La Salernitana è l'esaltazione del calcio di provincia.
Fabrizio Castori, 66 anni e dieci promozioni alle spalle tra Terza Categoria e Serie B, dice di fregarsene delle mode: «Trovatemi lo scienziato che dice che il calcio bello è quello con cento passaggi». Il tiki taka lo annoia, il suo dogma è la costante ricerca della verticalità: «Faccio il calcio di Klopp, di Simeone, dello stesso Guardiola. Il mio è un calcio efficace, per me il passaggio orizzontale in difesa non serve a niente». Dichiarazioni forse un tantino pretenziose, ma che almeno portano agli onori delle cronache un personaggio tutto da scoprire.
L’uomo di San Severino Marche ha infatti riportato la Salernitana in Serie A a distanza di 22 anni dall’ultima volta. Un cammino verso la promozione culminato con il successo di Pescara, dopo una vigilia rovente in cui due pseudo tifosi salernitani avevano minacciato e aggredito la figlia diciassettenne di Gianluca Grassadonia, tecnico degli abruzzesi e originario di Salerno.
Che poi, a inizio stagione, in pochi avrebbero pronosticato il Cavalluccio in A. Il successo della Salernitana è però un elogio al passato: le statistiche dei granata rappresentano uno smacco ai ‘giochisti’, l’ennesima dimostrazione di come il calcio non sia scienza o modelli matematici da traslare su ascisse e ordinate.
«Il mio non è un calcio moderno? Rifiuto questa etichetta – ha detto Castori in un’intervista a La Gazzetta dello Sport – Il pallone se lo possono portare anche a casa, io mi prendo i tre punti. Il mio punto di riferimento è la velocità con cui si arriva a tirare in porta».
La Salernitana di Castori smentisce infatti alcune delle ‘tendenze’ del calcio moderno. All’Arechi la bellezza è differente: la Salernitana sublima il calcio all’italiana trapiantato nel cuore della provincia, con una delle tifoserie tra le più pittoresche d’Italia. I campani, arrivati secondi in classifica dietro l’Empoli di Dionisi, hanno avuto la percentuale media di possesso palla più bassa del campionato, con appena il 38%. Un’oasi nel deserto del palleggio esasperato.
La squadra ha inoltre realizzato 46 gol in 38 partite, 22 in meno rispetto a Empoli e Lecce (decimo attacco del torneo). Al contrario, i numeri difensivi evidenziano il lavoro meticoloso svolto da Castori: seconda miglior difesa del campionato (appena un gol preso in più rispetto al Monza), con la porta di Belec rimasta inviolata per diciassette partite (primato condiviso con i brianzoli).
I numeri della squadra rispecchiano, se mai ce ne fosse stato bisogno, le idee del proprio allenatore. Il calcio di Castori non è speculativo nè antiquato, bensì moderno nella sua applicazione. È lo stesso Castori che si definisce allenatore moderno, figlio di una gavetta dura e vincente: «Sono arrivato in A vincendo tutte le categorie – ha detto alla Gazzetta – vuol dire che le mie idee pagano. E mi rafforzano».
Una rincorsa alla A inziata dalla Belfortese, Seconda Categoria marchigiana. Poi sono arrivate nell’ordine San Vicino, Urbisaglia, di nuovo Belfortese, Camerino, Grottese, Cerreto, Monturanese, Tolentino, Lanciano, Castel di Sangro, Lanciano, Cesena, Salernitana, Piacenza, Ascoli, Varese, Reggina, Carpi, Cesena, Carpi, Trapani e ancora Salernitana.
L’apoteosi raggiunta con le promozioni in Serie A di Carpi e Salernitana, anche se uno dei successo a cui Castori è più legato è quello ottenuto sulla panchina della Comunità di San Patrignano, squadra formata interamente da ex tossicodipendenti, con la promozione in Seconda Categoria. Quell’anno, il 2004, l’uomo di San Severino Marche si divideva tra Cesena e San Patrignano seguendo entrambe le squadre dalla tribuna, complice la maxi squalifica per la rissa al termine della finale playoff di Serie C1 tra i romagnoli e il Lumezzane.
«Ho sbagliato ma non ho ucciso nessuno», fu la difesa anch’essa genuina del tecnico.
Quella di Castori sembra una figura chimerica nel calcio del guardiolismo e della qualità estrema. A Carpi ad esempio il tecnico marchigiano chiese al direttore sportivo Giuntoli di prendere ragazzi con voglia di lavorare e “non fighetti”. Perché il pallone ha preso una deriva inconcepibile per un figlio di elettricista e sarta, famiglia operaia e nonno trovatello, abbandonato in fasce in un convento: «Guadagni e successo cambiano le persone, solo i campioni mantengono l’umiltà», disse in una vecchia intervista.
La povertà, dice, è stata la sua forza, oltre alla meritocrazia. A Coverciano un giorno incontrò Enzo Ferrari, che lo presentò a Mancini, Zenga e Massaro: «Ecco Fabrizio Castori, la meritocrazia». «In quel momento – ricorda – mi sono sentito realizzato». Il suo calcio quindi sa ancora legarsi alla gente: il sacrificio è l’ingrediente vincente nella ricetta del successo, nel pallone come nella vita.
«La mia generazione ammirava Sacchi e Zeman, ma nei dilettanti c’era un solo concetto da trasmettere: correre, correre, correre».
Fabrizio Castori
Concetti che sembrano distanti dal calcio di oggi, nelle settimane di riflessione dopo lo scampato pericolo Superlega: «Il calcio si è imborghesito. Molti calciatori hanno poca voglia di lavorare, sono resi forti dai loro contratti».
Insomma, nel Paese che dibatte sulla bellezza del gioco, Castori ricorda cosa sia la vera bellezza: il successo della provincia, la sublimazione della fatica, la classe operaia che va in paradiso. Poco importa della costruzione dal basso e del palleggio esasperato. La bellezza viaggia altrove fino ad arrivare al cuore della gente. Senza ricorrere alle mode, Castori se n’è sempre fregato.