Altri Sport
11 Giugno 2020

The Flu Game oltre Michael Jordan

Le sfumature oscurate dall'onnipotenza sportiva del 23.

Sono esattamente 1.288 i metri che levano Salt Lake City, capitale dello Utah, sul livello del mare. L’altura allevia la torrida canicola estiva, eppure quel giorno i termometri della città segnano già temperature elevate: l’undici giugno 1997 i tifosi degli Utah Jazz si apprestano ad “accogliere” ed ospitare i temutissimi Chicago Bulls per gara 5 delle finali NBA.

 

 

Le rispettive franchigie hanno fatto i compiti a casa, sfruttando a dovere il fattore campo. Alle prime due stoccate di Michael e Scottie, rispondono a gran voce Stockton to Malone. Serie in parità sul 2-2. Il Delta Center si prepara a tessere la propria tela. La preda: una squadra che sino a quel momento si è dimostrata vulnerabile soltanto nei 17 mesi in cui il ragazzo proveniente dall’università di North Carolina ha deciso di prendere una pausa di riflessione, praticando il baseball. Esplicito tributo al compianto papà James.

 

Sì, stiamo parlando proprio di quella partita. Tramandata ai posteri e oggi nota ai più come “Flu Game”: semplicemente una delle più grandi manifestazioni di onnipotenza sportiva mai avvenute su questo pianeta.

 

Michael, la cui parola è un ordine, la sera prima del match viene assalito da un improvviso attacco famelico. Alza la cornetta e in men che non si dica viene soddisfatta la sua brama di pizza. Il risultato è una debilitante intossicazione: viene ritrovato in posizione fetale, ha vomitato tutto. Ci sarebbe anche spazio per alcune teorie cospirazioniste su un presunto avvelenamento. Ad ogni time-out, ha un enorme asciugamano bianco lasciato letteralmente cadere sopra la testa. Insomma, diamo a Tom Hanks in Cast Away l’ombrellino del long drink per mettersi al riparo e il risultato è più o meno il medesimo.

 

 

Questa volta l’intento narrativo non vuole tramutarsi nella più tradizionale e ridondante agiografia in cui vengono santificate le gesta di “San” Michael Jordan, decisivo a prescindere dalle precarie condizioni di salute. L’obiettivo è quello di frugare nei sinuosi meandri di una partita unica, capace di celare un intreccio ricco di dettagli che la rendono ancor più mistica e affascinante, specchio dell’inarrivabile fascino della NBA di quegli anni. Parafrasando Tyler Durden in Fight Club: “in ogni partita c’è una partita, di una partita, di una partita”.

 

Jordan Flu Game
«Non ha nessuna espressione sul volto, è fermo, immobile e guarda, non saprei dirvi dove. Faccio segno verso Flavio (Tranquillo ndr): “Flavio, questo quando mai può giocare?!” Al momento di chiamare i 5 inziali, Jackson però fa un segno a Jordan, che si alza, entra in campo. […]. Non solo gioca, ma segna 37 punti. Inizia guardingo, gattopardesco, poi sale» F. Buffa su Flu Game, Buffa racconta Jordan.

 


Un jet al Delta Center


 

Al Delta Center quella sera si scatena l’inferno mormone: un ossimoro per un popolo i cui capisaldi sono proprio la profonda devozione e l’inossidabile rispetto della fede. Versano parte dei loro averi alle comunità religiose locali, eppure a tutti noi piace pensare, con la necessaria cautela e la doverosa osservanza, che una volta messo piede all’interno di quello spazio altrettanto sacro – spiritualmente pagano – gli istinti prendano il sopravvento e abbiano inevitabilmente la meglio sul lume della ragione. A proposito di lumi, quel giorno, alcuni operatori del Delta Center, hanno deciso curiosamente di installare un fonometro al livello del parquet.

 

Un fonometro.
Un misuratore di decibel.
All’interno di un palazzetto sportivo.
Strano, per usare un eufemismo, esulando dalla naturale correlazione pubblico = rumore o confusione, ma il risultato finale è stato a dir poco sorprendente. L’assordante pubblico riversatosi in massa per sostenere i ragazzi di Sloan produce tanti decibel quanti quelli emanati da un jet in fase d’accensione all’interno di un hangar aeroportuale.

 

 

A riversare ulteriore benzina sulle fiamme degli inferi ci pensa un ragazzo nativo del New Jersey: mai è stato reso noto se nella vita abbia avuto più fanciulle, preso più rimbalzi o testato più gradazioni per cambiare il variopinto taglio di capelli. Poche ore prima della partita il Salt Lake Tribune – principale rotocalco della capitale – lo definisce: “un serpente che deve tornare nella sua buca”.

 

Rodman
Non è difficile capire perché Dennis Rodman non rappresenti alla perfezione l’ideale membro della comunità mormonica. Qui in compagnia a una festa (Photo by Jason Kirk/Online USA).

 

 

Giocatore di pallacanestro, sciupafemmine, attore, wrestler (non so se le prime due siano nell’ordine corretto), Dennis Keith Rodman è stato un elemento che tutto si può considerare fuorché intangibile in quella partita e, in senso più ampio, nella serie. Una delle chiavi emotive di quei 48 minuti, durante i quali ad ogni sostituzione il famoso jet spiccava letteralmente il volo. C’è astio e livore, non corre buon sangue. Per carità, i mormoni hanno i loro validi motivi e, per attitudine caratteriale e culturale, non sono inclini al perdono soprattutto quando viene a mancare quel tanto decantato mutual respect che soggiace alla base del Gioco. Al termine di gara 3, dopo una prestazione poco brillante, si lascia scappare un

It’s difficult to get in sync because of all the fucking Mormons out here.

Lingua lunga, quella che il Verme scioglie dinanzi ai giornalisti, e carattere sanguigno che annichilisce una già di per sé scarsa propensione a limitare i vizi di una vita privata dissoluta e fuori dall’ordinario, antitesi del professionismo e la serietà richiesti a quei livelli. Multa salata inflittagli dal commissioner David Stern, acqua fresca.

 

 

Le fughe (cambiare u con i se volete) “concesse” da Phil Jackson e il suo staff per stemperare il bollente spirito, come quella a Las Vegas appena pochi giorni prima delle gara. Una capatina al Mirage, partendo con un aereo privato direttamente da Salt Lake City insieme all’amico Billy Corgan, leader e frontman degli Smashing Pumpkins. Lasciamo decadere per una volta l’assioma che sancisce il matrimonio fra pallacanestro e hip hop, proviamo a tendere le corde di una Fender Stratocaster. Corde come fili, sui quali vacillano alla costante ricerca di un velleitario equilibrio, fisico e mentale, tutte quelle carismatiche personalità fuori dall’ordinario. Dannatamente confinate ad un’esasperata esistenza rock & roll. Et voilà. Il giorno seguente, dopo una notte che dono alla vostra fervida immaginazione, press conference alle 11.

 

 

Gara 5 è l’ennesimo giro in ottovolante della carriera di Rodman. Reduce da un hangover che avrebbe tagliato le gambe a chiunque, in quel momento di estrema difficoltà è forse l’unico che risponde presente all’assedio dei Jazz. C’è quella smorfia. Quel ghigno d’atterraggio a coronamento di ogni rimbalzo, prima di depositare la palla a spicchi in mani più dolci per la gestione dei possessi offensivi. Emblemi di un’intensità fisica e mentale che prova a rinsavire i compagni, sino a quel momento distratti e assopiti.

 

Rodman rebounds
Non solo matto scatenato, Il Verme si è meritato un posto d’onore nella storia del Gioco, è il più grande rimbalzista di sempre.

 

 


Ritmo Jazz


 

Quella prima frazione e mezzo, lato Chicago Bulls, è degna di freudiane o junghiane analisi che vogliate. Se non fossimo amanti del Gioco e non sapessimo che a un certo punto il pubblico mormone si stringerà il volto fra le mani per scongiurare l’ennesimo incubo firmato MJ, il primo tempo sarebbe presagio di disfatta. Niente three-peat, sigari, “that’s brillant!” che tengano. Una previsione non tanto suggerita da un oracolo, ma dai ritmi e i momenti scanditi dalla partita. In amore, nel gioco e nella vita, le cose si fanno quasi sempre in due: risulterebbe quindi scorretto ridurre la scialba prestazione dei Bulls soltanto ai loro demeriti.

 

 

Il Postino, Karl Malone, recapita qualsiasi cosa transiti sul pitturato, anche perché quel qualsiasi cosa sono spesso e volentieri i cioccolatini di John Stockton. I tori di Chicago, forse per la prima volta durante quei fulgidi anni, vedono nero piuttosto che rosso.

 

Attimi da ricordare come la Babele dei Bulls: singoli individui che parlano lingue diverse, allargano le braccia e si guardano con fare spaesato e affranto, privati momentaneamente del loro febbricitante leader, in un crescendo di incomprensioni e grossolani errori. Tolto qualche sporadico sussulto – sempre di fenomeni parliamo – veramente poca cosa: soggiogati da Malone, dai due ragionieri di banca Stockton – Hornacek, e un supporting cast tanto efficiente quanto inedito.

 

Stockton to Malone
Karl Malone e John Stockton sono un binomio tra i più noti della storia del basket. L’inciso ‘Stockton to Malone’ era tanto ricorrente nelle telecronache quanto letale per gli avversari.

 

 

Il primo, e almeno metà del secondo quarto, risultano vittima dell’assenteismo dei Bulls. Hornacek però, normolineo d’altri tempi, fatica comunque tremendamente a tenere Pip. Due falli in trenta secondi costringono Sloan al cambio immediato. L’head coach dei Jazz decide di far subentrare ad Hornacek un tale che all’anagrafe risponde a Shandon Anderson, mai interpellato per roboanti trade o titoloni in prima pagina.

 

 

Shandon quella notte ha un motivo in più, gioca in maniera diversa, più risoluta e aggressiva. Viene guidato da una forza che lo esalta, quella della scomparsa, del lutto. Quel dolore che – Michael docet – spesso gli atleti riescono a convertire in energica vitalità. Ha perso il padre pochi giorni prima, senza condividere niente con nessuno, in religioso silenzio. In quella famosa gara 5 di cui si ricordano principalmente le gesta del 23 con 40° di temperatura corporea, Shandon farà probabilmente una delle sue migliori apparizioni sul grande palcoscenico delle Finals. Si manterrà negli anni giocatore completo, contraddistinto da una strenua etica lavorativa. La stessa che lo porterà ad un anello con Miami nel 2006 e che non gli fece proferire una singola parola riguardo il toccante accaduto.

 

 

Si percepiscono una serie di elementi inusuali che danzano e si conciliano in armonia, avvolti da un frastuono che sembra stordire gli uomini del maestro Zen e rinvigorire la linfa vitale dei Jazz. Protagonisti inattesi, eroi fragili che tentano di sovvertire le logiche del destino, vestire i panni dei talenti più cristallini per regalarsi una notte sotto la luce di quei riflettori che per mancanza d’abitudine quasi li acceca.

 

Utah Jazz
Gli Utah Jazz sono la squadra più forte di sempre a non aver mai vinto un titolo. Se per Anderson ci sarà redenzione a Miami, Stockton, Hornacek e Malone (le 3 canotte ritirate di quella squadra) annoverano solo Finals perse, per Malone una anche nella L.A. gialloviola.

 

 

C’è Greg Ostertag, sgraziato ma essenzialmente efficace. Una montagna bianca texana, scelto al draft del 1995 a telecamere ormai spente, con fattezze da operoso contadinone, egregio ed indemoniato difensore quella sera al Delta Center.

 

 

C’è Greg (ancora?) Foster, che si tatuò sul braccio “Bowie”, per una lontana somiglianza con il più famoso Sam. Proprio lui, quello del Draft del 1984. Al destino non manca un arguto senso dell’ironia e spesso gioca beffardamente scherzi quasi imperdonabili: Bowie fu scelto alla seconda chiamata, “mica male” penserete, se non fosse che alla terza proprio i Chicago Bulls: “selected, from North Carolina…”. Sono fitte trame esistenziali che si intrecciano, talmente affascinanti da sembrare surreali. Greg quella sera però porta quel nome sul braccio con orgoglio e onore, lottando per la causa senza far tanti prigionieri quando si tratta di rimbalzi offensivi e guerre titaniche sotto canestro.

 

 

C’è Antoine Carr, The Original Big Dog, la cui eleganza sotto canestro stride con un fisico imponente. In avvicinamento dal post basso tira certe tranvate che non si augurano al peggior nemico, poi da quei polpastrelli leggiadri esce una bimba dalle bionde trecce, gli occhi azzurri e le gote rosse. I Mormoni – ad ogni suo canestro – abbaiano per tributarlo: mentre i Jazz ringhiano e portano i Bulls allo stremo delle poche forze rimaste.

 

 

E poi c’è Bryon Russel. Parafrasando I fratelli Jake e Elwood Blues “un uomo in missione per contro di Dio”. Il Dio, della pallacanestro s’intende, che sognava di fermare in un possesso decisivo, in nome di quel one single coverage che gli venne tanto arduamente assegnato nel corso di quelle stagioni. Protagonista indiscusso di un incessante trash talk, ove entrambi giocavano con i propri nomi fingendo di sbagliare le pronunce.

“Ah, si chiama Bryon, pensavo fosse Byron”
“E tu allora come ti chiami? Michèl?”.

A fine secondo quarto schiaccia a tutta velocità sulla sirena per un +2 che sancisce la fine del primo tempo con un rassicurante parziale per i Jazz, fiutando il sapore della vendetta più dolce verso il tracotante Michael.

 

Jordan Russell
One single coverage. Un destino infame per Russell protagonista involontario un anno dopo Flu Game nel The Final Shot più famoso della NBA, seviziato da Jordan nella finta celebre che regalerà il Repeat del Three-Peat.

 

 

Dettagli, che fanno la differenza. Non ci sono solo loro, quelli che cercano di cambiare la rotta di una storia che sembra già scritta. C’è anche il rovescio della medaglia, all’armonia si contrappone il caos, in una distonia fuorviante, a tratti complessa anche solo da immaginare. Come quando Steve Kerr, giocatore apprezzato per la meticolosità e la precisione, colpisce sulla schiena un Toni Kukoc vagante, ignaro del passaggio a lui destinato dall’attuale allenatore dei Golden State Warrios. Uno che di falangi ne sa qualcosa.

 

 

Possono sembrare banalità, ma riviste ad anni di distanza, sembrano il capolinea di una dinastia. Una dinastia che trova conferme di un’apparente crisi nei lampi del compianto Brian Williams, rinato all’anagrafe Bison Dele qualche anno più tardi. Una storia, quella del discendente cherokee, che meriterebbe un capitolo a sé. Williams approda alla corte di Phill Jackson soltanto per le nove partite rimanenti al termine della stagione. Guidato da un’irrefrenabile voglia di rivalsa, dopo un anno relegato ai margini della Lega, fu uno dei più attivi nel cercare di sopperire all’assenza di Michael per gran parte dell’incontro.

 

 

Il significativo contributo da backup per la corsa al sesto titolo dei Bulls resta un emblema tutt’altro che trascurabile, trovando la sua sintesi proprio quella sera al Delta Center. Nel momento in cui i veterani sembravano aver perso quel filo immaginario che li legava l’un l’altro in un magico dialogo di squadra, l’unico a scuotere l’ambiente è proprio quel ragazzotto praticamente estraneo alle sacre dinamiche dello spogliatoio Bulls, a scarsa conoscenza delle problematiche e degli attriti presenti. Il general manager Jerry Krause aveva intenzione di offrirgli un contratto, ma le cose si risolsero brevemente in quelle fugaci e violente schiacciate, senza ritrovare spazio all’interno della franchigia.

 

Bison Dele Flu game
Bison Dele, nato Brian Williams, è l’eroe silenzioso delle Finals ’97. Pochi ne parlano, nemmeno citato in The Last Dance, la sua storia personale è avvolta nel dramma. Non è mai tornato da una battuta di pesca, il suo corpo non è mai stato trovato, la sua è una morte ‘presunta’, ma certa quanto tragica.

 

 


Toro Scatenato


 

Gli ultimi, e decisivi, dodici minuti della partita ricominciano sulla falsa riga dei primi tre. I Jazz hanno mantenuto un discreto vantaggio, sanno che dovranno cercare di gestirlo con acume e parsimonia. Sanno che il rettile con la maglia numero 23 ha lasciato ai suoi sodali l’arduo compito di rimanere in scia, ruminando e consumando la solita gomma senza colpo ferire. Ha tenuto in serbo le scarse energie dopo la stucchevole pizza della sera prima, e i mormoni sembrano speranzosi e desiderosi di scoprire finalmente un vulnerabile comune mortale.

 

 

Gli occhi spenti, la testa che ciondola e la corsa cadenzata, quasi indolente, sembrano già essere lontani ricordi quando a pochi secondi dall’inizio del quarto periodo riceve dal fedele Pip. Palleggio, arresto e tiro. Raddoppiato, a voler essere pignoli. La lingua è fuori e un brivido corre lungo la schiena del Delta Center. He’s back, e fate -5.

 

 

Il proseguo dell’ultimo quarto è un incessante pendolo che oscilla fra la costante ricerca della sferzata decisiva da parte dei mai domi Utah Jazz, e una serie di affreschi inanellati dal numero 23, che ritrova nella propria tavolozza i colori più vividi, spegnendo lentamente l’incendio del Delta Center.

 

 

Se fosse un thriller, il regista della pellicola Flu Game meriterebbe almeno una nomination per l’Oscar. Non lo vincerebbe, verosimilmente, perché il finale risulta sempliciotto e scontato. Ma il copione, nelle sue scene curate nei dettagli più minuziosi, avrebbe ricevuto grandi recensioni dalla critica. Sicuramente, per mantenere la suspense, aveva deciso che le due squadre sarebbero rimaste appaiate, punto a punto, fino a pochi palpitanti attimi dalla sirena finale.

 

flu game jazz
Lo sguardo perso di Stockton, la delusione di Malone e Russell. Non è ancora finita, ma già lo sanno, non ci sarà il lieto fine nemmeno in Flu Game: il 23 è tornato. (Brian Bahr /Allsport)

 

 

Mancano una manciata di minuti. Stockton tira da tre cortissimo, peraltro da una costruzione che avrebbe meritato un’altra sorte in virtù di un giro palla magistrale, considerando la stanchezza e la conseguente poca lucidità del momento. Le stesse che si fanno sentire pochi attimi più tardi, quando sul secondo possesso consecutivo Malone, in evidente debito di ossigeno, spara un long two forse più corto del tentativo precedente di Stockton. Ostertag stavolta non controlla, Pippen recupera e ormai manca un solo minuto. Sono i 60 secondi in cui l’onnipotenza squarcia il soffitto del Delta Center, come un fascio di luce che irradia il parquet, seguendo i passi meticolosamente contati di un Michael Jordan esausto, le cui forze sono state provate da un quarto periodo leggendario, ma che in caso di disfatta cadrebbe ingiustamente preda di manzoniana memoria.

 

 

Eccolo, il turning point. Colui che tutto fa e tutto disfa, colui che si sollazza giocando con il destino degli altri. Michael va in lunetta sul punteggio di 85-84 in favore dei padroni di casa. Segna il primo libero, sbaglia il secondo e si prende anche il rimbalzo. Muove il gioco in direzione Pippen, che riceve e attende quel tanto che basta per tendere il fatal inganno a Russel e fargli credere che proverà un fadeaway dal post. Bryon ci casca, raddoppio suicida su Pippen che legge il basket come pochi eletti al Gioco e scarica di nuovo su Michael.

 

 

Che altro aggiungere? I piedi si sollevano da terra, Stockton si prodiga in un vano recupero, e un istante dopo il Delta Center viene pervaso da un oceanico e frastornante silenzio, seguito da quel celebre scatto fotografico che ritrae Pippen mentre abbraccia Jordan, dirigendosi verso la panchina.

 

flu game
MJ si abbandona esausto, quasi privo di sensi, tra le braccia di Scottie, in un’istantanea che diventerà leggendaria: questo è Flu Game.

 

 

Saranno proprio i nervi saldi del lapidario e imperturbabile John Stockton a siglare l’ultimo inutile punto di una partita per cui esistono pochi aggettivi adatti a descriverne il fascino e la poetica sportiva. Il tiro libero a due decimi dal termine, dopo aver sbagliato il primo, è accompagnato dal più classico dei suoi impassibili sguardi.

 

 

Stockton mi ha sempre attratto magneticamente come figura. Un virtuoso e compìto giocatore, a cui la natura decise di elargire una sopraffina e metafisica intelligenza cestistica, a scapito del physique du rôle. Durante ogni partita giocata contro i Bulls emanava quasi un’aura di chiaroveggenza. I suoi occhi non lasciavano trasparire emozione alcuna, ma sembravano avvertire un lacerante senso di resa, come se ogni volta avessero già potuto scorgere l’amaro epilogo deciso da quello lì, il despota burattinaio in maglia numero 23.

 

 

Cala il sipario, le luci si spengono e i mormoni rincasano rassegnati dinanzi a quello che forse diventerà il manifesto ideologico della supremazia fisica e mentale di Michael Jordan sul gioco della pallacanestro. Ignari, all’epoca, di aver assistito ad una partita che verrà tramandata di generazione in generazione, attraverso leggende fiabesche in grado di ammaliare qualsiasi ascoltatore, anche il meno appassionato di questo meraviglioso sport.

 

 

Gruppo MAGOG

Matteo Viotto

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