Oltre mezzo secolo di leadership e grandissimi successi.
C’è qualcosa che accomuna Giulio Cesare, Franz Beckenbauer e Ivan il Terribile. Cesare, Kaiser, (C)zar: sono la stessa parola, in lingue diverse. Al di là della radice semantica, i tre hanno un altro punto in comune: in epoche diverse e ciascuno nel proprio ambito specifico, hanno conquistato tutto quel che c’era da conquistare. Con la differenza che almeno Franz Beckenbauer non ha mai ucciso nessuno, se non su un piano puramente sportivo. Oltre mezzo secolo di leadership e grandissimi successi in campo, in panchina e perfino dietro una scrivania. Il Kaiser non è come gli altri.
Über Alles
Franz Anton Beckenbauer nasce a Monaco l’11 settembre 1945. Bavarese fino al midollo. Dei suoi conterranei ha in pieno il senso pratico, la capacità di arrivare al punto senza perdere mai di vista l’obiettivo. Gentile ma inflessibile. Dei bavaresi ha anche l’etica del lavoro. Non che gli altri tedeschi non ce l’abbiano, ci mancherebbe, ma sotto questo profilo i bavaresi spiccano. Non a caso tendono a sentirsi über alles anche rispetto agli altri connazionali. E, diciamolo piano, forse non hanno neppure tutti i torti se si vanno a vedere i risultati.
La leadership di Beckenbauer è invece un prodotto tipico della casa. È nata con lui e non ha più avuto eguali, finora. Così come la classe in campo e la capacità di determinare la partita. Quelle sono qualità che non si insegnano e che difficilmente si imparano. E di che pasta sia fatto quel ragazzo che comanda la difesa anche solo con lo sguardo, al Bayern Monaco lo capiscono molto presto. Del resto, esordire nella Bundesliga a 19 anni al centro della difesa di una squadra come quella non è compito che si affida al primo che passa. Così come non si può soprannominare Kaiser un giocatore qualsiasi.
Consideriamo per un attimo il libero come la seconda vertebra di una colonna (portiere – libero – regista di centrocampo – attaccante) che deve essere sempre dritta ed efficiente. Ebbene, da quella vertebra si snoda il movimento di un corpo (Bayern Monaco e Nazionale tedesca) che per anni funzionerà a meraviglia. È Beckenbauer a comandare i movimenti della difesa e a coprire le eventuali falle del pacchetto arretrato con i suoi inserimenti. Sia il Bayern sia la Nazionale dell’allora Germania Ovest sono due squadre molto solide, concrete. Che badano al risultato più che all’estetica e che non fanno dell’innovazione tattica una necessità imprescindibile. Vincono quando hanno giocatori forti, umili, e un gruppo compatto. Eppure, senza nulla togliere all’assoluta praticità, Franz Beckenbauer opera nel suo ruolo una rivoluzione di bellezza, peculiarità tipica di quei giocatori che nascono poche volte in uno stesso secolo.
Ma quello che del Kaiser stupisce è la sostanziale assenza di punti deboli, tecnici e caratteriali. In un ruolo nevralgico come il suo, alcuni hanno tecnica ma scarsa visione di gioco, altri vivono di rendita sul proprio talento ma la personalità fa difetto. Altri ancora hanno personalità, ma con i piedi non ci siamo. Lui, Franz Beckenbauer, ha tutto. E non è uno di quelli che dispensano buoni consigli agli altri ma che poi nei momenti cruciali spariscono. Ha stile, capisce i momenti della partita fin nelle più riposte pieghe psicologiche, sempre lucido. Sa mantenere freddezza quando la situazione lo richiede ma non si risparmia quando la battaglia non prevede il pareggio. Diventa non soltanto il punto di riferimento, ma anche e soprattutto l’esempio per gli altri dieci accanto a lui. Poco tempo ed è libero titolare della nazionale tedesca. Nessuno eccepisce, impossibile contestare la scelta.
Il Bayern punta dunque su un ragazzo che nei comportamenti, in campo e fuori, sembra il padre dei suoi coetanei. Ha appena 20 anni e il CT della Nazionale tedesca Helmut Schön gli affida le chiavi della difesa. In tedesco Schön significa bello. Il CT tedesco non sarà bello, ma intelligente senz’altro. E soprattutto ha l’occhio lungo, sa distinguere bene leader e comprimari. Il giovane Franz sa ricambiare alla perfezione la fiducia. Ai mondiali del 1966 la Germania Ovest sfiora l’impresa e nella finalissima si piega ai padroni di casa inglesi solo nei tempi supplementari (e grazie a un gol dell’attaccante Hurst che ancor oggi fa molto discutere).
Da quel momento è nata una stella e Beckenbauer brilla non soltanto in campo.
Quella personalità, quella sicurezza che in campo tutti possono ammirare fa di lui una star anche sul piano mediatico. Tutti lo cercano, tutti lo vogliono. Il cinema, la televisione, i colossi pubblicitari. In tempi non sospetti, l’uomo diventa un marchio. Ma l’iperesposizione dell’immagine non cambia il modo di vivere e di giocare di un tedesco che sembra nato a Sparta. Quattro anni dopo il mondiale inglese, la Germania ci riprova in Messico e anche stavolta ha le carte in regola. La squadra è l’immagine riflessa di Franz Beckenbauer, il primo a scendere in campo, l’ultimo a morire. E il più delle volte, a morire (sportivamente parlando, s’intende) sono gli altri.
La sera del 17 giugno 1970, quella di Italia-Germania 4-3, il capitano tedesco si infortuna e non è un problema da poco. Subisce la lussazione di una spalla e in quelle condizioni non potrebbe giocare. Decide di farsi applicare una fasciatura rigida e resta in campo, con un braccio che non può staccarsi dal resto del corpo. Lui è il leader e la squadra in quel momento ha bisogno di lui. Contro gli italiani non molla un centimetro. Al termine della battaglia, gli Azzurri sono ebbri di gioia ma quell’esempio di sacrificio ha conquistato anche loro. Molti vanno dal Kaiser e gli stringono la mano, in segno di rispetto e di ammirazione. È stato lui e non Seeler, o Gerd Muller (che pure ha segnato due gol all’Italia) l’ultimo ad arrendersi.
Gli anni d’oro del grande Bayern
In attesa del Mondiale 1974, che si svolge proprio nella terra di Beckenbauer & Co, l’epopea del Bayern ha appena preso corpo. La squadra ha vinto per quattro volte la Bundesliga (1969, 1972, 1973, 1974), vincerà per tre anni di fila (dal 1974 al 1976) la Coppa dei Campioni, mentre la Nazionale fa capire a tutti chi sia la formazione da battere, e non solo perché gioca in casa. In quegli anni è cresciuto il cosiddetto “calcio totale” della scuola olandese. Una rivoluzione tattica che accorcerà di molti metri le distanze fra i reparti, che farà della corsa e del possesso palla i punti qualificanti. Malgrado ciò, i tedeschi continuano a predicare la loro filosofia: corsa, piedi buoni, tenacia infinita.
Il 7 luglio del 1974, proprio all’Olympiastadion di Monaco, le due superpotenze continentali si trovano faccia a faccia per stabilire chi farà sua la Coppa del Mondo. È una domenica pomeriggio e il mondo è incollato davanti a uno schermo. L’inizio è incredibile: dà il calcio d’inizio l’Olanda e i giocatori in arancione cominciano a passarsi la palla tra loro, quasi alla ricerca di un varco in area tedesca. Senza affanno, con pazienza e lucidità. 40 secondi di passaggi corti, poi il varco si crea. Neeskens lancia in profondità Cruijff che prende velocità palla al piede. L’azione è talmente profonda e travolgente che all’altezza dei 10 metri perfino un terzino dell’esperienza di Vogts è costretto al fallo in area. Rigore netto, Neeskens lo trasforma senza tentennamenti. È passato un minuto scarso e gli olandesi sono in vantaggio senza che i tedeschi abbiano ancora toccato palla.
Ci vuole forza per non impazzire, servono carisma e grande lucidità interiore per farsi forza e per darne agli altri. È soprattutto grazie a Kaiser Franz se in quei momenti la Germania non va a fondo e riprende pian piano a fare gioco. In un tempo il risultato è ribaltato. Prima Breitner su rigore, poi Gerd Müller allo scadere, portano i padroni di casa in vantaggio. Nella ripresa il risultato non cambia, l’Olanda è costretta ad arrendersi. La squadra di Beckenbauer è campione del mondo. Gli allori internazionali del Bayern e della Nazionale, uniti a due Palloni d’oro (1972 e 1976) come riconoscimenti individuali, impreziosiscono ancor di più un palmarès, quello di Beckenbauer, imbarazzante per chi non lo possiede.
Dopo avere smesso con il calcio nel 1984, c’è anche un Franz Beckenbauer allenatore. La leadership è quella di sempre e i risultati seguono. Se sulla panchina del Bayern (e dove, sennò) vince uno scudetto e una Coppa UEFA negli anni ‘90, ma la soddisfazione più grande è avere vinto i Mondiali anche come CT della propria Nazionale nel 1990. Avviene a Roma una domenica di luglio contro l’Argentina di Maradona. Esattamente come Giulio Cesare, Franz Beckenbauer avrà potuto dire “Veni vidi vici”, proprio nella Città Eterna. Da vero Kaiser. Con buona pace del terzo incomodo, Ivan il Terribile. Lo zar di Russia, che invece è rimasto a Mosca, la cosiddetta Terza Roma.