Il Cavallino Rampante ha vinto la 24 Ore dopo 58 anni dall’ultima volta. É il ritorno della leggenda.
Quando la 499P #51 di Alessandro Pier Guidi, Antonio Giovinazzi e James Calado, ha tagliato il traguardo alle 16:00 e pochi secondi, finalmente il popolo rosso ha potuto esplodere in un urlo di gioia, per poi sciogliersi in un brivido sulla schiena e qualche lacrima di commozione sul viso. È più bello essere ferraristi non (solo) per la vittoria che ha suggellato una gara meravigliosa ma per quello che sul Circuit de la Sarthe si è visto: motorsport puro, o per dirla con gli inglesi, proper racing. E quando il motorsport si fa puro, la squadra di Maranello è protagonista, capitanata nel World Endurance Championship da Antonello Coletta e il team di Amato Ferrari.
È più bello essere ferrarista e italiano anche per Antonio Giovinazzi, il ragazzo di Martina Franca classe ’93 che ha solo sfiorato il sogno di diventare pilota Ferrari in Formula 1 dopo una gavetta in Alfa Romeo. Senza mai mollare ha continuato a lavorare per restare a Maranello e il tempo lo ha ripagato con gli interessi. «Dopo anni deludenti finalmente una vittoria indimenticabile. Ho pianto! Ci sono poche gare al mondo che sognavo di vincere, Le Mans è la prima e le altre 2 sono Indianapolis e il GP di F1 a Monza. Ho realizzato un sogno». Per non parlare di Alessandro Pier Guidi, il pilota che meno di dodici mesi fa percorreva i primi metri di pista del prototipo a Fiorano e che ha avuto l’onore di portarla alla bandiera a scacchi la 499P #51. È più bello essere italiani per le centinaia di migliaia di persone che vivono e lavorano per le automobili da corsa, per un’eccellenza come Dallara che – oltre ad essere leader mondiale del settore – ha contribuito alla costruzione di questo successo e per tutti coloro che sognano il motorsport. È una vittoria che unisce alto e basso.
Il Centenario della Le Mans era un appuntamento con la storia per Ferrari, da cinquant’anni la Scuderia del Cavallino Rampante non partecipava in veste ufficiale alla 24 Ore e da cinquantotto non vinceva. Una vittoria inaspettata contro un avversario colossale e favorito dai pronostici come Toyota, contro i rivali storici della Porsche, contro Peugeot, contro Cadillac. Al debutto dopo mezzo secolo, gli uomini di Maranello dimostrano ancora una volta di saper fare le macchine, di saper fare le corse, di essere i più bravi e di meritarsi il vento a favore del destino. Un giorno all’improvviso, proprio come canta la sponda partenopea della penisola, il destino ha deciso che i ferraristi sarebbero rinati. E doveva accadere qui, dove l’epica non ha lasciato il passo allo show, dove le corse sono ancora fatte di uomini e di variabili imponderabili. Qui la Ferrari ha dimostrato di non essere morta anzi è tornata alle origini con quello che – a dispetto di quanto si vede in Formula 1 – sa fare: vincere con stile.
Nella classica francese abbiamo assistito alla «storia davanti ai nostri occhi», come scrive Roberto Chinchero su motorsport.com. Le generazioni che ci separano dal 1965, ultima vittoria del Cavallino firmata Jochen Rindt e Masten Gregory con la Ferrari 275 LM, ci hanno tramandato nel tempo la passione per il motorsport, la bellezza di essere italiani e ferraristi, l’orgoglio di essere i migliori al mondo, l’identità di un marchio che è tradizione e ispirazione. Un Cavallino che ci fa esaltare di passione. Mai avevamo vissuto una gioia sportiva così intensa, un trionfo così bello e pieno di significati come quello raggiunto a Le Mans ieri dalla scuderia di Maranello. Certo, l’epopea di Schumacher in Formula 1, ma vincere così a Le Mans con due piloti italiani è stata una cosa straordinaria. E potremo dire di averla vissuta, raccontandola ai nostri nipoti. Vincere una Le Mans equivale a un campionato di F1 se non di più, lo dicono i piloti, lo dicono gli addetti ai lavori, lo dice la storia. Soprattutto se la gara è intensa come lo è stata questa edizione.
La 499P di Pier Guidi, Antonio Giovinazzi e James Calado ha tagliato la bandiera a scacchi con un minuto e 21 secondi di vantaggio sulla Toyota GR010 #8 di Sebastien Buemi, Brendon Hartley e Ryo Hirakawa. Il duello Giappone – Italia ha caratterizzato tutto l’andamento della gara, con fasi intermedie in cui potevano vincere tutti i protagonisti dell’assoluta: la Cadillac V-Series.R gialla è stata la più veloce in pista nei tratti iniziali di gara con Bourdais alla guida, Porsche si è inserita nella lotta di testa sul far della sera mentre la meravigliosa Peugeot 9X8 era in testa quando un’uscita alla prima chicane di Mulsanne l’ha costretta alla debacle. Nella seconda parte di gara si è delineato il duello finale, con la #51 e la #8 a contendersi la vittoria. A pochi minuti dalla fine, un errore in frenata alla curva Arnage del giapponese Hirakawa – Hartley durante lo stint precedente segnalava una tendenza al bloccaggio delle ruote posteriori proprio in quel tratto del circuito – ha definitivamente spianato la strada al surplus finale di Pier Guidi. Disperazione per i giapponesi, esaltazione per gli italiani.
Possiamo dire senza timore di smentita che questa Le Mans, che questo campionato Endurance, vale molto di più della Formula 1.
Abbiamo visto uno spettacolo prodotto dallo sport e non il contrario, dove non serve la telecronaca urlante per riprendere la soglia dell’attenzione, quel motosport delle origini che tanto riesce ancora oggi a far innamorare. Abbiamo visto centinaia di migliaia di persone in pista, con tutte le condizioni meteo, o da casa, stare svegli giorno e notte. Questo grazie a un regolamento tecnico, quello delle Hypercar, che sta riportando interesse ed entusiasmo alle Case costruttrici puntando sullo sviluppo tecnologico sostenibile ma anche sulla competizione e non sullo show. Una politica sportiva che porta con sè l’imprescindibile conservazione del motorsport in quanto tale, dove conservazione non significa culto delle ceneri ma custodia del fuoco, un fuoco sacro che a Le Mans trova il suo tempio.