La pista, la piazza e la narrazione.
Si è conclusa la prima metà di campionato di Formula 1 2022 al GP di Ungheria, circuito sulla carta favorevole alle Ferrari, con un altro trionfo di Max Verstappen (partito dalla decima posizione in griglia) e finalmente si presenta l’occasione per tirare una riga e fare un bilancio della stagione che ha visto le Rosse di Maranello tornare competitive potenzialmente su ogni circuito e in lotta per il titolo Mondiale. Un inizio incoraggiante seguito da risultati mediocri, la crisi e la rinascita Mercedes, le difficoltà iniziali della corazzata Red Bull/Verstappen, gli errori evitabili sia da parte della squadra guidata da Mattia Binotto sia da parte dei piloti – Leclerc a Imola e al Paul Ricard su tutti – sono i temi sportivi di un mondiale ancora tutto da scrivere. Almeno così sperano i ferraristi.
Perché sì, i campionati di F1 sono complessi da conquistare e ca va sans dire non si vincono alla seconda gara. Se da una parte un argomento enorme è la gestione sportiva degli uomini Ferrari non sempre a livello degli avversari, il tema principale che emerge da questa prima parte di stagione è il racconto mediatico che contribuisce a distorcere – soprattutto nell’esaltazione iniziale – la percezione dei valori in campo, influenzando il percorso emozionale dei tifosi e rendendo estremamente umorale la piazza dei nuovi ferraristi: il tutto un’altalena simile a delle montagne russe, tra elettrizzanti esaltazioni e delusioni cocenti.
Così, con una squadra corse forse non all’altezza dei rivali e linee editoriali inadeguate, la piazza italiana ha fatto emergere tutta la sua volubilità.
Partiamo da un fatto: noi italiani – parafrasando Benedetto Croce – non possiamo non dirci ferraristi e lo dobbiamo al fatto che il pranzo della Domenica mediterranea fino qualche decennio fa, quando ancora si poteva sognare, aveva tre costanti: la pasta al ragù o al forno, l’inno tedesco di Schumi e quello italiano del Cavallino. In congiunzione mistica. Ad ogni latitudine, in ogni piazza, l’inno italiano conferiva un ulteriore elemento del terzo Comandamento biblico, santificare la festa con un trionfo ferrarista. Un’epoca in cui la piazza era in completa simbiosi emozionale con le due Rosse in pista, memore di una tradizione tricolore dal fascino unico e glorioso, che il Drake Enzo lasciò a tutto il popolo, motoristico o meno. Una piazza di appassionati prima che tifosi, espressione di una comunità di destino nazionale e patrio.
Negli anni duemila, soprattutto il secondo decennio fino ad arrivare a oggi, la Domenica italiana ha subito una evoluzione (o più probabilmente un’involuzione) ed è drasticamente cambiata: di quella trinità non rimane quasi nulla, il pranzo con la pasta al forno è stato sostituito dall’avocado e dal Sunday brunch, Schumi non sappiamo dove sia finito, disperso com’è in bilico tra la vita e l’abisso del destino, e l’inno italiano ferrarista sembra un retaggio culturale anacronistico. Almeno è l’unico, di quel trittico, ad essere rimasto. Anzi, ad essere ritornato dopo un periodo di latitanza.
Nel 2022 stiamo assistendo ad una Ferrari molto competitiva per entrambi i titoli mondiali, piloti e costruttori, come non succedeva dagli ultimi trionfi rossi firmati Kimi Raikkonen, canto del cigno della gestione Todt-Brawn-Montezemolo, altra triade protagonista dell’epopea di Michael Schumacher e indimenticata squadra degli imbattibili.
Chi compie 15 anni nel 2022, età quantomai da sogno motoristico, non ha visto nemmeno un mondiale vinto dalla Ferrari. Ci siamo andati vicini con due campioni, Fernando Alonso e Sebastian Vettel, ma niente. Solo delusioni, solo rimpianti. Al di là di questo triste fatto, dal periodo in cui Ferrari è stato un simbolo religioso di Italia vittoriosa nelle piazze e nel mondo è passato appunto il tempo di una o due generazioni. Gli Zoomers, la Gen Z, questo nuovo popolo, oltre a non aver visto una vittoria della Rossa, si è anche distaccato dalla passione del motorsport, complice il cambiamento epocale che sta subendo il concetto di automobile, accelerato negli ultimi 4/5 anni.
Nel frattempo, al di là di questo processo sociologico, la Formula 1 ha cambiato anche il suo storico proprietario. Bernie Ecclestone ha venduto agli americani di Liberty Media, che hanno imposto con ottimi risultati un nuovo corso nella commercializzazione della massima serie motoristica, sia dal punto di vista di marketing sia dal punto di vista della comunicazione. O, meglio, di narrazione. Perché per intercettare il nuovo mondo, Liberty Media ha investito in tante ottime iniziative dando una sterzata netta alla narrazione delle gare, a partire dalla serie Netflix molto criticata ‘Drive to Survive’. Questo cambio di narrazione dello sport, se da una parte sta allargando il bacino di pubblico, il che era necessario, trovando nuovi tifosi-clienti, dall’altro sta cambiando anche l’approccio e la percezione del pubblico alla specialità.
E per effetto di questo processo psicologico, anche e soprattutto la piazza ferrarista, la più identitaria, la più tradizionalista, sta cambiando. E sta diventando una piazza difficile.
Per strizzare – forse – l’occhio al giovane bacino di pubblico, è il giornalismo che ha clamorosamente perso di vista il suo ruolo di intermediazione per diventare un fomentatore di folle e veicolatore di messaggi precostituiti. La narrazione ha preso il posto dell’analisi e al posto del commento e dell’analisi critica, della ricerca di un giudizio di ampio respiro attinente alla realtà della pista, si sceglie la spinta emozionale, più remunerativa sui social e meno impegnativa dal punto di vista della lettura tecnica, sportiva e politica complessiva. Chi dovrebbe intermediare è diventato così complice del dilagante tifo da stadio che si vede nei circuiti e nei social, il sentimentalismo e l’emotività, componenti che al contrario andrebbero eliminate il più possibile, perché molto devianti nella percezione del pubblico, data la natura già di per sé emotiva, la sfida alla velocità e alla morte, del motorsport.
Un esempio su tutti i messaggi sbagliati dati ai tifosi: quell’insopportabile retorica del “predestinato” su Charles Leclerc. Come scrive Alfredo Cirelli su Fuoritraiettoria.com, questa retorica finirà per distruggerlo. Perché un campione diventa campione anche senza la propaganda mediatica, mentre la propaganda mediatica oltre a non far vincere i titoli può rovinare un pilota. Scrive Cirelli «elevarlo fino quasi al cielo è stata una mossa sbagliata, perché è in questi casi che si vede come la caduta sia più rovinosa. La sensazione è che si deve cercare di proteggere a tutti i costi il prodotto che si è venduto, quello del “Predestinato”. Ma questo alla lunga porterà ad avere sempre più spettatori che, stanchi di sentirsi sempre ripetere come lui sia perfetto, inizieranno a criticarlo gratuitamente per il gusto di andare controcorrente».
Qui le colpe del giornalismo nel preconfezionamento del personaggio e nella manipolazione della massa di tifosi emergono tutte, soprattutto – ribadiamo – nei confronti di quei giovani con meno strumenti di analisi.
Il ruolo del giornalista, dell’osservatore, del commentatore, dovrebbe essere quello di disciplinare gli interventi in modo misurato. Il focus dev’essere l’evento, senza perderlo di vista, senza esagerare. Un’intervista rilasciata recentemente da Gianfranco Mazzoni, storica voce Rai della Formula 1, ci aiuta a sviluppare il concetto. «Una volta un mio collega disse che la sua non era una telecronaca, ma la colonna sonora dell’evento. Lì francamente mi sono cadute le braccia. Poi per carità, io non sono il Padreterno o l’inventore di questo lavoro, quindi ciò che dico va commisurato; però non sei tu telecronista il protagonista, ma è l’evento, che deve essere messo in risalto con sobrietà e ricchezza di vocabolario. Devi conoscere ciò che dici, devi sapere la materia, non devi esagerare e non devi commettere errori, o almeno commetterne il meno possibile, per creare un prodotto che sia di qualità; ma non devi essere invadente. Non sei tu il protagonista, tutto qui».
Ecco, il giornalismo italiano della Formula 1 è diventato decisamente invadente. Non aggiunge nulla all’evento sportivo, al gesto sportivo, se non autocelebrazione attraverso il protagonismo del microfono, l’eccesso, l’esagerazione, l’esaltazione. E comunque mai in grado di andare a ricercare i problemi più profondi e complessi da analizzare e criticare, nel caso Ferrari l’alta dirigenza. La grande tradizione e cultura motoristica italiana non merita un tale livello di populismo giornalistico e superficialità sportiva. È una tendenza generale, figlia della politica di Liberty Media che a cascata coinvolge addetti ai lavori e media accreditati. Se n’è accorto pure Fernando Alonso:
«Credo che la percezione dall’esterno o il sentimento nei miei confronti sia cambiato di volta in volta nel 2007, forse la gente aveva una percezione di ciò che ero come pilota o come persona, poi le cose sono cambiate quando ero in Ferrari. I tifosi che abbiamo ora sono nuovi e in un certo senso, senza mancare di rispetto, non sanno molto di Formula 1. Sono più simili a quelli calcistici: chi vince è il più bravo, mentre chi arriva ultimo non è al livello della Formula 1. Non capiscono molto delle prestazioni dell’auto e del pacchetto necessario. Fai un buon weekend, sembri Dio, altrimenti sei troppo vecchio, o troppo giovane, o qualsiasi altra cosa. Tutti noi attraversiamo queste fasi. Ora i tifosi guardano subito la gara, si fanno un’idea per poi cambiarla la domenica successiva. Non c’è più una vera cultura della Formula 1».
Basti pensare ai recenti fatti di Austria e di Ungheria, dove tifosi di Verstappen hanno bruciato merchandising di Lewis Hamilton.
Nella dialettica tra un popolo non più legato allo sport dell’automobile e media narratori e non intermediari, stiamo assistendo alla trasformazione del pubblico appassionato consapevole e acculturato a un tifo volubile, massificato e inconsapevole, una folla dipendente senza arte né parte malleabile dalla narrazione momentanea. Nulla di nuovo, purtroppo, nel contesto occidentale: come diceva Gustave Le Bon le folle non hanno mai avuto sete di verità e chi sa illuderle può facilmente diventare loro padrone, mentre chi tenta di far aprire gli occhi è sempre loro vittima. Così il nuovo consumatore della Formula 1, e il popolo ferrarista in particolare, diventa mero spettatore di una narrazione umorale e precostituita, con cui strilloni e pifferai magici possono distorcere la complessità e la natura più profonda di questo sport.