Toc. Toc toc. Toctoctoctoc. Il suono sordo e ritmato aumenta progressivamente. I gesti misurati e precisi del palleggio contro un muro verde restituiscono senza troppo stupore l’eleganza immanente di Roger Federer, immacolato come sui prati di Church Road, anche in una banale challenge di Instagram durante la noia del primo lockdown.
Decisamente meno scontato era prevedere che quei frivoli palleggi disincantati, indossando una paglietta di sfida, sarebbero state le uniche istantanee di tennis del fuoriclasse elvetico nell’arco di oltre dodici mesi. Proprio gli Australian Open dell’anno passato erano stati l’ultimo torneo giocato da Federer e, con lo Slam di Melbourne alle porte, un momento di riflessione sul Re sembra opportuno.
Programmaticamente, le scelte di Roger erano state impeccabili, come al solito. A febbraio aveva deciso di risolvere alcune noie legate al suo tribolato ginocchio destro sottoponendosi a un’operazione in artroscopia: avrebbe così compromesso la primavera americana sul cemento e la sfiancante stagione della polvere di mattone ma si sa, nella sfida a poker con il tempo, bisogna accettare di sacrificare qualche mano per portare a casa il piatto. Quello di Federer, nemmeno troppo celato, è sempre stato il giardino più bello del mondo.
Scelte rivelatesi ancor più lungimiranti per l’imprevedibile pandemia che ha cancellato tutti i tornei programmati durante il percorso riabilitativo di Federer, in una casualità di eventi che sembrava guidata dalla mano del destino. Eppure il rientro non c’è stato, anzi a giugno una seconda operazione aveva anticipato la notizia più infausta: addio a tutto il 2020.
Qualche settimana fa è arrivato anche il ritiro dagli Australian Open, questa volta non per problemi fisici, ma per scelte di vita ponderate. Non voleva costringere la famiglia a un isolamento in hotel di 14 giorni, come previsto dal rigido protocollo delle autorità australiane, quindi la decisione:
“Ho 39 anni, quattro figli e ho vinto 20 Grand Slam. Non è più il tempo di stare lontano della mia famiglia per cinque settimane”.
Parole sagge, dichiarazioni forti che hanno scoperchiato il solito vaso di Pandora e scatenato i cronisti di tutto il mondo. Questi si sono interrogati per l’ennesima volta sui nuovi fronti della carriera di Roger, ponendo gli usuali quesiti che si risolvono ormai non tanto nel se, ma nel come e quando il Re smetterà di giocare.
Come contro un debole passante, la chiusura a rete è arrivata da parte del diretto interessato sicura e precisa. Ha chiarito che ritroverà il campo sul cemento blu del Qatar Open di Doha, torneo che gli ha già garantito soddisfazioni sportive e in cui intende alleggerire la ruggine dell’inattività. Poi sarà la volta della stagione intera, senza remore, seguendo, come di consueto, una programmazione mirata per giungere al meglio agli appuntamenti decisivi.
Master 1000, gli Slam, i Giochi Olimpici – alla ricerca di quell’oro mancante in singolare, ultimo vero rammarico di una carriera perfetta – qualche torneo propedeutico alla preparazione dei grandi eventi, stagione sull’erba in primis. Valuterà se stesso, testerà il suo fisico in questa stagione così delicata, cercherà di capire se la spia della riserva sia accesa, e solo a fine anno dichiarerà le sue intenzioni.
Ma facciamo un passo indietro. Roger nelle interviste, sapientemente, evita l’argomento del ritiro: è un tema difficile da affrontare, sicuramente è anche molto sofferto, ma la vera domanda è chi siamo noi per formularla, questa domanda. L’elvetico è stato più volte messo alla sbarra, il suo elogio funebre celebrato ripetutamente dalle voci più autorevoli. Nel 2013, annus horribilis per il Re, anche l’insindacabile Scriba (Gianni Clerici) aveva steccato, quasi implorando:
“Adesso basta, Roger mio, fermati, ti prego”.
Un lungo stop e poi la decisione: sapete che c’è? Continuo. Smentendo tutti sono tornati i successi, le prime posizioni della classifica, la Coppa Davis. E poi ancora nel 2016, quando il ginocchio destro aveva iniziato a tormentarlo il Daily Mail tuonava:
“Un’immagine sfocata e un bianco e nero di un televisore mal sintonizzato”.
E invece no, si sbagliavano di nuovo tutti: con i consigli di Ljubicic nel taschino e un gioco più spregiudicato sarebbero tornati gli Slam, ben tre, e la vetta della classifica mondiale.
Eppure, l’errore non è tanto quello di celebrare l’estrema unzione a un campione imprevedibile. Anzi, nell’anno in cui Roger spegnerà le 40 candeline, è molto più facile prevedere un futuro avaro di ulteriori allori. Ma è il concetto stesso che tradisce l’errore: perché vogliamo pensare che Federer debba necessariamente ritirarsi finché è ancora a livelli alti? Quale malefico cortocircuito ci pervade quando non ammettiamo la possibilità che possa perdere, invecchiare?
Il campione elvetico in realtà ha le idee chiare, e non bastassero le azioni questa settimana ha anche fatto seguire parole importanti:
«Voglio giocare a tennis per tutta la vita. Negli ultimi mesi ho dato tanto nella riabilitazione. Voglio festeggiare ancora grandi vittorie. Pensavo che non avrei seguito molto lo sport: sono rimasto sorpreso di aver continuato a controllare i risultati e a seguire le partite. E normalmente non lo faccio affatto se non prendo parte a un torneo».
Possono sembrare frasi banali, magari anche di circostanza, condite da una buona dose di retorica, ma solo per chi non conosce a fondo lo sport del diavolo. Matteo Codignola, nel suo “Vite brevi di tennisti eminenti” (Adelphi, 2018), riporta un aneddoto di Nastase intervistato da Peter Bodo, verso la fine della sua carriera, che può aiutare a decifrare la mistica del tennis:
«Trentacinque tornei l’anno per vent’anni ti distruggono. Sì, qualche volta mi rendo conto che non ce la faccio e penso, intanto finiamo la partita, poi vediamo. Ma non puoi chiedermi quanto penso di giocare ancora. Sarebbe come se mi chiedessi quanto penso di vivere ancora».
Roger Federer non ha mai fatto mistero di non immaginare la sua vita senza il tennis e si è certamente guadagnato il diritto di gestire la sua carriera a proprio piacimento; anche se fosse giocare fino allo sfinimento, perché quello che molti non capiscono è che allo svizzero giocare piace. Senza doverne rendere conto a nessuno. Anche perché Roger non è la rappresentazione più alta del tennis, è il tennis stesso: Federer più che giocare è giocato dal tennis, che lo elegge a suo tramite e profeta. Per uno come lui, smettere è ancora più innaturale.
È questa poi una valutazione che ignora volontariamente palmarés e record, sebbene siano invidiabili. Con i numeri si incidono le lastre delle rotative, con i ricordi si plasmano le memorie. Il suo gioco, e solo il suo, respira a pieni polmoni la nobiltà dei gesti bianchi, l’eleganza purissima dell’essenzialità. Roger Federer è tutto ciò che il tennis si ripromette di essere da quando il Maggiore Wingfield promuove il neonato gioco chiamato Sphairistiké tra l’élite britannica.
Nessuno come Federer ha saputo sintetizzare le anime diverse e spesso contrarie dell’estetica. Da una parte rappresentando il gioco come arte pura nel nome del recta ratio factibilium, la capacità di fare bene le cose, e dall’altra mantenendo l’efficacia più prosaica della techné. Insomma,il bello che vince, ciò a cui tutti aspirano e che quasi nessuno raggiunge.
Non la forza bruta di Nadal, non la dedizione robotica di Nole. Ma nemmeno la continuità glaciale e relativamente breve di Borg, l’irriverenza guascona di McEnroe, la maleducazione yankee di Connors. L’elenco sarebbe infinito e scomoda anche la gioventù ribelle di Becker o l’esuberanza tecnica di Sampras: nessuno potrebbe mai riconciliarsi al tennis come Roger.
L’uomo non separi ciò che Dio ha unito, dispone la Chiesa nelle unioni matrimoniali. E come ormai tra gli sposi la dispensa è più frequente della promessa, anche il sodalizio tra Federer e il tennis non può essere eterno. Siamo solo convinti che prima di calare il sipario ci sarà un lungo giro di giostra, riabbracciando le arene gremite per il doveroso saluto al campione. E quando sarà possibile, invitiamo tutti a investire nel pellegrinaggio, perché vedere giocare Roger dal vivo rappresenta un‘esperienza estatica carica di magnetismo, che riconcilia più che con il tennis con un determinato stile di vita.
Da parte nostra non vogliamo pensare alla destinazione, ma finché possiamo ci godiamo il viaggio. Nell’attesa di rivederlo indossare un blazer immacolato sui prati di Church Road, o di rivivere i “momenti Federer” che avevano stregato anche David Foster Wallace. Per noi, in fin dei conti, sarà sempre e solo un Bentornato Roger.