Andrea Brondino
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Assorbita la sbornia delle tre sconfitte europee di Roma (Europa League), Fiorentina (Conference League) e Inter (Champions League), anche per evitare la retorica pigra del ‘calcio italiano in crisi’ (con 3 finaliste europee?!?!) che qualcuno certamente resusciterà, una qualche foma di analisi in merito sarebbe desiderabile. Certo, le tre squadre italiane hanno tutte perso di misura, perlopiù giocando ‘bene’ e avendo spesso più occasioni delle avversarie (5 tiri in porta contro 3 per la Roma, 6 contro 4 per l’Inter, 4 pari tra Fiorentina e West Ham).
La Roma perde ai rigori dopo una partita equilibrata, giocando per di più contro un arbitro a dir poco incoerente e dopo aver avuto le occasioni offensive più limpide. La Fiorentina subisce il colpo decisivo all’89esimo, dopo una partita divertente e alla pari. L’Inter perde ‘solo’ 1 a 0 e sono i pochi centimetri, e le diverse parate di Ederson, a impedire che il semidio City non sanguini proprio nel momento in cui si appresta a realizzare il più triste triplete della storia.
Ed è proprio in questi pseudo-meriti delle italiane che andrebbero intuiti i motivi della loro tripla sconfitta.
Se una volta gli inglesi ci rimproveravano di interpretare il calcio non come uno sport, ma come un gioco (dove ogni furberia e colpo proibito hanno cittadinanza, quindi), ora gli amici di Albione si potrebbero ricredere. Per dire: la Roma della volpe Mourinho va ad applaudire e a farsi applaudire (cosa mai vista, a memoria d’uomo) sotto la curva del Siviglia dopo la partita. L’allenatore della Fiorentina Italiano, più moderato, si limita a riconoscere che i suoi ragazzi hanno giocato bene e che a fine partita erano distrutti; poi, maestro d’eufemismi, riconosce che effettivamente “potevamo fare meglio. In una finale l’adrenalina si poteva gestire in maniera differente”.
D’altronde Italiano non poteva spendersi in salamelecchi all’avversario vincitore al pari del collega Mourinho qualche giorno prima: gli sportivissimi tifosi inglesi avevano pur passato il primo tempo a lanciare bicchieri e accendini contro i giocatori della Viola, anche i gentleman hanno dei limiti. Il caso più sorprendente però è forse quello nerazzurro: nonostante la sconfitta di Istanbul, qualche centinaio di tifosi dell’Inter (soprattutto giovanissimi, sembra dalle immagini) festeggiano etsi City non daretur in Piazza Duomo con cori e fuochi d’artificio.
C’è da scommettere che il clima estivo e l’euforia da fine anno scolastico abbiano contribuito al clima fanciullesco e festaiolo di sabato sera, nonostante la verità del campo. Eppure, DAZN e altre testate si affrettano a dar conto degli inaspettati bagordi di piazza Duomo come forma di sublime ringraziamento alla squadra di Inzaghi; una bella dimostrazione di tifo al di là dei risultati. Sarà: ma veramente ora non solo ci si accontenta, ma si celebra persino una sconfitta? Persino se si è l’Inter?
Ora il calcio, si sa, è pur sempre una bagatella, o al massimo la più importante delle cose meno importanti. Sarebbe però un peccato se la retorica della bella sconfitta (parente della retorica della bella morte?) si trasformasse in nuova ideologia, intaccando così una delle poche cose che il calcio giocato e teleguardato insegna e disegna, in maniera simile alla grande letteratura: un’idea di destino con cui fare i conti. Che si giochi bene o male, al novantesimo (o dopo i rigori) di una finale o si perde o si vince; tertium non datur.
Quando la partita finisce, c’è solo un vincitore; la festa degli sconfitti, le analisi dei commentatori, possono suggerirci che gli sconfitti siano i veri vincitori, o i ‘vincitori morali’. Sono queste le forme di un legittimo revisionismo, identico a quello della fan fiction che riscrive, per esempio, il finale dei Miserabili per sottrarre Jean Valjean alla sua fine. Ma nei Miserabili di Victor Hugo Jean Valjean alla fine muore, e morirà per sempre, ad ogni lettura.
Roma, Fiorentina e Inter hanno perso le loro finali del 2023 per sempre.
Insistere su questa tripla e oggettiva, per quanto contingente, inferiorità delle squadre italiane servirebbe anche a rinverdire rabbia e cattiveria (agonistica s’intende) per le prossime stagioni: mascherare le sconfitte da vittorie può tramutarsi presto in veleno narcotizzante. E in fondo è proprio la cattiveria che è mancata, quasi del tutto, alle tre squadre italiane: più pericolose, più incisive, più sorprendenti delle avversarie, ma meno ciniche e decisive. Consapevoli, forse inconsciamente, che al ritorno in patria Roma, Fiorentina e Inter avrebbero trovato (come è successo) chi le avrebbe accolte tra gli applausi e commentatori in giubilo per le straordinarie performance.
In un’Italia senza coppe e senza mondiali da troppo tempo, ci sarebbe da augurarsi che, al prossimo giro di giostra, al rassicurante paraculismo sportivista si opponga l’allegro motto di un Beppe Viola, che schernendo i maestri di galateo del pallone rispondeva ‘Sportivo sarà lei!’. Non sarebbe poi così negativo se si riscoprisse quell’italianissima garra charrúa che il genio poetico dei napoletani chiama cazzimma, virtù non proprio elegantemente sportiva, ma che tanta fortuna ci ha portato grazie a una fame rabbiosa e pantagruelica, a un eccesso di volontà di dominio (sempre agonistico, si intende).
Non è questione né di tattiche, né di gioco, né di anti-gioco: qua ci si limita a un atteggiamento, ai relativi vantaggi, e alle opposte tendenze a fabbricare medaglie per tutti i partecipanti; sintomi questi ultimi di una nuova ideologia fintamente (e contro il loro interesse) supina agli sconfitti. Delle virtù degli sconfitti sono piene le propagande bipartisan di questo Paese; se queste finali di coppa ci suggerissero, in minore, di cambiar musica?