Non abbiamo scelto noi italiani di nascere ferraristi: lo siamo e basta, da quando il mondo ci ha accolto fornendoci vuote speranze di realizzazione. Lo siamo perché, semplicemente, e questo è un discorso relativo soprattutto alle generazioni classe ’90, a pranzo la domenica erano solitamente tre le costanti: la pasta al ragù (o al forno, che dir si voglia), l’inno tedesco di Schumi e quello italiano del Cavallino. In congiunzione mistica.
Il presupposto della nuerofenomenologia di Francisco Varela restituisce il chiaro segno che quanto appena scritto non è soggettivo: la mente non rispecchia né plasma il mondo, ma si autoproduce con esso. In qualche maniera, sportivamente e socialmente siamo quel che siamo adesso grazie alla Ferrari, ai suoi successi, e all’infinito universo di significati che la sua presenza in questa realtà ci regala.
In sostanza da sempre, trascendendo soprattutto i temi tecnici: per mia nonna, ad esempio, come per un mucchio di altre persone lontane dallo sport, ma fisse nel vissuto di ciascuno di noi, “le corse delle macchine” sono solo una delle tante declinazioni del concetto di Ferrari. Che si tratti di Lewis Hamilton su Mercedes in F1 o di Sébastien Ogier su Volkswagen Polo in WRC. Basta che corrano, sono tutte del Cavallino. I 1000 gran premi in Formula 1 festeggiati al Mugello ci ricordano il perché di tutto questo, e il perché si può parlare di fede e spiritualità, soprattutto in un momento in cui servono fede e spiritualità per non perdere la pazienza.
TRA GOLPISTI E MORALISTI
«Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo.»
(B. Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani”)
In modo analogo a quanto raccontato da Benedetto Croce, e in un certo senso, «non possiamo non dirci ferraristi»: pur con la facoltà, pura, di tifare per altre scuderie. Non certo il sentimento prettamente anticonformistico che porta molti a tifare contro tutto ciò che è italiano (emblema in termini sportivi è l’accanimento e il masochismo nei confronti della Nazionale di calcio, che deve perdere sempre e comunque. Anzi: più perde, meglio è), inno del golpista verso una parte della propria personalità mal costruita o, più semplicemente, danneggiata dal tempo, dal vissuto.
Godere per le sfortune in casa Ferrari in F1, ad esempio, è diventata la nuova frontiera della deformazione del concetto di politically correct, dell’uno vale uno, della libertà di tifare altro che si trasforma in rifiuto delle radici. Senza alcun tipo di ragione, né spiegazione concreta. Moda: senza ammettere che si può adorare Lewis Hamilton e tifare Mercedes, o Max Verstappen e RedBull, pur non esultando come matti per le disgrazie rosse.
Il cristianesimo ha avuto, e continua ad avere, un problema simile con chi confonde la Chiesa con i precetti di un movimento spirituale che va al di là persino della fede: anche un ateo può comportarsi da cristiano. E la Chiesa, con tutti i suoi vizi e le sue deformazioni, no, non c’entra nulla. Ma il problema sta altrove. Per Søren Kierkegaard «la situazione moderna è l’indifferentismo, non tanto come espressione del fatto che il cristianesimo ha abbandonato il mondo, quanto del fatto che il cristianesimo ha abbandonato se stesso, oppure, più esattamente, che la cristianità ha abbandonato il cristianesimo»: non ci si comporta più da cristiani, o forse gli stessi comportamenti da cristiani stanno assumendo forme nuove, adattandosi alla modernità e all’interconnessione mediata.
«Non ho crediti con nessuno. Mi sono limitato a fare qualche cosa che egoisticamente mi interessava. Mi tranquillizza il pensiero che quello che ho fatto non abbia nociuto al mio prossimo. Se poi qualcuno ne ha tratto beneficio, allora al mio egoismo trovo una giustificazione.»
(Enzo Ferrari intervistato da Enzo Biagi)
Seguendo le parole e i concetti di Croce, come per il cristianesimo, la rivoluzione di Enzo Ferrari è stata popolare, culturale e spirituale e ha attraversato i confini del solo motorsport, contribuendo alla formazione di un certo status, riconosciuto e riconoscibile. Da ammirare. Nella maniera implicitamente più altruistica, e di conseguenza cristiana, possibile.
Due sono gli elementi che Ferrari non aveva previsto, però: il primo è la realizzazione di un brand che per Brand Finance ad oggi rimane il più forte al mondo (nel 2020 per il secondo anno consecutivo, con un indice BSI, Brand Strenght Index, di 94,1 su 100, superiore di 0,2 rispetto all’ascendente marchio Disney), il secondo è l’effetto negativo dell’evoluzione del concetto di “casta” sportiva in Italia. Di certo, altra cosa, non ci si aspettava risultati sportivi così infimi. «Come vorrei essere ricordato? Come colui che ha inventato l’acqua calda»: come Gesù Cristo, il Drake non ha inventato nulla. Il dovere morale di ogni uomo, animale politico/sociale, è teleologicamente orientato al bene prossimo. In un certo senso, però, in questo difficile compito anche la Ferrari ha abbandonato se stessa. Almeno in F1.
UMILIAZIONE CONTINUA
La ricerca del punto più basso di una stagione fin qui disastrosa rappresenta la eco di qualsiasi tipo di frattura aggravata nel tempo dopo il primo ritiro di Michael Schumacher nel 2006: e da lì in poi, inevitabilmente, è cambiato anche il nostro modo di vedere la Formula 1. Il problema sostanziale è che con Schumi è andata via quella parte del vissuto delle generazioni classe ’90 (ma non solo) che, come detto, associano il ritorno al successo delle rosse ad un quotidiano fatto di speranze e costruzione dei nuovi ideali di popolo, canto del cigno della società italiana alle soglie e all’inizio del nuovo millennio (forse è per questo motivo che vedere Mick sulla monoposto del padre al Mugello ci fa sentire meglio, persino più ricchi).
Neanche il successo di Kimi Raikkonen nel 2007 o il titolo quasi vinto da Felipe Massa nel 2008 (figuriamoci quello sfiorato da Alonso nel 2010) hanno saputo dar continuità a quanto visto e provato fino all’ultimo Schumacher in rosso, persino nelle sconfitte. La confusione in direzione sportiva, acuita dalle figuracce del campionato ancora in corso, rende tutto più amaro di quanto lo sia già, in una società che non sa più ritrovarsi neanche nelle cose più semplici: un gelato al mare non è più lo stesso gelato di qualche anno fa, esasperato dal clima d’odio che ben si sposa a quello moralista in una frittura mista di sentimenti, pensieri e repressioni vomitate sul piatto della quotidianità. Neanche comportarsi da cristiano per un cristiano è la stessa cosa ormai, costretto ad adattarsi ad un mondo di santi, di preti, di moralisti e di golpisti, tutti vuoti, in prima linea.
ABBIAMO BISOGNO DELLA FERRARI, QUELLA VERA
Per i più grandi, una Ferrari non vincente non è certo una novità, anche se paragonare le difficoltà sportive trascendendo epoche e generazioni resta comunque un grande azzardo. È cambiata la società, forse. Da quando il tifo calcistico ha invaso il motorsport, che coincide più o meno dal momento in cui lo stesso tifo calcistico ha invaso la sfera politica, tifare le rosse (in F1, come in altre categorie) è diventato quasi un crimine da attribuire agli allocchi di turno. In realtà, l’umiliazione più intima che trasmette la visione di una Ferrari sverniciata da tutti in rettilineo nel giorno del suo millesimo gran premio in Formula 1 supera qualsiasi tipo di polemica.
«L’inizio fu: non c’era assolutamente nessun cristiano. Poi divennero tutti cristiani – e per questo motivo non ci fu di nuovo nessun cristiano. Questa è la fine; e ora siamo di nuovo all’inizio».
(S. Kierkegaard, Diario)
Dopo il primo giro dalla ripartenza dalla prima bandiera rossa, Leclerc terzo girava più lento di Hamilton leader della corsa di 3.238, palesando sofferenza: delle monoposto in griglia, la Ferrari è praticamente l’unica a non aver apportato aggiornamenti tecnici alla vettura, fin qui. Ha cambiato la livrea, celebrando il GP numero 1000: ma cambiar colore ti fa andar più veloce solo nei videogiochi. Mattia Binotto nel post, insolitamente lucido, avverte che «la vettura ha un problema di base, piccoli aggiornamenti non serviranno».
Se non fosse stato per la penalità a Raikkonen, entrambe le Rosse sarebbero finite dietro Alfa Romeo, motorizzata Ferrari, al limite della zona punti su dodici partecipanti totali. Alla fine, la desolazione prende persino il posto della consapevolezza che le parole di John Elkann («Abbiamo la possibilità di ripartire nel 2022 con delle basi nuove») non nascondono sorprese.
Nel clima di profonda crisi spirituale che accomuna il cristianesimo e il Cavallino, il mistero della fede Ferrari è ciò che spiega il perché vedere correre la monoposto di Maranello a ridosso del decimo posto in griglia in faccia male sì, ma ci faccia ugualmente emozionare. E perché le parole meste degli avversari non risuonano come analisi godereccia di chi fino all’anno scorso avrebbe dato l’anima al diavolo pur di ricevere in cambio una condanna della PU che tanto ha fatto tremare Mercedes e RedBull, quanto come fonte d’orgoglio. E perché, infine, un pilota Ferrari sul gradino più alto del podio fa sempre e da sempre lo stesso effetto: sa di casa. Sa di famiglia. Sa di radici. Nel punto più basso della sua storia in F1 (forse), ma compiuti i 1000 GP, riscopriamo il senso del momento che stiamo vivendo, da ferraristi (anche inconsapevoli): «Il cristianesimo è inquietudine, l’inquietudine dell’eternità», afferma Kierkegaard, senza conoscere ancora la Ferrari. E il suo senso più intimo, per gli italiani.
Facciamo un viaggio alla scoperta dello spirito che ha animato le origini del nostro calcio, al riparo dalla compostezza e dal conformismo dell’attuale Serie A.
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