Riabilitarlo è una battaglia di avanguardia, italianissima.
Premessa necessaria: prendete e prendiamo questa riflessione come un corsivo, un esercizio di stile ed anti-conformismo anche un po’ forzato, un espediente per non prendersi troppo sul serio. Non come un’opinione – per carità – ma semplicemente come una valutazione estetica, una suggestione. Magari “sbagliata”, ma che importanza ha? Un punto di vista talmente di retroguardia da diventare di avanguardia (?), o più semplicemente un prodotto della noia senza capo né coda. Allora dismettiamo i giudizi e, armati di coraggio ed ironia, con il sano gusto della provocazione, proviamo a compiere un’ardua missione: riabilitare Fabio Caressa.
Noi Italiani, ben più di altri popoli, tendiamo a rivalutare ex post, basta pensare all’improvviso slancio d’affetto nostalgico di questi giorni per zii e cugini che, fino a quando li vedevamo, erano più o meno parentiserpenti. In generale con la nostra e contraddittoria identità ci riconciliamo poco a poco: ciò accade un po’ con tutto, da Albano e Romina – prima vituperati adesso accolti ovunque con un sorriso bonario – allo stesso Sanremo – carrozzone antiquato nei rampanti anni 2000 e ora nuovamente rito di popolo – e su fino alla politica e a Craxi o Berlusconi, prima corrotti e corruttori oggi statisti (o quasi) rispetto a “quelli che ci stanno”.
Ma di esempi potremmo farne a centinaia, e in fondo la cosa coinvolge molti di noi. Non dovremmo viverla come una contraddizione – la coerenza in fondo è molto spesso la virtù dei rancorosi o degli stupidi – ma invece come una risorsa. Il dogmatismo e talune barbare dottrine d’oltralpe le lasciamo volentieri ai popoli del Nord.
Noi non siamo capaci come altri di tracciare linee indelebili, di condannare senza appello, e ci abbandoniamo invece immancabilmente alla nostalgia – vedendo la marcia inarrestabile del progresso, abbiamo pure le nostre buone ragioni. Qui più passano gli anni più crollano le certezze, nel bene e nel male. Ecco perché, soprattutto visti “quelli di oggi”, vi chiediamo: non sarà arrivato il momento di riabilitare il buon Fabio Caressa? Dai, colpire Caressa è come sparare sulla croce rossa, o ai pesci in un barile: è diventato un luogo comune ma in fondo, a Fabio, ci siamo tutti affezionati.
Eroe nazional-popolare del 2006, cazzone e pallonaro come molti di noi, forse anche arrivista chi lo sa (considerata la sua scalata ai vertici di Sky Sport) o semplicemente aziendalista come Cristo comanda, molti detestano Caressa perché, proprio come Berlusconi, li inchioda a loro stessi.
La critica a Fabione segue un po’ quel copione dell’anti-italiano di cui parlava in termini diversi Costanzo Preve, ma che si risolveva nell’ipocrisia di chi vuol tirarsi fuori dai vizi nazionali «fingendosi un sofisticato lord anglo-scandinavo capitato per caso in un mondo di trogloditi mediterranei». Sia chiaro, non tutti coloro che ancora oggi non sopportano il buon Fabio possono essere racchiusi in questi angusti termini, ci mancherebbe altro, ma per noi e per tutti gli altri ci sono tanti motivi per passare oltre, come avrebbe detto Zarathustra, nemico giurato dello spirito di gravità ma anche del rancore.
Fabio Caressa è in fondo un simbolo, una certezza incrollabile. Sta lì come un parafulmine a beccarsi le nostre stilettate mentre ci eleviamo dal divano di casaperché ci sentiamo più competenti, più intelligenti. Lui inconsapevolmente lo fa anche per noi, in un un perenne carnevale – pensiamo alle introduzioni delle partite, un numero da cabaret – che ci fa sentire migliori per (suo) difetto, ammettiamolo. Caressa in definitiva con la sua improvvisazione è in grado di valorizzarci, e i vaffa che gli mandiamo da anni assumono un valore letteralmente catartico.
Ma soprattutto Fabio è un simbolo sentimentale: la sua erre moscia è come il cappello di paglia di Albano, il suo ciuffo come le goffe espressioni di Massimo Boldi. Ce lo vedremmo bene proprio in un cinepanettonementre aiuta De Sica a nascondersi sotto al tavolo, braccato dalla moglie e dall’amante nello stesso ristorante. E poi che coppia straordinaria con Lady B, la grande Benedetta Parodi che ci ha regalato ore di inconfessabile relax con le sue ricette e il suo Cotto e mangiato (a proposito, le ospitate di Fabio in cucina mentre imbraccia goffamente mestoli e padelle sono uno sketch da Casa Vianello). Che meraviglia, che coppia da anni ’90.
Ma poi, sinceramente, voi davvero preferite i “competenti”?
Quella dei tecnici è una deriva ormai insopportabile, che settorializza il calcio e lo fa diventare una materia da addetti ai lavori. Il nostro modello sono i telecronisti genitluomini di una volta, non Caressa ma sicuramente neanche Adani o quelli come lui (non parliamo di Trevisani sennò ci scatta il cyber bullismo eternamente liceale): il football è rito di popolo, e autenticamente popolare deve rimanere anche il linguaggio, il racconto, soprattutto se esso si rivolge a milioni di telespettatori. Mille volte meglio un “Club” e un casalingo Senza Giacca di un focus tattico sui compiti di Muldur nel Sassuolo di De Zerbi.
In questo contesto Fabione è il miracolato che guida con la sue azioni, non si sa come né perché, l’eterna battaglia anti-intellettuale e anti-elitaria. Un eroe per caso, che resta sempre in sella al suo cavallo mentre i soldati valorosi (sempre che qui ci siano) vengono abbattuti uno dietro l’altro. Fabio è uno di noi quando ciancica l’inglese con il suo marcato dialetto romano, quando spara l’ennesima battuta ma poi se la rimangia subito dopo, preoccupato dalle conseguenze e dalle eventuali strigliate.
Approssimativo, aziendalista, umile coi potenti e forse potente con gli umili, sborone come si dice a Roma (ma ha anche dei difetti). L’Italia nel suo volto più folcloristico, alla faccia della meritocrazia nordica. Per non parlare poi della coppia con Beppe, signore e signori, poesia allo stato puro: commovente ancor prima di tramontare, nostalgica già nel presente. Solo un uomo con qualcosa da nascondere può detestare Bergomi, e il tandem con Fabio fa parte ormai della grande tradizione delle coppie italiane.
Direte infine che Caressaè un esaltato, ed è vero, ma è il nostro esaltato. Come in una battuta dei Simpson rivolta al direttore Skinner: «lui era un minchione, ma era il nostro minchione. Un minchione di cui si poteva andare molto fieri!» Ecco, così è Fabio. Un minchione come tanti di noi, di cui andare fieri. Un esaltato innocuo, che più sbaglia i nomi dei giocatori e si perde in strafalcioni più ti ci affezioni. Fabio Caressa non ha idea di chi sia la nuova stellina classe 2003 dello Sparta Praga (con tutto che una volta il suo Mondo Gol, insieme a De Grandis, era una perla rarissima): ma questo, vi domandiamo, è un male? O è invece una salvezza?
Ecco allora che conduciamo una battaglia impopolare ma che presto diventerà popolare. Attaccare Caressa ormai è retroguardia da rancorosi vecchi e stanchi, riabilitarlo invece è una scelta di avanguardia in anticipo sui tempi di almeno vent’anni.
Basta cupidigia di elevatezza, basta contorcimenti di ambiziosi; o meglio, in pubblico continuiamo anche a massacrarlo, a lavarci la coscienza fingendoci sofisticati lord scandinavi, ma in privato concediamoci tutti una risata. E soprattutto poniamoci la domanda: vogliamo davvero un mondiale commentato da Trevisani e Adani? Italiani!, la risposta già la sapete. Per oggi è tutto: lunga vita ar clab e a Fabione che continua a farci fare, a noi meschini, una gran bella figura.