Cultura
04 Agosto 2023

Filosofia del calcio di rigore

Il tiro dal dischetto come essenza del gioco.

La tensione che sale, palpabile: i rivali che, lentamente, raggiungono il loro posto per il rendez vous col destino. La telecamera che indugia ora sull’uno, ora sull’altro sfidante, in un alternarsi di primi piani. Stacco. Ora la visione grandangolare, splendida nella sua maestosità: la suspense sta per raggiungere il suo climax, ancora una inquadratura dei duellanti, la cui fronte imperlata di sudore denuncia una insicurezza potenzialmente fatale, o al contrario la fissità dei lineamenti una padronanza di sé quasi tracotante. E infine, un silenzio irreale interrotto dal segnale d’inizio del duello: e il trionfo dell’uno, che significa la morte dell’altro.

Se la Fifa non stesse somigliando sempre di più a un carrozzone egoriferito, intenzionato solamente a trovare scuse socialmente accettabili per accrescere il proprio già pingue patrimonio, una decisione saggia sarebbe quella di imitare quanto fatto dalla federazione internazionale di automobilismo e provare a catturare il pubblico giovane con una bella serie Netflix: il titolo sarebbe bello e pronto , “Score to survive”, e la scena cult di vicende ora appassionanti, ora drammatiche, in ogni caso leggendarie, nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe quella che vede il tentativo di trasformazione di un calcio di rigore.

Per girare la scena, garantendo la massima tensione emotiva, non servirebbero Peckinpah o Leone né i loro sceneggiatori: il copione si scrive da solo.

Non esiste infatti momento letterario nel football più alto del calcio di rigore: non solo perché il duello è sempre un must in qualsiasi opera letteraria, teatrale o cinematografica fin dai tempi di Gilgamesh ed Enkidu, ma soprattutto per il fatto che quella che viene descritta come la “massima punizione” riesce a condensare in sé l’intera gamma di sensazioni ed emozioni che un essere umano possa provare. Il capolavoro di Soriano, “il rigore più lungo del mondo”, ne è immortale dimostrazione: nella vicenda del Gato Diaz ogni singola parola ci trasmette l’attesa e l’aspettativa di un popolo intero, la passione delle hinchadas, la tensione dei due contendenti, il dramma di chi sbaglia, l’estasi di chi vince.


Il rigore: una storia di santi e dannati


Storie di perdizione e redenzione, come la parabola del nostro Di Biagio, che ai Mondiali del 1998 vide trasformarsi il suo incedere sicuro verso il dischetto fatale in una passeggiata verso la catastrofe, con l’errore che ci mandò a casa ai quarti e fece sprofondare lui in una sequela ininterrotta di incubi notturni. Discesa a cui pose fine il suo riscatto personale, quando alle semifinali di Euro 2000, con il timor panico ad accompagnare la sua avanzata verso l’area, riuscì invece a spedire il pallone alle spalle del portiere avversario.

Ed è didscalica la vicenda di un altro azzurro, Aldo Serena, il cui fallimento al Mondiale casalingo pose fine alle Notti Magiche alimentando al contempo la leggenda di un carneade coi guanti, Sergio Goycochea, che sfugge all’oblio proprio grazie alle prodezze negli shoot-out contro Jugoslavia e appunto Italia. Una sliding door che fa pensare alla canzone di De Gregori quando Serena, nel libro scritto con Franco Vanni e dal titolo ‘I miei colpi di testa’ (Baldini+Castoldi), racconta il suo approccio al rigore decisivo:

«Solo provare a camminare in quel momento era per me uno sforzo sovrumano. Nei minuti recedenti, per allonatanare il pensiero spaventoso del para rigori, avevo provato invano a fare training autogeno, (…) visualizzando momenti positivi della mia carriera. Non era servito, non era cambiato nulla. Le mie cosce erano rigide. Nelle orecchie rimbombava, amplificato, il tonfo dei miei passi sul prato. (…) a dominarmi era una sorta di allucinazione, che falsava la prospettiva e le leggi della fisica. Più mi avvicinavo al dischetto e più la porta si faceva stretta. Per contron Goycochea cresceva di dimensione». E ancora:

«L’ultimo sguardo che rivolsi alla porta mi impresse nel cervello l’immagine di un portiere gigantesco in mezzo a una porticina per bambini».

E non parliamo poi di match entrati diventati un must culturale. Trasferiamoci nel 1982, al Mundial spagnolo per noi ancora oggi indimenticabile. Pablito Rossi ha già fatto piangere il Brasile, fra pochi giorni Tardelli oscurerà la fama del capolavoro più noto di Munch e Pertini: in semifinale, a Siviglia, è andata in scena una delle partite più belle di tutti i tempi. La Francia del calcio champagne di Platini affrontava i cingoli della corazzata teutonica dell’acciaccato ma indomito Kalle Rummenigge.



Fu un romanzo calcistico destinato all’immortalità: continui ribaltamenti di fronte, gol leggendari (la rovesciata di Fischer), esultanze iconiche (Giresse, dopo lo splendido 3-1 che diede ai coqs illusioni di grandeur), infortuni drammatici (Battiston abbattuto in maniera canagliesca da Schumacher), scandali arbitrali e un colpo di scena dietro l’altro, con il match che diventa il primo in una Coppa del Mondo a venir deciso ai rigori: indimenticabile la crisi isterica di Stielike, uno dei grandi villain di tutti i tempi, sconvolto e inconsolabile dopo il suo errore, e poi il trionfo del reietto Schumacher, che neutralizzò i tiri di Six e Bossis mandando la Germania Ovest in finale.

Match storico, che ispirò libri, documentari, pièce teatrali, canzoni, come disse Pierre Rigal, fra i più celebri coreografi transalpini, “fu un evento che andava oltre lo sport”.

Un momento imperdibile, non è vero? Eppure, c’è stato un giorno in cui proprio le alte sfere sembravano volersi disfare di questa avvincente roulette russa. Rose Bowl, Pasadena, 17 luglio 1994: Roberto Baggio ha appena spedito nella stratosfera il rigore decisivo per l’assegnazione del quindicesimo campionato del mondo, e quello che segue è uno dei momenti più iconici della storia del pallone.

Il Divin Codino, che china la testa a osservare il baratro di orrore e rimpianto che si apre sotto ai suoi piedi e nel suo animo; il commovente Franco Baresi, che aveva osato un recupero fisico giudicato impossibile dai più, immortalato mentre scoppia in un irrefrenabile pianto dirotto; il portiere brasiliano Taffarel che si mette in ginocchio, le braccia rivolte verso il cielo a buttarla sul mistico come solo il popolo carioca sa fare, ringraziando Dio e Ayrton Senna, tragicamente passato ad altra dimensione pochi mesi prima e secondo la torcida capace di mettere lo zampino per deviare dall’alto il penalty del Pallone d’Oro in carica.


In difesa del calcio di rigore


È la legge dello sport, dove all’estasi del trionfatore fa da contraltare la disperata delusione dello sconfitto: un peccato però che né fotografi né telecamere abbiano potuto indugiare sulla reazione di un uomo, all’epoca potentissimo segretario della FIFA. Mentre infatti il presidente, Joao Havelange, abbandona seppur compostamente l’aplomb impostogli dall’etichetta e dal ruolo (che diamine, in fondo la sua patria ha interrotto un digiuno ultraventennale per tornare sul tetto del mondo), il suo erede designato Sepp Blatter chiude USA 94 con lo sdegno come sentimento dominante.

Da uomo pratico qual è sempre stato, lo svizzero si tormenta per lo spettacolo di scarsissima qualità esibito dalle due contendenti: oddio, un dirigente illuminato si interrogherebbe su quanto sia intelligente far disputare i match sotto la canicola, in orari assurdi per compiacere le TV, con umidità a tre cifre (Maradona, troppo Che Guevara e troppo poco Talleyrand, lo aveva ribadito dopo i primi j’accuse di Mexico 86, vedendosi subito iscritto alle liste di proscrizione di Nyon).

Ma poiché fra i consiglieri Blatter annoverava pochi amici e molti lacchè, nessuno ebbe da obiettare quando Sepp puntò il dito accusatore contro quella che Bruno Pizzul soleva presentare come “la crudele lotteria dei calci di rigore”. In sostanza, per Blatter l’unico momento emozionante di una partita altrimenti soporifera si trasformava nel nemico da cancellare. Non che nel suo delirante proposito il buon Sepp venisse lasciato solo. Transita direttamente dalla cronaca alla storia il commento vergato da uno scarsamente lucido Alex Wolff che su ‘Sports Illustrated’ fece pubblicare:

“Immaginate di ascoltare un dibattito tra Lincoln e Douglas e che, a un certo punto, qualcuno li interrompa, li faccia scendere dai rispettivi scranni e li costringa a decidere il vincitore in una gara di rutti”.

Dimostrando in tal modo di non aver visto o compreso gran che del match, paragonabile per intensità e bellezza al posteriore “Pietà” di Kim Ki Duk, unico film per cui il titolo vale anche come recensione. Viene quindi precipitosamente istituita una task force ampollosamente chiamata “Football 2000”, nella quale alcuni dirigenti Fifa sperperavano fiumi di denaro in resort di lusso e dame di compagnia dell’alta società , e nei ritagli di tempo cercavano di eliminare per sempre i rigori con delle idee strepitose: c’era chi perorava la causa dell’assegnazione della vittoria alla squadra che aveva ottenuto più calci d’angolo, chi invece voleva veder vittoriosa quella che aveva fatto meno falli, chi proponeva di far continuare il match fino al primo gol di uno dei due contendenti, mentre qualcuno lanciava l’idea di togliere un giocatore dal campo ogni 10 minuti nell’extra time. La proposta vincente fu l’abominio passato alla storia come golden goal, spedito nel dimenticatoio dopo pochi anni e ancor meno rimpianti.

Ma perché? Togliere i rigori sarebbe uccidere l’ultima frontiera del romanticismo nel calcio.


Origine ed evoluzione del calcio di rigore


Il rigore come lo conosciamo oggi nacque su iniziativa di tale William McCrum, portiere del Milford FC, che nel 1890 chiuse il primo campionato irlandese in ultimissima posizione, subendo più di sei gol a partita in media. All’epoca le mischie in area di rigore erano sostanzialmente delle risse in cui tutto veniva più o meno tollerato, finendo a volte addirittura in tragedia (nel 1898 una ginocchiata di Henry Moore aveva provocato delle lesioni gravissime a John Briggs, deceduto qualche giorno più tardi).

Giusto un anno dopo, uno spareggio di FA Cup fra Notts County e Stoke City vide lo Stoke derubato di un sicuro gol: un difensore del Notts anticipò di un secolo abbondante la mossa di Suarez a Sudafrica 2010 che costò al Ghana le semifinali. Lo scandalo che ne seguì portò all’accettazione della proposta di McCrum, e all’assegnazione di un “kick from the penalty spot” in caso di “sgambetto, trattenuta, o fallo di mano volontario”.

Nei tempi pionieristici, le novità non venivano apprezzate, esattamente come ai nostri tempi: e la squadra del Corinthians, ritenendo il rigore un insulto all’onorabilità del calcio, per un bel pezzo rifiutò di calciarli. Ma superate le prime resistenze, i rigori diventarono ben presto un irrinunciabile cult, destinato a rimanere impresso nella memoria di un popolo intero: i filmati sono praticamente introvabili, eppure non c’è calciofilo che non sappia raccontare il mitico rigore di Meazza nella semifinale della Coppa Rimet 1938, raccontato divinamente dall’aedo principe dell’italica pedata.

“Si fa avanti il Peppin Meazza per il 2-0 ma proprio in quell’istante gli salta l’elastico dal quale sono retti i calzoncini. Che fare? Uscire a cambiarseli o reggerli con la manina per il tempo che basta a pennelare il golletto santo? […] Guarda l’arbitro come a dire che è pronto. L’arbitro manda il suo trillo d’assenso e il Peppin con arguti passetti arriva a toccare: il portiere brasiliano si corica a sinistra: la palla, beffarda, rotola e quasi saltella irridendo fino a spegnersi nella rete: a destra.”

Gianni Brera, La leggenda dei mondiali

Più difficile è scoprire come si giunse all’ideazione delle famigerate sessioni post supplementari: la paternità è oggetto ancor oggi di vivaci discussioni. In Spagna si dicono sicuri che tale invenzione sia farina del sacco di Rafael Ballester, che nel trofeo Ramon de Carranza del 1962, perdurando la situazione di parità fra Barcellona e Zaragoza, propose alle due squadre di sfidarsi in una sessione di cinque rigori per parte, con eventuale prosecuzione a oltranza in caso di parità. In Germania invece non hanno dubbi: è stato Karl Wald, ex arbitro, a proporre questa idea nel 1970; l’illuminazione gli era venuta qualche anno prima, quando aveva visto il Liverpool e il Colonia sfidarsi nei quarti di Coppa Campioni, con i Reds che ottennero la qualificazione grazie alla monetina.

Per gli israeliani invece, la lotteria dei calci di rigore ha uno e un solo padre: Yosef Dagan, che convinse il presidente della propria federazione a sperimentarla nel 1965 nella coppa nazionale, e a proporla a livello internazionale (ne è prova, per esempio, un articolo da lui scritto e pubblicato su “Fifa news” nel 1969) dopo che alle Olimpiadi del 1968 Israele si era vista negare dal sorteggio la qualificazione alle semifinali. 1968 che peraltro aveva visto l’Italia conquistare il suo primo Europeo casalingo in modo rocambolesco: URSS sconfitto in semifinale grazie alla monetina di Tschenscher che glorificò la leggendaria fortuna di capitan Facchetti, e Jugoslavia regolata nella ripetizione della finale, dopo che la prima finì in parità dopo 120 combattutissimi minuti. Forse la storia sarebbe cambiata, se i rigori fossero già stati in auge…

E in effetti, un rigore può essere passaporto per l’immortalità: a Euro 76, nella finalissima, la rivelazione Cecoslovacchia, dopo aver fatto fuori l’olanda di Cruijff, costringe al pari la corazzata Germania Ovest. Per la prima volta una finale viene decisa ai calci di rigore: i primi sette tiri dal dischetto vennero tutti realizzati, poi uno stremato Uli Hoeness spedì il suo oltre la traversa.

A quel punto, dagli undici metri si presentò il dinoccolato centrocampista del Bohemians Praga, Antonin Panenka: prese una rincorsa lunghissima, “per disorientare il portiere e aver modo di capire cosa avrebbe fatto”, e nel momento dell’impatto col pallone, con il grande Sepp Maier già proteso in volo verso la sua sinistra, ecco il colpo sotto, con la palla che veleggia con lentezza quasi impudente e beffarda, e termina in rete, consegnando il campionato ai cecoslovacchi e fama perpetua a Panenka, inventore del cucchiaio, colpo mortale e spesso decisivo, come dimostrò l’uruguagio Sebastian Abreu, che spense le speranze del Ghana ai quarti di Sudafrica 2010 umiliando Kingson con un “Panenka” perfetto, stessa mossa con la quale aveva ammutolito pochi mesi il Maracanà come il connazionale Ghiggia in un memorabile Flamengo-Botafogo decisiva per il titolo.

Anche noi, popolo di santi, navigatori, ct e cuochi, siamo specialisti del cucchiaio: Totti a Euro 2000 stroncò definitivamente le velleità olandesi nel giorno che consacrò Toldo a insigne pararigori, Pirlo fu capace di ribaltare completamente l’inerzia della sessione dei quarti di Euro 2012, mandando k.o. Hart e consegnando gli inglesi all’ennesima sconfitta.

Il cucchiaio di Francesco Totti contro l’Olanda, semplicemente iconico

In effetti sono proprio queste due nazioni da noi sconfitte che avrebbero giudicato diversamente l’operato di Blatter: gli inglesi lo avrebbero forse fatto baronetto, vista l’ininterrotta sequela di fallimenti dal dischetto. Nel 1990 Lineker si consolò dall’eliminazione bruciante in semifinale coniando il suo celebre assioma sulla semplicità del calcio, gioco in cui 22 uomini si danno battaglia per 90 minuti e alla fine vincono i tedeschi. Glenn Hoddle, nel 1998, fece scalpore non solo per le sue deliranti dichiarazioni secondo le quali i portatori di handicap scontassero con la loro disabilità i peccati commessi nelle loro vite precedenti, ma anche perché affidò il rigore decisivo del match contro l’Argentina a David Batty. Che non ne aveva mai tirato uno in vita sua, prima. E, inevitabilmente, fallì.

Esattamente come Southgate due anni prima: non sappiamo cose ne pensi Hoddle con le sue strampalate teorie, ma l’elegante Gareth pare condannato a subire l’atroce delusione dei rigori fatali al calcio quando “torna a casa” secondo la pomposa definizione dei tronfi anglosassoni: gli europei casalinghi del 1996 videro i tedeschi eversori della perfida Albione grazie all’errore proprio dell’attuale ct, scelta inspiegabile visto lo score del difensore all’epoca: “ne avevo tirato solo uno, e lo avevo sbagliato” confessò mesi dopo in uno special rievocativo. Southgate vide poi infrangersi i suoi sogni anche nella finale casalinga del 2021: il rigore cruciale capitò sui piedi di un attonito Saka, con Donnarumma eroe inconsapevole, concentrato al punto da non accorgersi che quello che aveva parato era il tiro decisivo.



Ma i Maestri inglesi sono stati capaci di inventarsi modi sempre diversi di venir battuti agli shootout, non a caso sinonimo di sparatoria: detto del cucchiaio di Pirlo che ribaltò completamente l’andamento dei quarti a Euro 2012, a infestare le notti dei supporter dei Tre leoni è il fantasma di Ricardo, portiere e rigorista lusitano. Nel 2004, nell’Europeo disputato in Portogallo, riuscì a parare il tiro di Darius Vassell dopo essersi tolto i guanti: subito dopo, si incaricò personalmente di spedire il rigore successivo alle spalle di David James e il Portogallo al turno successivo. Due anni dopo, agli inglesi si prospettò la possibilità di una rivincita, ma Ricardo respinse le conclusioni di Lampard e Gerrard, demoralizzando a tal punto gli avversari che Carragher tirò il suo rigore prima ancora del fischio dell’arbitro. Naturalmente il rigore fu ripetuto, e il difensore del Liverpool si fece parare la conclusione.

Ma gli inglesi non sono l’unica nazionale a manifestare idiosincrasia per i calci di rigore: finire i supplementari in parità per il popolo oranje equivale a una seduta di progetto Lodovico col blefarostato (a proposito di Arancia Meccanica…). Con una meravigliosa eccezione: il memorabile mind game con cui Van Gaal disorientò il Costa Rica ai Mondiali 2014. Sneijder stava demolendo i pali della porta difesa da Keylor Navas, il portiere tico che peraltro sembrava in serata di grazia. Con la partita inchiodata sullo 0-0 , ecco che a pochi istanti dal triplice fischio il ct olandese manda a scaldarsi il portiere di riserva, Tim Krul, mossa che scatena il panico nella panchina costaricense.

calcio di rigore krul
La paura e la gioia, tutto nell’arco di pochi minuti

L’atteggiamento di Krul fu memorabile: provocatorio, insolente, tutto teso a deconcentrare i tiratori avversari , l’estremo difensore diventerà l’eroe della qualificazione in semifinale. Pareva la fine di una maledizione, l’incantesimo però finì ben presto: nel turno successivo Van Gaal non poté ripetere la propria mossa, e l’Argentina divenne per i Paesi Bassi quello che la Germania è per maestri britannici: anche nel mondiale qatariota, storia recentissima, le due nazionali hanno dovuto ricorrere all’appendice dei penalties dove il fomentatore Noppert con i suoi atteggiamenti isterici ha fatto solidarizzare l’intera Argentina con i tifosi foggiani che avevano dato fuoco all’auto del portiere olandese nel suo non indimenticabile periodo fra i satanelli: non che il suo collega, il famigerato Dibu Martinez, abbia dato lezioni di etica sportiva.

Gli atteggiamento sconfinanti apertamente nella cialtroneria del Dibu hanno creato così tanto scandalo da accelerare l’ennesima innovazione regolamentare penalizzante per i portieri. Infatti dal primo luglio 2023 è entrata in vigore la nuova regola voluta dall’Ifab, che impedisce qualsiasi comportamento del portiere atto a distrarre l’avversario nell’atto di calciare, costringendo l’estremo difensore a rimanere fermo, come un portiere del Subbuteo: mossa apertamente criticata dal portierone del Milan e della Francia, Magic Mike Maignan, altro gran pararigori, che ha sarcasticamente suggerito ai parrucconi dell’Ifab di “farci direttamente voltare, a questo punto.



E così sarà praticamente impossibile vedere qualcuno ripetere l’impresa del grande Helmuth Duckadam, che a Siviglia (città evidentemente cara agli dei della massima punizione) fu il grande protagonista della finale di Coppa Campioni del 1986. Il favoritissimo Barcellona sfidava gli underdog romeni dello Steaua Bucarest, che resistettero a oltranza fino a portare la partita al 120’ sullo 0-0. Lì Duckadam fu glaciale: basandosi su giochi mentali tratti dalle tattiche del poker, riuscì a intuire dove avrebbero calciato i tiratori blaugrana, che per quattro volte andarono sul dischetto, vedendosi respinto ogni tiro.

Fu il momento più alto della carriera del portiere dello Steaua, personaggio eccezionale che poco dopo sparì misteriosamente dalla circolazione: si vociferò addirittura di vendette del figlio di Ceausescu, che gli fece spezzare un braccio a causa del rifiuto del portiere di cedergli l’auto di lusso regalatagli dopo l’impresa in finale. La realtà è molto più banale: il prode Helmuth fu bersagliato dagli infortuni e costretto a chiudere anzitempo la carriera, inframmezzando i suoi ritiri con sporadiche apparizioni in cui peraltro dimostrava che il suo talento di pararigori era rimasto intatto. 

Insuccessi dei due team nazionali che non paiono casuali: l’approccio britannico oscilla invero fra l’empirismo e il dilettantesco, con i vari ct sconfitti, da Eriksson a Hdogson, che paiono considerare l’allenamento sui rigori pressoché inutile. Teoria spazzata letteralmente via da approfonditi studi di settore: lo psicologo Geir Jordet ha dedicato numerosi lavori ai blocchi da stress prestazionali sui rigori, mentre Ignacio Palacios-Huerta, professore della teoria dei giochi, è riuscito tramite l’analisi di una impressionante mole di dati a rintracciare schemi ricorrenti nella trasformazione dei calci di rigore richiestissime dalle squadre di vertice.

calcio di rigore italia francia 2006
Due dei memorabili rigori calciati dagli azzurri in finale contro la Francia nel 2006

Christophe Lollichon, preparatore dei portieri del Chelsea, riuscì a migliorare le performance del grandissimo Petr Cech utilizzando metodologie prese da altre discipline sportive, come per esempio la pallamano, e le più recenti innovazioni tecnologiche per migliorare la visione periferica, ma soprattutto in un maniacale studio della postura e degli atteggiamenti dei tiratori avversari, dei quali fa preparare accuratissimi dossier, per scoprirne eventuali tic: un lavoro che condusse il Chelsea allenato allora da Di Matteo alla vittoria ai rigori della Champions contro il Bayern Monaco.

In Olanda le cose sono invece diverse: gli olandesi paiono essere prigionieri delle convinzioni di Cruijff, insindacabile autorità in materia calcistica.

Il grande Johan considerava quella del rigorista una capacità unica, che esula dal calcio giocato, oltretutto influenzabile da pressione e adrenalina: in questa convinzione era spalleggiato dal vecchio compagno di nazionale Wim Van Hanegem (“non ha senso allenarsi sui rigori, sono semplicemente non allenabili”) e da uno dei guru della panchina, Leo Beenhakker, per il quale per tirare un rigore conta principalmente la testa. Perfino Dennis Bergkamp, rigorista eccelso, considerava non riproducibili in allenamento le sensazioni e le condizioni in cui si calcia un rigore in partita.

bergkamp

Dennis Bergkamp: la ragione, l’idea, l’estetica | Un ritratto di Massimiliano Vino, che puoi leggere qui.

Teorie strampalate, sconfinanti nell’idiozia, secondo la più grande cassandra della storia olandese, Gyuri Vergouw, autore di un bestseller intitolato con scarsa fantasia “Il Rigore” e capace di osare l’inosabile: l’attacco frontale all’intoccabile Johan, accusato candidamente di “non capir nulla di rigori”. In effetti il formidabile numero 14 era giocatore che puntava tutto su tecnica e movimento, che compensavano la mancanza di potenza pura.

Cruijff viene considerato un esperto di rigori per quanto accadde il 5 dicembre 1982, quando calciò contro l’Helmond Sport il suo primo e unico rigore con la maglia ajacide: un rigore particolarissimo, perché Cruijff si limitò a toccare il pallone in avanti, per l’accorrente Jesper Olsen che scaraventò la sfera in rete. Detto che Cruijff non fu il primo a usare questo espediente spettacolare (l’inventore fu il belga Rik Coppens, in un match fra Belgio e Islanda valido per la qualificazione ai Mondiali 1958), Vergouw trova una sponda in Rob Rensenbrink, eccellente specialista, che raccontava come Cruijff detestasse a tal punto i rigori da non volerli provare nemmeno in allenamento, e liquidando come “stronzate” le teorie in base alle quali allenarsi fosse inutile: “basta farlo tutti i giorni”.



Postulato che troverebbe conferma nelle teorie di guru fra i preparatori di portieri come Matuschak e Tapalovic, scopritore e allenatore principale di Neuer e di Shad Forsythe, tutti concordi nell’affermare che i tedeschi eccellono in tre campi: tecnica, allenamento e forza mentale. In Germania è grandissima la considerazione per il ruolo del portiere, ed è radicatissima la convinzione che si diventi grandi portieri solo dopo aver vinto una partita ai calci di rigore: esemplare in questo senso la vicenda di Kahn, assurto al rango quasi divino dopo la spettacolare impresa della finale di Champions League 2001.

I tedeschi hanno un approccio quasi scientifico alla specialità, sfornando diversi grandissimi interpreti, specie fra i pali: Hans Jorg Butt salì alla ribalta perché i rigori anche li trasformava (come ben sanno i tifosi della Juve, trafitti in Champions dall’estremo difensore dell’Amburgo), mentre l’istrionico Lehmann divenne temporaneamente eroe della Mannschaft parando i rigori di Ayala e Cambiasso ma rifiutando i consigli dei preparatori, che avevano studiato attentamente tutta la rosa sudamericana e affidandosi ai suoi mind games, fingendo per esempio di leggere un foglietto, su cui ovviamente non c’era scritto nulla, prima delle conclusioni.

E quindi da questa trattazione lunga, e ciononostante incompleta, che non vede narrate le imprese di Jerzy Dudek incubo dei milanisti, Bruce “spaghetti legs” Grobbelaar, Van de Sar ipnotizzatore di Anelka, e tanti altri episodi e personaggi epocali, si può evincere una sola cosa: il fascino dei rigori risiede nella loro indecifrabilità: come fantasmi ora benevoli ora dispettosi, capaci di dispensare felicità o disperazione, vita o morte, eterna dicotomia che muove la storia universale dell’umanità. E forse l’unico ad averne compreso il reale significato è Ben Lyttleton , che nel suo meraviglioso saggio “Undici metri” ci regala questa considerazione:

“con mia immensa gioia ho scoperto che, nonostante la loro intrinseca crudeltà, tutti amano i calci di rigore. Ogni giocatore e ogni tifoso ha una storia da raccontare. Il rigore è calcio nella sua forma più pura: calciatore, portiere e palla. Nient’altro. Una prova di tecnica e nervi. È l’essenza stessa del gioco, l’elemento primario. E anche da un punto di vista così scarno, è tutt’altro che semplice.”


BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

– Ben Lyttleton, UNDICI METRI (Tea Edizioni)

– Gianni Brera, LA LEGGENDA DEI MONDIALI (Book Time)

– Aldo Serena – Franco Vanni, I MIEI COLPI DI TESTA (Baldini + Castoldi)

– Gyuri Vergouw, IL RIGORE (Elsevier, tradotto dall’inglese)

– David Winner – Dennis Bergkamp, VELOCITÀ E QUIETE. MY STORY (Adria Book)

– David Winner, BRILLIANT ORANGE (Minimum Fax)

– Roberto Baggio, UNA PORTA NEL CIELO (Tea Edizioni)

– Bernard Lions, MONDIALI DI CALCIO (Rizzoli)

– Andrea Pirlo, PENSO QUINDI GIOCO (Mondadori)


ALTRE FONTI

ARTICOLI PUBBLICATI DA:

Guerin Sportivo

France Football

FourFourTwo


Traduzioni dall’inglese di articoli pubblicati su riviste specializzate da Ignacio Palacios-Huerta e Geir Jordet


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