Intervista a Fabio Liverani, l’autore della rinascita salentina.
Il catenaccio nello Stivale rischia di giungere ai titoli di coda. Merito di mister coraggiosi come Fabio Liverani, che invece di modellare la tattica dei poveri decantata da Carletto Mazzone ed Eugenio Fascetti, prova a infondere una mentalità contemporanea all’Unione Sportiva Lecce, portata, grazie alle sue ambiziose idee, dai gironi danteschi della Serie C al monte del purgatorio cadetto fino all’empireo del massimo torneo nazionale.
Uno degli aforismi più brucianti di Ezra Pound, tra un Cantos e l’altro, recita: «se un uomo non intende correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui». Il tecnico romano di origine somala, da parte di madre, nato nella città eterna il 29 aprile 1979, delizioso regista di Perugia, Lazio, Fiorentina e Palermo, scampato all’impazienza del Genoa di Preziosi alla prima esperienza in panchina, ha trovato, dopo le parentesi in Inghilterra e alla Ternana, la possibilità di mettere in pratica l’assioma poundiano nella verginità dissoluta del Salento, grazie alla lungimiranza del triumvirato Sticchi Damiani-Adamo-Liguori e del DS giallorosso Meluso.
Costruzione del gioco dal basso palla a terra coi centrali difensivi, spinta dei fluidificanti per tenere alta la squadra, istruzioni ai centrocampisti di gestione dei ritmi del match con un palleggio pragmatico, attacco della porta avversaria con diversi uomini, richiesta alle punte di un intenso lavoro per i compagni: un total football in grado di esaltare le caratteristiche realizzative delle mezzali e dei trequartisti in un 4-3-1-2 corto. La strategia più adeguata nella mimesi delle giocate per palati fini del Liverani playmaker-trequartista, propenso alla gestione della palla, ma anche a colpire con improvvise verticalizzazioni.
Intervistando il mister dei lupi, vincitore della Panchina d’Argento per la stagione 2018-2019, si percepiscono le chiare intenzioni di un professionista legato alla lealtà del calcio romantico, ma proiettato verso l’impellente modernità di una disciplina rivoluzionata dalla tecnologia, dal rinnovamento delle competenze e dal logoramento dei rapporti umani.
3 febbraio 2020, Coverciano: Fabio Liverani viene premiato con la Panchina d’Argento. (Foto di Gabriele Maltinti/Getty Images)
Col suo Lecce cerca la salvezza attraverso l’idea di un calcio totale, che piace moltissimo in Spagna e in Inghilterra, dove media e allenatori hanno apprezzato il coraggio della sua squadra in controtendenza rispetto alla tradizione catenacciara delle provinciali italiane. Ci spiega la sua filosofia?
Va bene la nostra tradizione, ma credo che il mondo si evolva. Oggi per una neopromossa chiudersi e andare in contropiede non è attuabile, perché la regola del VAR non ti permette di difendere in maniera spigolosa in area, tirare le maglie, cosa che prima passava quasi inosservata. La tradizione di potersi difendere nasceva dalla convinzione che in area valeva tutto per poi ripartire con i lanci. Oggi difendendosi negli ultimi sedici metri, prima o poi chi ha qualità può creare un episodio che spacca la partita. Da questa evoluzione dei tempi e dal mio credo calcistico ho maturato l’idea di provare comunque a vincere, a prescindere da chi si ha davanti.
Ciò non vuol dire puntare sull’estetica o cercare qualcosa di non proponibile per la rosa che hai a disposizione, ma poter dare al calciatore evoluto la possibilità di scegliere quando è il momento di poter giocare e quando il momento di allungare la pressione dell’avversario. Questo però non si può fare se non si allena durante la settimana. Optiamo per una tipologia di allenamento di tante ore sulla fase di possesso, assieme a questo lavoro ci mettiamo anche le transizioni negative, le marcature preventive, cercando, quando perdiamo il pallone, di andare subito in pressione per riconquistarlo.
È normale che l’idea va adattata ai vari momenti delle partite e agli avversari contro cui giochi, perché non sempre può venire tutto come lo prepari in settimana. La forza della mia squadra nel percorso che stiamo facendo è di non perdere mai quelle che sono le nostre certezze, adeguandole a certi tipi di partite e di avversari.
Oltre all’aspetto tattico, lei è uno degli allenatori che influisce di più sul miglioramento tecnico dei propri calciatori: pensiamo alle crescite di Falco, Mancosu, Petriccione, Calderoni, solo per citarne alcuni. In questo approccio alla squadra, si è ispirato a qualche grande mister del passato?
No. Negli anni in cui giocavo non c’era la voglia di incidere sull’individuale; tranne Delio Rossi, che cercava di curare i più giovani. Gli altri lavoravano molto sul collettivo, ma erano i tempi. Oggi nel calcio si cerca sempre di migliorare l’individuale all’interno del collettivo. La crescita di alcuni miei calciatori è stata amplificata in questa idea di gioco.
Sono nomi che avevano delle qualità ma non le avevano espresse al massimo della loro condizione. I Falco, Mancosu, avevano assaporato da giovani la Serie A, poi per varie vicissitudini avevano perso quel treno, entrando in un percorso difficile da poter riprendere. Mancosu con tanta Serie C, Falco con campionati di Serie B da protagonista e da comparsa. Per incidere su un atleta la cosa più importante è avere credibilità in quello che trasmetti e vuoi proporre. È la credibilità il valore più grande.
Marco Mancosu segna la punizione del 1-3 la scorsa domenica al San Paolo. Il sardo è uno dei maggiori protagonisti della stagione salentina dei ragazzi di Fabio Liverani (Foto di Francesco Pecoraro/Getty Images)
Per perseguire un’idea di calcio in provincia è determinante il legame tra tecnico, società e ambiente. In Italia assistiamo ad un’impazienza dettata dalla ricerca celere del risultato. Che idea si è fatto Fabio Liverani in merito?
Oggi è una sconfitta essere alla ventitreesima giornata e avere dodici cambi di panchina su venti squadre. Sono davvero tanti. È il limite più grande del nostro calcio. Non dico che non ci possano essere dei cambi in corsa, ma a volte influisce anche la fretta della proprietà. Tutto ciò cosa genera? Entra nella mente dei calciatori, in certe piazze, la sensazione che tanto ogni allenatore ha quattro o cinque partite.
Il calciatore che gioca in piazze dove questo succede sistematicamente si adegua alla situazione: c’è Liverani, c’è Antonio, c’è Giovanni, vediamo le prime quattro partite, in questa maniera chi non gioca invece di mettersi in competizione e alzare il livello delle prestazioni, aspetta il cambio. Un conto è una riflessione oggettiva: ci sono delle difficoltà, la squadra non ha più fiducia nell’allenatore, ci può stare. Ma a decidere tante volte è palo fuori, palo dentro, e così credo sia un po’ superficiale.
Ha il Lecce nel destino: ci ha esordito contro in Serie A quando era a Perugia il primo ottobre del 2000, fino a conquistarne la panchina nel 2017 a Catanzaro all’inizio della cavalcata dalla C. C’è una parola che crede possa riassumere gli anni nel Salento?
La parola è sincerità, che è la forza del progetto che abbiamo creato con la società e l’ambiente, avendo sempre la limpidezza di guardarci negli occhi.
È stato compagno di squadra di Simone Inzaghi per cinque stagioni alla Lazio. Che valutazione dà del suo lavoro, e si sarebbe aspettato una Lazio in lotta per lo scudetto quest’anno?
Simone è sempre stato un patito di calcio. Anche quando giocavamo conosceva tutto: i giocatori di Serie A, Serie B, Serie C, la passione per questo sport l’ha sempre avuta dentro. Abbiamo fatto i corsi insieme a Coverciano. La volontà e la propensione al lavoro si respiravano ogni volta che ci incontravamo e parlavamo. Pensare che la Lazio avesse potuto lottare per lo scudetto con Juve e Inter onestamente dico di no, ma la Lazio ha costruito una struttura societaria importante e snella: capo, direttore, allenatore, fine. Quando in una società c’è una struttura snella è più facile arrivare a chiarirsi, anche nelle difficoltà.
Loro hanno dodici-tredici giocatori forti, che sulla carta sono inferiori solo alla Juve, con l’Inter se la giocano. E poi ancora la continuità e l’esplosività di tre-quattro elementi come Ciro Immobile, l’emblema del sogno scudetto, Luis Alberto, cresciuto in maniera esponenziale, Milinkovic e Acerbi, e la bontà della scelta dei nuovi acquisti, ideali per gli obiettivi di inizio stagione. Il miglior esterno che potevano prendere era Lazzari e ciò dimostra che hanno fatto le cose giuste. Credo che il sogno sia bello, hanno tutte le possibilità, ma non deve passare il messaggio che se non vinceranno il campionato ma entreranno in Champions sarà un fallimento.
Il passato biancoceleste, l’amicizia e la stima con Simone Inzaghi. Fabio Liverani ha legato – inaspettatamente – parte della sua vicenda umana alla Lazio (Foto di Marco Rosi/Getty Images)
Poche settimane fa è scomparso Luciano Gaucci, l’uomo che l’ha portata sui campi della Serie A. Qual è il suo ricordo del presidente?
Ho avuto un rapporto con lui già dai tempi della Viterbese, condito da grandi scontri, ma sempre di passione. È uno degli uomini più generosi passati nel mondo del calcio. Passionale, generoso, ci metteva tutto. Tornando al discorso della Lazio, se lui avesse avuto una situazione societaria snella, ovvero lui e suoi figli e basta, probabilmente avrebbe fatto ancora di più nel calcio. La corte che aveva sempre appresso in tante situazioni non lo ha di certo aiutato. A livello umano è stata una persona buona e di grande affetto.
Un allenatore molto legato all’ambiente leccese e al Liverani calciatore è Serse Cosmi. Quanto è stato importante nella sua vita calcistica?
Il mister è stato colui che ha dato il là alla mia carriera da calciatore. Non posso che ringraziarlo sempre per l’intuizione e il coraggio di prendere una seconda punta dalla Viterbese e metterla come play in Serie A, soltanto dopo un mese. La sua convinzione che potessi fare quel ruolo ad alti livelli mi ha dato la spinta decisiva per giocarmi le mie carte.
Un altro mister che ha incrociato il suo cammino da calciatore è stato Roberto Mancini. Della sua operazione largo ai giovani e al bel gioco in Nazionale che ne pensa?
È stata la partenza migliore che potesse fare, dopo il grande fallimento della mancanza al Mondiale 2018. Oltre alle capacità tecniche, Roberto ha una sensibilità calcistica che lo porta a capire quello di cui c’è bisogno in un determinato momento. Credo sia una qualità estrema. Lui ha capito che all’Italia serviva, oltre ai risultati che servono sempre, riportare l’entusiasmo sopito dopo la tragedia precedente, attraverso un calcio frizzante con giovani che hanno voglia di giocare.
Se le chiedo di chiudere gli occhi e le dico quartiere Tuscolano, Oratorio Santa Maria Ausiliatrice, che immagine le viene in mente?
Sono gli anni più belli, senza pensieri. Ancora oggi dopo trentacinque anni ho dei rapporti con gli amici con cui sono cresciuto all’oratorio, ci sentiamo, ci vediamo, ed è una cosa stupenda. L’oratorio oggi darebbe qualche calciatore in più. Quei momenti ludici erano delle ore in più che davano la possibilità di tirare fuori dei campioni attraverso un tipo di calcio pieno di valori, puro, spensierato.
Fabio Liverani, romano e da ragazzo romanista. Qui in un duello ai tempi del Perugia con Emerson, altro padrone del centrocampo, il 14 Aprile 2001 all’Olimpico (Foto Getty Images/Mandatory Credit: Grazia Neri/ALLSPORT)
Lei è stato il primo calciatore afro-italiano della storia della Nazionale azzurra. Che ne pensa dello stato dell’integrazione nel nostro Paese e del clima difficile maturato nei confronti degli stranieri?
Non ci sono dei grandissimi passi avanti. Purtroppo, siamo sempre borderline. La poca cultura e le difficoltà dell’Italia, in primis il non lavoro, fanno sì che la colpa si concentri sull’extracomunitario. L’integrazione si deve fare con le persone che vogliono davvero integrarsi nel nostro Paese, e non con quelle che pensano di venire a fare i loro comodi. Su questo sono categorico. Vanno aiutati e integrati coloro che vogliono dare una mano al tessuto sociale e vanno allontanati quelli che vogliono soltanto creare danno al Paese.
11 maggio 2019, una foto è entrata nei cuori degli appassionati del football romantico: lei che abbraccia suo figlio in panchina poco prima del triplice fischio tra Lecce e Spezia nel pomeriggio della promozione in Serie A. Ci descrive quel momento?
Un’emozione spontanea, impensabile al fischio d’inizio della partita, per questo molto forte. Dopo la tensione di una stagione che ci ha portato a un obiettivo insperato, la condivisione del momento finale con mio figlio ha racchiuso tutto quello che rappresenta la vita calcistica e reale. Vivere il raggiungimento di un grande risultato con a fianco il proprio figlio credo sia una fortuna incredibile.
11 maggio 2019: il Lecce torna in A e il mister Fabio Liverani scoppia in un pianto liberatorio abbracciando suo figlio (Foto Leccezionale.it)
Gasperini, Conte, Sarri, sono alcuni dei vincitori della Panchina d’Argento, che ha spesso lanciato talentuosi tecnici nell’olimpo del calcio. Adesso lei. Che sensazioni le dà questo premio e qual è il sogno di mister Fabio Liverani per il futuro?
Mi ha dato una grande gioia. Non sono attento ai vari riconoscimenti, ma di questo premio ne sono orgoglioso, perché è dato da tutti i miei colleghi, gente che sta sul campo e conosce il lavoro e le difficoltà che ci sono dietro. Perciò ha un valore importante. I nomi citati nella domanda racchiudono quello che è il mio sogno. Voglio migliorare e centrare un grande obiettivo. Tutti e tre hanno vinto la Panchina d’Oro, spero un giorno di poterli raggiungere.
Fabio Liverani, un giovane allenatore in rampa di lancio intriso di cultura sportiva internazionale, che infiamma l’area tecnica nei novanta minuti come il Pietro Savastano di Gomorra – sua serie TV prediletta – ma che richiede nei rapporti umani legati al tappeto verde la stessa sincerità cantata da Battisti in Con Il Nastro Rosa, uno dei brani della sua giovinezza. Il modo più affascinante di vincere le paure della sfida. La scoperta di come si possa cambiare l’obsoleta mentalità vivendo. Alla fine è tutta qui la potenza inesauribile di un’idea, rispolverando la Cronaca familiare di Vasco Pratolini: