Ad Agosto, in realtà, noi vogliamo il calcio sognato.
Non ci saranno foto ipersaturate scattate nell’Oceano Indiano o nel Mar dei Caraibi. Alle Baleari le isole vivranno di giorno e dormiranno di notte recuperando una ventata di normalità ignota negli ultimi decenni. Anche le Cicladi perderanno quel sapore patinato nel loro scambio sapiente tra il bianco della pietra e del lino e le nuance di blu del cielo e del mare.
Questa più di ogni altra, almeno in questo inizio di secolo, sarà di nuovo un’estate italiana. Più per contingenza che per scelta, il Belpaese riabbraccerà come un padre comprensivo figli un poco irriconoscenti, studiosi attenti delle edizioni più esotiche delle Lonely Planet, eppure colpevolmente ignari delle bellezze della porta accanto.
Si riaccendono le insegne luccicanti della Riviera Romagnola, per l’occasione tirate a lucido, ripulite da quella patina anni ’80 che le aveva viste splendere nelle notti del boom economico. Le camicie bianche e le file degli ombrelloni a tinte pastello, splendidamente ordinati nell’equilibrio plastico della Versilia, riabbracceranno il popolo pettinato del Forte. Si spiegano le vele al largo delle Bocche di Bonifacio, in navigazioni tra la Sardegna e la Corsica. Friggono arancini/e in Sicilia. Trasudano olio gli incarti con le focacce pronte per essere azzannate davanti a un tramonto pugliese, scomodamente seduti sugli scogli umidi.
E tuttavia quest’estate italiana di luoghi d’infanzia ha un assente ingiustificato che, esattamente come le spiagge, i mari, le cime, è parte fondamentale della nostra tradizione: il calcio. Un’affermazione che collide irrimediabilmente con la realtà, una distorsione che in teoria non ammette replica. Perché in fondo mai come quest’estate il calcio è stato protagonista giocato, trasmesso, discusso, in una miriade di partite, nazionali ed europee, che ha ingolfato i palinsesti di tutte le maggiori reti nazionali.
Eppure, la sensazione è che tutta questa scorpacciata vorace e bulimica di campo, non richiesta, non voluta, sia stato un pasto imposto e ingurgitato con violenza, non digerito e infine rigettato senza gusto come si fa con una compressa troppo grande per le nostre gole non avvezze allo sforzo.
Non lo diciamo noi, non sono le percezioni distorte di un manipolo di kamikaze che si muovono in un mondo in controtendenza. Lo riportano gli indici di ascolto che divulgano i dati impietosi di un calcio il quale, dopo aver retto il colpo iniziale della ripresa, è crollato verticalmente in un vortice di indifferenza.
La verità è che non tutto il calcio di cui abbiamo bisogno è quello giocato, paradossalmente abbiamo bisogno di desiderarlo. Abbiamo bisogno di quel calcio metafisico e rituale che si gioca da metà maggio a fine agosto. Necessitiamo di una pausa dalle emozioni, perché anche quelle, senza soluzione di continuità, si trasformano e mutano in vuota routine. L’attesa nell’uomo è una condizione necessaria, è immanenza dell’atto. In quei lunghi diari che sono Il mestiere di vivere, lo stesso Cesare Pavese scriveva:
“Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettare niente che è terribile”
E noi ci chiediamo, quest’estate cosa stiamo aspettando? All’estate italianamanca il quotidiano sportivo sotto il braccio – la Gazzetta per il nord, il Corriere al centro/sud – aperto disordinatamente sotto l’ombrellone alla ricerca della scintilla, e poi letto a più riprese. Le pagine macchiate di acqua salata e le dita annerite dall’inchiostro migrato sui polpastrelli a ogni volta di pagina. La lotta continua contro il vento che ambisce a vantare proprietà sul quotidiano, e le tecniche dimenticate e poi riacquisite di gestione del formato.
Perché i quotidiani di quest’estate sono ricchi di spunti e tabellini, di analisi e previsioni, ma mancano del tutto di quel rito propriamente estivo che alimenta i sogni dei tifosi. Manca il calciomercato. Mancano le “bombe” e i “colpi di mercato” di società che sembrano vivere in questa bolla utopica che dura la vita di una cicala. Mancano anche le “sparate” di giornalisti arrivisti, alla ricerca dell’intuizione giusta per un titolo o un trafiletto e di quei 15 minuti di popolarità che il maestro della pop-art, Andy Warhol, aveva profeticamente pronosticato per ognuno.
Insieme al calciomercato svanisce quell’architettura di utopie che per alcuni è il vero calcio. Ad agosto tutti partono dagli stessi nastri, da qui è più facile sognare ed è lecito pensare che la stagione nuova sarà diversa da quelle precedenti. L’assalto alla Juventus sarà più deciso e la storia cambierà, quella Coppa dalle grandi orecchie non sarà più un miraggio, o magari quella Serie A conquistata con affanno e cardiopatie sarà finalmente il giusto riposo dove riaffermare il proprio DNA.
Mancano le chiacchiere da bar, in quel rito di lunghi cappuccino-e-cornetto mattutini in cui ognuno celebra le proprie tesi, come un anziano nell’agorà, con convinzione e decisione.
“Ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero”.
Così parlava Demostene, che nell’agorà un po’ di esperienza l’aveva, e in fondo in questo tempo sospeso di filosofia spiccia, ma essenziale, se è difficile portare teorie a fondamento delle proprie tesi è vero anche che non esiste alcun tipo di smentita. Tutto è possibile, ognuno è profeta in patria.
Mancano i ritiri al fresco dell’altura, dove i calciatori assumono la dimensione umana dello sforzo, e per qualche settimana diventano simulacri tangibili per le frotte di tifosi che riversano in quei giorni tutto il loro incalcolabile amore. Mancano i sorrisi generosi di un direttore sportivo che lascia intendere tutto o niente, le biciclettate spensierate di un Andrea Pirlo composto nella sua eleganza quasi impartita, e oggi impegnato negli oscuri palazzi a gettare le basi del suo futuro.
Mancano i giornalisti allampanati e trasfigurati da giornate trascorse a piantonare hotel o residenze estive, mancano le sigle improvvisate di trasmissioni appositamente allestite. E diciamolo, mancano soprattutto a noi, che viviamo per essere diversi da tutto questo e ci troviamo orfani smarriti, alla ricerca di un nemico e di una controparte che quest’estate ha incatenato nella memoria.
Così oggi è Ferragosto, festività ignota ai più, ma data simbolo del nostro calendario. Crocevia obbligatorio di ogni vacanza, apice estremo d’estate e per commutazione di italianità. Simulacro bifronte, che celebra da un lato le ferie e dall’altro ne segna l’inizio della fine. Si giocherà anche stasera, un ennesimo piatto ricco di campioni, ma la sensazione è che avremo più piacere a trascorrere una serata in compagnia, sorseggiando una birra ghiacciata davanti alla griglia rovente di un barbecue in piena tradizione, o con il naso all’insù a contemplare le esplosioni pirotecniche che colorano gli ultimi istanti di un’estate – mai come quest’anno – italiana. Illusione di spensieratezza ma carica di nubi minacciose, che nemmeno il calcio è riuscito a scrollarsi di dosso.
Allora da tutti noi una buona estate, con l’augurio che la prossima possa essere diversa, cioè uguale a quella di sempre. Con i suoi svaghi, le sue attese e i suoi sogni.