Roberto Gotta
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Calcio
Roberto Gotta
08 Aprile 2020
I Magpies vogliono la testa di Mike Ashley
Cronistoria del tormentato rapporto tra i tifosi del Newcastle United e il loro presidente.
Riavvolgiamo la storia, di un po’. Al giorno in cui il Liverpool giocò in Coppa d’Inghilterra e il suo allenatore non solo non schierò la squadra titolare, ma non fu neppure presente alla partita perché preferì andare a vedere il Colonia. Roba da matti. Un pugno in faccia alla tradizione, un’ammissione esplicita che la FA Cup contava sempre meno.
Dice: c’è un errore però, Jürgen Klopp lo scorso anno non saltò Liverpool-Shrewsbury Town del quarto turno per andare a Colonia, stava semplicemente rispettando la sosta invernale, per sé ed i propri giocatori. Certo. E infatti non era Klopp, l’allenatore in questione. Era Bill Shankly, il ‘creatore’ del Liverpool. E l’anno era il 1965: i Reds dovevano affrontare lo Stockport County ma Shankly preferì andare a visionare i tedeschi, avversari nei quarti di finale di Coppa dei Campioni.
La squadra, contro il County, venne guidata dal futuro campione d’Europa Bob Paisley e in realtà era quasi tutta composta dai titolari. Ma pareggiò 1-1 e passò il turno solo vincendo per 2-0 il replay (la ripetizione, per parlare come si mangia), partita nella quale tra l’altro per la prima volta venne deciso di utilizzare i calzoncini rossi: fino a quel momento infatti erano stati bianchi.
Ora, che lo si ricordi a distanza di 55 anni indica che quell’episodio fu occasionale ma si tratta, in fondo, del primo segnale di una tendenza che negli ultimi anni si è accentuata e che sta rovinando l’essenza stessa della Coppa d’Inghilterra, oltre a creare fratture in quello che comincia ad essere inadeguato – ed impreciso – chiamare ‘calcio inglese’. L’arrivo del terzo turno, quello dei primi di gennaio, quello in cui scendono in campo anche le squadre di Premier League, è tradizionalmente stato salutato con entusiasmo ed elettricità.
Perché veniva dopo un fittissimo programma di partite di campionato sotto le Feste e permetteva di porsi obiettivi nuovi: chi era in una situazione mediocre di classifica poteva azzerare tutto e provare un percorso liberatorio e catartico in coppa, chi stava già andando bene poteva sperare di mantenere vivo lo stato di forma. In pieno inverno, era come accompagnare il progressivo riallungarsi delle ore di luce, anche se i ricordi più belli di 150 anni di coppa sono quelli di partite tutt’altro che luminose, spesso su campi fangosi, con brume ed atmosfere che il cliché riconduce normalmente alla Gran Bretagna. Ora, però, quasi tutto questo è svanito.
La magia della FA Cup è tema ricorrente, un tormentone dei primi di gennaio, ma è ormai più slogan e propaganda che realtà: perché per molti più club di prima, e molto più di prima, la coppa è purtroppo diventata un fastidio, un imbarazzo, un impegno del quale si farebbe volentieri a meno.
Lo scorso anno Klopp volle risparmiare se stesso e i suoi da quella che era di fatto una ripetizione, dopo il pareggio a Shrewsbury, e già in dicembre aveva lasciato che contro l’Aston Villa, in Coppa di Lega, giocasse e perdesse, allenata dal tecnico degli Under 23 Neil Critchley, una squadra B, visto che quella ‘vera’ era al Mondiale per club. Nel derby contro l’Everton al terzo turno ci furono in campo addirittura tre debuttanti e insomma il concetto è chiaro. Si dirà: sì, ma quello fu un caso estremo, comprensibile, una squadra così concentrata sul potenziale bis in Champions League e sulla sospirata vittoria in campionato da lasciare da parte ogni altro aspetto.
Ma il grande guaio è che, anche se non sei il Liverpool, puoi avere altri obiettivi che ti impediscono di considerare la Coppa con l’importanza di un tempo. E tutto questo è l’effetto dei cambiamenti radicali apportati al “calcio inglese” – virgolette, sì – negli ultimi trenta anni. Con la trasformazione della vecchia First Division in Premier League, infatti, e il progressivo incremento della ricompensa economica per chi vi prende parte, sono aumentate la preoccupazione di retrocedere e l’ossessione di entrarci.
Allo stesso modo, i vantaggi per chi partecipa alla Champions League sono enormi rispetto al passato, e arrivare in una delle posizioni che qualifica all’edizione successiva è diventato un imperativo per club che azzardano previsioni di bilancio mettendo in conto l’introito proveniente (almeno) dalle sei partite della fase a gironi. Assai maggiore di quello di una vittoria della FA Cup, figuriamoci del semplice passaggio di alcuni turni, con tutti i rischi che la partecipazione comporta.
È il motivo – e questa storia bisogna riprenderla, per chi se la sia persa – per cui Liverpool e Manchester United per quasi tre anni hanno elaborato dietro le quinte quel cosiddetto Project Big Picture poi svelato nell’ottobre scorso dal quotidiano Daily Telegraph e, una volta uscito allo scoperto, stroncato in un vertice di emergenza tra i vari organismi del calcio di lassù.
Questo progetto avrebbe permesso ad un numero ristretto di società di prendere in mano alcune decisioni per il futuro, compresa la gestione dei diritti televisivi anche per la Football League, dunque Championship, League One e League Two, che complessivamente avrebbero avuto il 25% di tutte le entrate della massima lega oltre ad un contributo iniziale di 250 milioni di sterline per superare la crisi dovuta alla paura della pandemia.
L’intento ufficiale poteva anche essere nobile, ma ne sarebbe uscita una Premier League con 18 club e non più 20, e con la differente distribuzione degli introiti televisivi si sarebbe creato un divario maggiore tra le grandi squadre e tutte le altre: come ha detto Rick Parry, presidente della Football League (ed ex capo della Premier League) e architetto del Project Big Picture assieme a United e Liverpool, di cui è stato anche amministratore delegato,
«le grandi vogliono maggiore controllo. Come è possibile che in assemblea di Premier League l’Huddersfield Town avesse lo stesso potere del Manchester United?».
In sostanza, le grandi stesse volevano la garanzia, con un maggior potere economico basato anche sulla distribuzione di soldi in base alla classifica, di poter essere sempre grandi, anzi sempre di più, ai danni delle altre: passando anche per la vendita libera, in streaming, di sette partite all’anno. Ed è abbastanza evidente che in giro per il mondo possono esserci centinaia di migliaia di acquirenti per un Manchester United-Leicester City, ma molti meno per un Burnley-Southampton.
Il progetto prevedeva anche l’abolizione del Community Shield e della League Cup, o del mantenimento in vita di quest’ultima a patto che i maggiori club fossero esentati dal parteciparvi, per poter dedicare le proprie forze al maggior numero di partite europee, nel progetto di espansione della fase a gironi della Champions League. In più, divieto di replay per la FA Cup nel previsto periodo di sosta invernale.
Non sorprende che a guidare la rivoluzione, per ora cassata, fossero due club con proprietà americane ramificate anche nella NFL (Manchester United-Tampa Bay Buccaneers) e nella MLB (Liverpool-Boston Red Sox), dove peraltro vale invece il discorso del voto uguale per tutte: Buccaneers e Red Sox non possono retrocedere, nei rispettivi campionati, e non rischiano di essere eliminate in coppa da squadre minori, semplicemente perché le coppe non esistono. Coppe, detto per inciso, in cui tutto può accadere. Ed è proprio quello che in realtà i grandi club vogliono evitare: vogliono introiti sicuri, vogliono essere certi di poterli inserire nel budget pluriennale, vogliono eliminare gli imprevisti.
E la FA Cup, invece, di imprevisti vive.
Si è arrivati dunque a un miscuglio di situazioni in cui ad uscire male è spesso proprio la coppa: da un lato, un trofeo in più non fa ribrezzo a nessuno, men che meno a chi non ne vince da anni e magari è sotto pressione per mancanza di risultati; dall’altro, non si può assolutamente rischiare di farsi distrarre dalle coppe nazionali se si vuole evitare la retrocessione in Championship o in League One, si vuole conquistare la promozione in Premier League o l’accesso alla Champions League.
Ascoltiamo ad esempio quel che ha detto al sito The Athletic Rafa Benitez, allenatore dal 2016 al 2019 del Newcastle United, club che rappresenta una città dalla passione rara ma che non vince nulla dal 1969, e la Coppa dal 1955:
«Il problema delle coppe nazionali al Newcastle è sempre stato lo stesso: dipende dalla qualità della rosa e dalla posizione di classifica. Se sei una grande, puoi usare molte riserve e cercare lo stesso di andare avanti. Nessuno può dire che a me le coppe non interessino, visto che al Liverpool ho vinto la Champions League e la FA Cup.
Ma se stai lottando per salvarti o sei a 10 punti dalla promozione è diverso… Devi porti delle priorità e a volte va bene, altre male. Se sei a metà classifica puoi usare invece la tua formazione migliore».
E puntualmente, ogni gennaio o febbraio o marzo, ecco i club affrontare proprio la FA Cup con squadre prive di molti titolari sovraffaticati o preservati per altri impegni, dando luogo a partite svuotate di significato: i tifosi in molti casi hanno mangiato la foglia e si sono astenuti dal seguire, come dimostrano i dati del pubblico, spesso in calo rispetto alle medie del campionato. Con alcune eccezioni facilmente spiegabili: la richiesta di biglietti per le partite delle grandi squadre è così alta che le gare di League Cup ed FA Cup rappresentano un’ottima occasione, per gli occasionali ed i turisti, per andare allo stadio.
E allora le presenze non ne risentono. Ma i club che non sono di moda, quelli che hanno un sostegno soprattutto locale, non hanno tale fortuna: lo scorso anno lo Sheffield United, al massimo della sua forma, ebbe solo 11.000 spettatori per la gara contro il Fylde, mentre solo 20.000 – 4000 in meno della media per le partite di Championship – furono i presenti per Sheffield Wednesday-Manchester City, 15.000 per Crystal Palace-Derby County e 6000 per QPR-Swansea City, su una capienza di 18.000 e una media stagionale di 11.000.
Molti, insomma, non ritenevano che valesse la pena di andare allo stadio a vedere una partita forse mediocre, forse senza speranza per la propria squadra. Un ulteriore problema dell’attuale situazione è proprio causato dal divario tecnico e tattico tra le squadre della metà migliore della Premier League e una parte di quelle di Championship (o più giù): esso si è ormai talmente ampliato che le grandi possono superare i primi turni anche usando molte riserve, a partire dal portiere di coppa, ormai una tradizione.
La frattura è anche interna, interiore: Frank Lampard, per età e formazione personale e professionale, vuole vincere la FA Cup e la sua delusione per la finale persa lo scorso anno fu sia intima sia oggettiva, perché un trofeo alla prima stagione sulla panchina del Chelsea gli avrebbe permesso di respirare con polmoni ancora più pieni.
Ma non è detto che andare avanti in coppa sia nei migliori interessi del club se, nel frattempo, ci sono le esigenze di campionato e di Champions League. E quando ancora non si sapeva se si sarebbe giocata Aston Villa-Liverpool, per il problema di Covid legato al centro tecnico del Villa, l’allenatore Dean Smith aveva comunque fatto sapere di voler schierare alcune riserve, perché c’era da pensare alla partita di campionato contro il Tottenham del mercoledì successivo.
Detto da uno che è inglese dalla testa ai piedi, ha 49 anni e dunque è cresciuto quando ancora la FA Cup contava tantissimo, è un altro segnale: se andiamo avanti benissimo, se non andiamo avanti pazienza (la partita è poi terminata 1-4 per i Reds, ndr).
Oltretutto, il Villa è tra le squadre che meno hanno operato sostituzioni a partita in corso, il che vuol dire che forse la profondità della rosa non è fenomenale. O che i titolari sono fortissimi, chissà. Stesso criterio di perplessità sulle scelte si può applicare da anni a tantissime partite: basta guardare la posizione delle squadre nei rispettivi campionati, e quest’anno oltretutto il calendario folle costringerà ancora di più gli allenatori a moderare le forze dei propri giocatori.
Ma che cosa è allora, adesso, la FA Cup? È un torneo che in condizioni normali, ovvero con pubblico allo stadio, può fare bene ai piccoli club, specialmente se ospitano grandi nomi: perché si crea l’attesa, perché il cliché del ragazzino arrampicato sulla staccionata per vedere il Manchester City o il Liverpool nello stadietto fa sempre colpo, e al ragazzino frega poco se sette undicesimi della squadra ospite sono seconde linee.
Ancora più forte l’impatto quando si verificano situazioni come quella di Marine-Tottenham, sfida con il maggior divario di livello mai verificatasi al terzo turno, ottava serie contro prima: non per nulla è dal mese scorso che si parla di questa gara, delle particolari caratteristiche del campo dei locali, adiacente a casettine nel cui giardino finisce spesso il pallone, di una serie di curiosità divampate in tutto il mondo del web, con un copia-incolla quasi senza precedenti anche da parte di chi fino al sorteggio non aveva mai nemmeno sentito nominare il Marine.
Bastano queste suggestioni, questa propaganda mirata, questo rivestimento di sensazione e finto ascolto alla tradizione per attirare ancora, per far sobbalzare ogni anno, quando la FA Cup arriva al turno di inizio anno. Ma il calcio inglese, quello dei replay infiniti, dei campetti atroci anche negli stadi di prima divisione, è diventato puro spettacolo, snaturando poco alla volta quello che era il suo piatto principale, la Coppa.
Nel 1979 Arsenal e Sheffield Wednesday, che era in Terza Divisione, pareggiarono le prime quattro partite prima che alla quinta passassero i Gunners, vincitori poi del trofeo: e le cinque gare si giocarono il 6, 9, 15, 17 e 22 gennaio, con moltissimi giocatori sempre in campo perché le rose erano più ridotte di oggi, e ancora più partite, sei, giocarono nel novembre del 1971 Oxford City e Alvechurch.
È vero, in casi come quelli poteva subentrare anche apatia, e il tutto diventava più una gara di resistenza che una prova di tattica, ma anche questo contribuiva a rendere la coppa diversa da tutto il resto. Eppure, poco alla volta proprio le caratteristiche più classiche sono state sacrificate per interessi superiori: addirittura, già dal 1990 venne abolita la pratica dei replay multipli, lasciandone solo uno, e con l’arrivo di allenatori stranieri come Arséne Wenger, apparentemente rispettosi della tradizione locale ma decisissimi ad adattarla alle proprie esigenze, la specificità della FA Cup è ulteriormente diminuita.
Statistica ben nota, ma tra anni Settanta e Ottanta il trofeo venne vinto da ben 12 squadre diverse, tra le quali tre di Seconda Divisione, e solo quattro di loro (Arsenal, Liverpool, Manchester United e Tottenham) la vinsero due volte, mentre nei 20 anni successivi i numeri calano a sette, quattro delle quali vincitrici almeno tre volte a testa.
Dal maggio 1993 in poi, data corrispondente alla fine della prima stagione di Premier League e dunque con aumento di potere economico delle sue esponenti, di 28 edizioni 22 sono state vinte da Arsenal (nove), Chelsea (sette), Manchester United (sei), spesso in finale tra di loro o a distruggere malcapitate avversarie non in grado di opporsi (City-Watford 6-0 nel 2019, Arsenal-Aston Villa 4-0 nel 2015).
Non per nulla – e l’autore di queste righe ha seguito dal vivo moltissime di queste finali – la più memorabile, la più intensa emotivamente, la più simile a quelle dei tempi d’oro è stata Portsmouth-Cardiff City del 2008, per la felicità pura di entrambe le tifoserie di esserci nuovamente, a distanza di 69 (Portsmouth) e addirittura 82 anni (Cardiff City), e l’unico vero risultato sorprendente degli ultimi 30 anni è stato l’1-0 del Wigan Athletic al Manchester City nel 2013.
Era stato il trionfo di una piccola, oltretutto rivale regionale del City già potenza, e del proprietario Dave Whelan, che come molti sanno aveva giocato la finale del 1960 con la maglia del Blackburn Rovers, infortunandosi però al 43° del primo tempo e uscendo in barella mentre i suoi compagni di squadra, rimasti in 10 (all’epoca non erano ammesse sostituzioni), subivano altre due reti perdendo 3-0 contro il Wolverhampton. Ma cosa era poi accaduto a quell’imprudente Wigan? Di retrocedere in Championship, tre giorni dopo, e non tornare mai più in Premier League, rischiando addirittura il tracollo pochi mesi fa.
A Wigan pensano ancora che sia valsa la pena vincere la coppa, oltretutto contro quell’avversaria e con un gol all’ultimo minuto, ma altrove si fanno due conti e si pensa che il gioco valga sempre meno la candela.
E allora bisogna sperare in un disordine di risultati che spezzi il globalismo calcistico che, come tutti i globalismi, vuol dare sempre più spazi e soldi a chi ne ha già e sempre meno rilevanza agli altri, tappando la bocca ai dissidenti come nemmeno il peggior Twitter o Facebook. Non salveranno la coppa, così come nemmeno noi saremo salvati dall’orda che avanza, ma la soddisfazione di qualche sorpresa, di qualche risultato anomalo dobbiamo sempre coltivarla. È proprio questo che ha reso la FA Cup il torneo più affascinante del mondo, e ancor prima una storia (stra)ordinariamente inglese.
P.S.: ah, il Liverpool 1964-65 eliminò poi il Colonia con due 0-0 e un 2-2 nello spareggio giocato a Rotterdam, al termine del quale l’arbitro belga Robert Schaut, applicando il regolamento dell’epoca, lanciò una monetina: il capitano dei Reds Ron Yeats scelse ‘coda’, la monetina però si conficcò nel fango e Yeats, vedendo che si stava inclinando dal lato… sbagliato, chiese la ripetizione del lancio, facendo infuriare il suo collega tedesco e ottenendo che la sorte lo premiasse. Il Liverpool venne però poi eliminato dall’Inter in semifinale, ma in quell’anno vinse la FA Cup. E fu la prima FA Cup vinta nella storia del club, al tentativo numero 73 e 59 anni dopo l’analogo primo successo dei rivali dell’Everton.