L’Italia che esce lacerata dalla Seconda Guerra Mondiale è un Paese da ricostruire dalle fondamenta. In maniera concreta, a causa dei bombardamenti di cinque anni, subiti dagli anglo–americani prima e dai tedeschi in seguito, ma non solo. Le macerie sono anche morali e mentali, tra famiglie devastate nel non veder tornare i loro cari dal fronte e una popolazione che deve fare i conti con una povertà che ha messo in ginocchio la Nazione intera. Ricominciare è una parola facile da scrivere, difficile da mettere in pratica. Tensioni latenti a livello politico fanno in modo che tutto resti dannatamente complesso.
In tale contesto, narrato alla perfezione al cinema da autori come De Sica e Rossellini, brillano piccoli lampi di svago. Una radio nell’angolo della cucina o condivisa sul bancone di qualche bar, la ricerca della stazione giusta per ascoltare le gesta sportive non di eroi classici, ma di uomini comuni. Miti di tutti i giorni, le rughe che scavano i loro volti. Atleti che alleviano le sofferenze di una generazione che vede il futuro ancora a tinte fosche, mentre all’orizzonte si stagliano i dollari del Piano Marshall. Due discipline. Il calcio e il ciclismo. Tre nomi, scolpiti a imperitura memoria. Il Grande Torino. Gino Bartali. Fausto Coppi. Attorno a questi totem sportivi, il nostro Paese lentamente germoglia verso una ripresa lenta, ma gioiosa, che confluirà nell’indimenticabile periodo del boom degli Anni Sessanta.
Estratto tratto dal libroVittorio Guido – La sua storia, scritto da Riccarlo Lera, Roberto Botta, Giovanni Guido e Roberto Livraghi (Edizioni Chieketè, 2023)
Quella domenica 30 agosto 1953, sulla Crespera di Breganzona, il paradiso sportivo non deve essere stato troppo lontano. Eppure, non è una salita mitica, non la paragoni nemmeno all’Alpe d’Huez o al Passo Gavia. Non importa, Vittorio (o Gianni, dipende da quanta vicinanza avevate con il nostro protagonista) Guido si era segnato la data dei Campionati Mondiali di Ciclismo di Lugano perché sapeva, in cuor suo, che Angelo Fausto era a pochi chilometri dal suo zenit sportivo. A 34 primavere, vissute tutte senza risparmiarsi nulla, poteva anche essere l’ultima chiamata.
Non era l’epoca del cannibale Eddy Merckx, ma Coppi le gare che contano, strada o pista, a tappe o in linea, le aveva conquistate tutte. Gli mancava l’alloro iridato, che in Italia spettava solo ai padroni dell’epopea del mito, Alfredo Binda e Learco Guerra. Maledetta Copenaghen ‘49, con quel percorso piatto come nemmeno la statale che da Serravalle porta sino a Tortona.
Nemmeno un dannato cavalcavia per sfoderare un fisico snello, curvo sui pedali, il naso che sbuffa di fatica, i polmoni come due stantuffi che non si fermano mai. Le gambe mulinano sui pedali e staccano minuti ai rivali. Ginettaccio non è più il riferimento da battere, ora si combatte contro Koblet, Bobet, Magni. Quel pomeriggio ticinese la vittima designata è Stan Ockers, una delle infinite gemme che il Belgio ha regalato alle due ruote.
Prende sette minuti da Fausto. Una corsa finita ad 84 chilometri dal traguardo. Un assolo, forse l’ultimo degno di nota di una carriera che ha avuto il sapore delle tragedie epiche. Il primo Giro da ragazzino, il conflitto che gli tarpa le ali, la prigionia in Africa, gli infortuni, la voglia di lasciare quando il fratello Serse sbatte la testa contro un ciottolo a Torino e non si risveglia più da quel trauma. Ascese e cadute, come Icaro a volte troppo vicino al sole per destare l’invidia degli dei. Immaginarsela, la gioia di Vittorio Gianni Guido, sul traguardo di Lugano, non è poi troppo difficile.
Li divide un anno d’età e poco altro. Nati tra colline che profumano di vigna, aspra e dolce al tempo stesso, dentro un’Italia agricola, fatta di schiene che si spezzano nei campi e di saggezza (e furbizia) contadina. La voglia di emergere, da non confondere con la voglia di scappare da quel territorio che li ha cresciuti e coccolati, bastone e carota come si faceva all’epoca.
La differenza, per nulla sottile, con i giovani d’oggi, che ripudiano il paese natio per diventare un numero, uno dei tanti, confusi tra il cemento di frenetiche metropoli. Emergere per restare, per diventare i simboli di quelle colline, di quei paesi che popolano una striscia di terra che le mappe geografiche chiamano “Basso Piemonte”. Bosio e Castellania non devono essere state troppo distinte, sul finire del Primo conflitto mondiale. Come si siano conosciuti, Fausto e Vittorio, resta un piccolo mistero. Certo è che si tratta di vero e proprio “colpo di fulmine sportivo”.
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