasi venti anni era stata bruscamente sfrattata dalla propria dimora calcistica. Inaugurato con una rotonda vittoria sul Liverpool, è un vero gioiello architettonico. Con una capienza di 40.500 posti, tutti rigorosamente al coperto, possiede la denominazione di “stadio verde”, dato che è stato uno dei primi a servirsi di energie rinnovabili.

La nuova casa dell’Espanyol

Dalla finale di Glasgow, sono stati prodotti più di dieci tipi di Iphone, le schedine vengono giocate prevalentemente online e la Spagna è appena uscita (forse) da un dominio calcistico operato tanto dalla Roja quanto dal Barcellona prima e dal Real Madrid dopo. I “pappagalli” dopo 115 anni di storia sono finiti in mano ad una proprietà straniera e la situazione finanziaria pare aver subito una svolta definitiva. Dalla fondazione a difesa dei valori iberici, nel 2016 si sono aperte le porte alla Cina: Chen Yansheng, numero uno del gruppo Rastar, rinomato per i videogames e gli apparati elettronici, è arrivato a detenere il 99,25% delle quote, avendo già investito intorno ai 180 milioni. Una svolta che avrebbe tuttavia subito una piccola battuta di arresto in seguito alle restrizioni del governo locale, per cui sembra che il chairman debba restituire il prestito erogatogli dalla Banca Nazionale Cinese per l’acquisizione del club.

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L’eventualità della possibile cessione della società, in ogni caso, non ha influenzato il progetto sportivo che va avanti da sei anni. Il direttore sportivo Oscar Perarnau, conscio dei perenni problemi economici che attanagliano i biancoblu, sta seguendo i migliori prospetti di tutta la Spagna per ingaggiarli a prezzo di saldo, prima che riescano a compiere il definitivo salto di qualità. Pochi fondi, ma spesi in modo mirato, come gli appena 18 milioni sborsati quest’estate. A fare la differenza è stata la bontà delle scelte fatte. In primis quella di affidare la panchina a Joan Francesc Ferrer, per tutti Rubi. Passato dalle giovanili dei biancoblu, si è formato poi come assistente al Barcellona, fino a guidare in Segunda Division il Recreativo Huesca e ad ottenere la promozione in Liga: a questo punto, non ci ha pensato un attimo ad accettare la chiamata dell”Espanyol.

 

Il benvenuto della società al nuovo tecnico, che sta decisamente ripagando la fiducia

Rubi è riuscito a plasmare un gruppo di giovani rampanti e vecchi senatori intorno ad un 4-3-3 fondato su tre gioielli, che ne compongono la spina dorsale. Nel reparto arretrato sale in cattedra il centrale classe ‘95 Mario Hermoso. Dotato di un preciso mancino, è in grado di ricoprire tutti i ruoli della difesa. Pescato dalla cantera Real Madrid, sta sfornando delle prestazioni talmente di alto livello, che hanno portato Luis Enrique a convocarlo in Nazionale. Le chiavi del centrocampo sono affidate all’ex Blaugrana Marc Roca. A soli 21 anni è la pedina fondamentale per dettare i tempi della squadra. Dato per partente la scorsa estate, si è imposto durante le amichevoli precampionato, scalando in fretta le gerarchie: dalle sole otto presenze della scorsa stagione, si è visto rinnovare il contratto con una clausola di ben 40 milioni di euro.

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Infine Borja Iglesias, centravanti prelevato per 10 milioni dal Celta Vigo, che lo scorso anno, in prestito in seconda serie al Real Saragoza, ha messo a segno 22 gol in camionato. Soprannominato “Panda” da un rapper, in patria paragonano il suo exploit a quello di Piatek: nelle prime tredici partite della sua nuova avventura, infatti, è andato in rete già otto volte. Un terminale offensivo polivalente, che alle grandi doti realizzative accompagna una importanza decisiva nello sviluppo della manovra.

Il panda gli sta portando bene

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Così nella stagione in cui il Barcellona si candida ad occupare nuovamente il centro del palcoscenico, grande favorita per vincere la Liga in patria e già qualificata con un girone dominato in Champions League, la Meravillosa Minoria vuole ritagliarsi il proprio spazio a livello nazionale: al momento la squadra è quinta in classifica, a soli quattro punti dal Barcellona e addirittura un punto sopra il Real Madrid. L’obiettivo è dimostrare, facendo leva sullo storico orgoglio e su una squadra che per una volta pare all’altezza, che a Barcellona c’è vita oltre il Camp Nou. Anzi, che c’è tutto un altro mondo.

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