Ritratti
08 Giugno 2018

Franco Bitossi

Cuore Matto: storia di un vincente su ogni terreno, dalla sua Toscana alla beffa di Gap. Una carriera unica nel segno dell'imprevedibile e dell'assurdo.

Aumento della frequenza delle pulsazioni cardiache al di sopra dei limiti normali per un cuore a riposo, ovvero 100 battiti al minuto. L’enciclopedia medica incasella in questa definizione la tachicardia: un cuore impazzito che in stati particolari registra un’anomalia di pulsazioni. Le regole odierne renderebbero difficile, pressoché impossibile, praticare attività sportiva ad alti livelli in maniera costante; la fatica ripetuta giornalmente non sarebbe salutare per il muscolo cardiaco. Eppure un “cuore matto” è esistito, proprio sulle strade dello sport di fatica per eccellenza: il ciclismo. Franco Bitossi, nativo di Carmignano, classe 1940. Uno degli atleti più vincenti della storia del ciclismo che proprio grazie a una regola che non esisteva è ancora oggi impresso nelle pagine più belle del racconto sportivo. Così per una volta proprio una regola mancante è la benedizione delle emozioni. Le Coeur Fou, come lo appellavano in Francia, in diciassette anni di carriera ha vinto ben 171 gare, fra cui ventuno tappe al Giro d’Italia e quattro al Tour De France, due giri di Lombardia, maglie prestigiose, Springoil, Filotex, Sammontana, coppe e medaglie e un grande rimpianto: il mondiale di Gap 1972.

 

Eccolo qui, fermo a bordo strada ad aspettare che la tachicardia si calmasse.


Tutto partendo dalle strade di casa: tra i paesi di Camaioni e Montelupo, sognando Coppi e Bartali ma andando a lavorare con una bicicletta usata regalata dal padre per andare a lavorare e guadagnare il denaro necessario per vivere. I primi allenamenti li affrontava sulle alture del comune di Montelupo Fiorentino, con il sogno di una carriera ciclistica allenandosi il sabato e la domenica per la vittoria: la prima proprio vicino a casa, a Scandicci, con una bici finalmente nuova, l’investimento per provare a “diventare“. Nemo profeta in patria si dice ma questa volta la profezia si avvera proprio lì, a Firenze, è Alfredo Martini che nota e segnala quel ragazzo: da lì Bitossi sarà al servizio prima di Fiorenzo Magni e poi di Gastone Nencini, e proprio come gregario coglierà la sua prima vittoria tra i professionisti a San Pellegrino Terme, al Giro del 1964. Franco Bitossi capisce in quelle circostanze che la tachicardia che si manifesta alle gare sin da quando è dilettante può non essere un ostacolo alla carriera da ciclista, che con forza e intelligenza tattica può entrare nell’olimpo di quelli che nel ciclismo “ce l’hanno fatta”. Alle gare spesso deve fermarsi, accostare a bordo strada e rifiatare, ma col tempo l’intuizione lo aiuta: le pulsazioni elevate hanno una componente psicologica, nelle gare a tappe con il trascorrere dei giorni e delle frazioni il cuore regolarizza il suo ritmo e Bitossi vince. Un corridore da corse di un giorno che si scopre vincente nelle corse a tappe ma ancora prima un uomo che non avrebbe mai potuto correre e che invece corre e vince che è un piacere stare a guardare. L’uomo dell’assurdo che diventa realtà.

 

Franco Bitossi oggi, al microfono.

 

Cuneo-Pinerolo: la tappa del Giro d’Italia 1964 che è forse la metafora della vita e della carriera di Franco Bitossi. La tappa dei colpi di scena, quella che dopo Coppi incorona Bitossi. Ben cinque ascese da affrontare, altrettanti diversi destini: dapprima in crisi nera sulla Maddalena, poi in lenta ripresa sul Vars, acrobata all’attacco sull’Izoard, abile a gestire il vantaggio sul Monginevro, in caduta libera sul Sestriere, sino a temere la disfatta per poi librare le braccia al cielo dopo la rinascita. Il carmignanese vince col suo stile: niente di lineare, un groviglio inestricabile di sentimenti e azioni a confronto del quale il “pasticciaccio di Via Merulana” di Gadda non sarebbe poi una matassa così difficile da sciogliere. La tappa di Bitossi a Bitossi, si potrebbe dire.
Tecnicamente Franco Bitossi era uno scalatore, le montagne le domava, ma uno scalatore che riusciva a vincere anche in volata: al Giro d’Italia per ben tre anni consecutivi vinse la maglia verde di miglior scalatore e solo pochi anni dopo sugli Champs Elysèes si presentò con un’altra maglia verde, quella della classifica a punti, classicamente preda dei velocisti. L’intelligenza e l’esperienza il fil rouge della trasformazione: con il tempo arriva la sicurezza in volata dopo i primi anni, in cui Bitossi cercava di sorprendere gli avversari sfuggendo alla morsa del gruppo negli ultimi metri di gara in perfetto stile finisseur. Leggendarie le sue sparate. Non sopportava invece le cronometro: proprio in una prova contro il tempo al Tour De France 1968 perse diversi minuti, quelli che gli costarono il primo posto nella generale finale, e concluse ottavo a Parigi.

 

Franco Bitossi, Felice Gimondi, Italo Zilioli.

 

Il 6 agosto 1972 a Gap la data indimenticabile, quelle giornate da incubi notturni. Sono 272 i chilometri della prova mondiale in linea maschile: Bitossi è nel gruppo di testa, ai meno due dal traguardo parte da solo, dietro Merckx e Zoetemelk tardano a inseguirlo, l’iride è lì a cinquecento metri. Sarebbe stata la vittoria perfetta: l’ulteriore consacrazione del ciclista emotivo, del corridore fuori dal comune, inusuale e per questo eccezionale. L’altalena della vita e della carriera di Bitossi però non concede sconti: il suo cuore non lo frena, questa volta a tradirlo è un dettaglio tecnico; il rapporto sbagliato innestato proprio in quei metri finali in leggera salita, quel passaggio dal 53×16 al 53×14. Marino Basso, il vicentino di Caldogno, lo sorpassa negli ultimi metri quando ormai è piantato nel mezzo della strada e per pochi centimetri riesce a salvare il secondo posto dall’arrivo del francese Guimard. La beffa della vita.

“Sei un cane randagio… Proprio tu dovevi venirmi a riprendere? Non potevi aspettare?”

Non proprio felicissimo, concede a Basso di tenergli alta la mano, un modo un po’ così di condividere la vittoria.

 

Questo lo sfogo di Bitossi nel faccia a faccia con Basso: semplicemente umano, troppo umano, come umano l’abbraccio dei due gentiluomini mesi dopo a “La domenica Sportiva“. L’ultimo paradosso dal sapore agrodolce a chiudere il sipario: un vincente dalla nascita ricordato per una sconfitta, un uomo bloccato sull’uscio del paradiso, come dissero le cronache dell’epoca.

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