La mia conoscenza della disciplina del nuoto è piuttosto limitata, figurarsi la mia dimestichezza. Avendo completato con scarso successo un corso di nuoto in età scolastica, e avendo prestatogli, nel migliore dei casi, l’attenzione distratta che si riserva ad uno sport nel letargico zapping da olimpiade, non dovrei scrivere un articolo su Federica Pellegrini; tanto per rispetto nei confronti della disciplina quanto per decoro nei confronti della mia etica di giornalista. Se non fosse, ahimè, che la Federica nazionale continua a fare notizia non per meriti sportivi, ma per ingiustificate manie di protagonismo.
Da un mese a questa parte Pellegrini, già non vergine ai flirt con testate giornalistiche su tematiche che spesso e volentieri esulano dalla sua carriera, ha deciso di auto-scritturarsi per una non richiesta telenovela-monologo a tema Covid. Passi il comprensibile e giustificato rammarico per la sfumata partecipazione all’ISL (International Swimming League) di Budapest, meno le dinamiche ed i modi con cui la nuotatrice ha gestito la notizia della sua positività al virus.
Esulando dalle mimiche facciali, dall’apocalittica drammaticità della flessione vocale e dalla narrazione enfatica della nuotatrice (si veda a proposito l’aspettativa creata prima di annunciare la positività al tampone nel video datato 15 Ottobre 2020), il caso Pellegrini mette in luce un grave problema di comunicazione e consumo di notizie nella società contemporanea.
La spettacolarizzazione del dolore sta diventando, sempre di più, l’àncora di salvataggio per media alla deriva, spaesati ed annaspanti nel mare in tempesta che è ormai l’informazione occidentale.
In un malato rapporto biunivoco e bulimico, presunti vip – scavalcando i buoni vecchi uffici stampa – lanciano messaggi dai loro canali social, disperati SOS per deficit d’attenzione; auspicandosi così che questi vengano raccolti dalle testate, a loro volta ringalluzzite dalle ghiotte prospettive della remunerazione da click.
Se questo perverso schema comunicativo dà i suoi frutti è perché può contare su un nutrito bacino di utenza, lo stesso che legittima gli inutili monologhi della Pellegrini. A rendere il tutto più grottesco e malsano è, però, il passaggio dalla caccia alla notizia sul flirt o sulla foto osé del vip a quella sulla sua malattia. Morbosamente attratto dal dolore altrui, l’italiano espleta senza vergogna la sua storica inclinazione da spione da tapparelle socchiuse.
Come illustrava il sociologo francese Pierre Bordieu, la vita sociale di ogni persona, così come i suoi bisogni e le sue scale di valori, sono inevitabilmente legate alla sfera socio-culturale a cui appartiene. Mettiamo caso, o meglio, prendiamo atto che nella società occidentale di oggi la pubblica manifestazione del dolore (che prima lasciavamo rilegata al folklore religioso dei petti percossi in strada dalle donne siciliane in lutto) si è fatta cultura pop, materiale da ostensione social.
Mettiamo che in questa bolla tutta pop e mediterranea, oltre alla Pellegrini, si collochi anche il suo tifoso medio, nonché probabile spettatore dei talk show di Maria De Filippi o Barbara D’Urso. Ecco dunque che l’interesse verso il vacuo non solo è legittimato, ma eretto a necessità. D’altronde, in un altro degli appassionanti video della saga, la Pellegrini guarita dal morbo si concedeva un’uscita dalla sua casa-prigione, con l’ormai celebre motto “Maria, io esco”, massima dell’inossidabile femme fatale – o forse, dovremmo dire, Miss Piggy tricolore – Tina Cipollari.
Senza arrogarsi la superiorità morale o il cinismo di sminuire il dolore o l’iniziale sgomento della Pellegrini, si rimane perplessi dalla vivacità e lucidità che la nuotatrice tricolore mostrava davanti alla camera interna del suo telefono.
Chi davvero lotta tra la vita e la morte in un reparto Covid, con seri problemi respiratori, certo non dispone di tempo e vitalità per diffondere messaggi social; così come chi è affetto da febbre alta vorrebbe stare il più lontano possibile da schermi luminosi.
C’è da chiedersi poi quali forme di vanità e, in questo caso sì, di superiorità morale portino i personaggi pubblici a diffondere continui e – mi si permetta – superflui videomessaggi personali. Privi di ogni estetica, e spesso di etica, i videomessaggi con fotocamera interna, con i loro volti deformati da atroci giochi di prospettiva e dal discutibile uso delle luci, hanno colonizzato non solo il mondo dello sport e dello spettacolo, ma sono arrivati anche alla politica; attecchendo la poca credibilità residua di diversi esponenti delle istituzioni.
Se la società capitalista aveva già ucciso l’amore rendendolo démodé di fronte all’abbuffata voyeuristica delle dating app, il modello dell’appagamento istantaneo del desiderio di massa in stile Amazon o Apple si è presto adattato al Covid. A fare gola, per suscitare conseguente attenzioni ed invidie, non è più un bene materiale, bensì la fatidica positività al tampone. Anche chi non è positivo o non mostra sintomi, quasi per sfizio, ambisce a farsi testare per poi raccontare il dramma, racimolando fallace attenzione e pietà, più che compassione. Dall’ultimo modello di IPhone alla celebrità sanitaria, cambiano gli status symbol degli italiani, ma non il loro progressivo abbandono della dignità.
È di dignità che qua, di fatto, si scrive, senza voler sminuire o negare il dolore della malattia o dei lutti. Di quel briciolo di dignità che il popolo italiano, nonché occidentale, sta perdendo di fronte al baraccone mediatico che il virus ha portato con sé. Sarà che chi scrive preferisce la sobria dignità di grandi e silenziosi sportivi come Gigi Riva, che non hanno avuto bisogno del carrozzone mediatico per rimanere impressi nei pensieri e cuori del pubblico. La Pellegrini ricorda quelle star da Amici o – per l’appunto – da Uomini e Donne che, giunte al declino, cercano attraverso ospitate e colpi di coda mediatici di racimolare la fama residua.