Tre anni fa ci lasciava un signore del pallone, presidente e primo tifoso della Roma.
Gaetano Anzalone ha scelto una mattina di metà maggio per andarsene, lontano da quei riflettori che forse non lo avevano mai illuminato a sufficienza. Destino cinico, per chi c’era stato prima. Prima di Franco Sensi, prima di Dino Viola. Prima di due scudetti, cinque Coppa Italia e due finali europee sfumate per inesperienza e sfortuna davanti alla propria gente. Agli albori di una Roma che avrebbe recitato un ruolo da protagonista negli anni ’80, però, c’era quel signore che veniva da Roiate, provincia capitolina che stagnava di fame e voglia di cambiare.
Ce l’aveva fatta Gaetano Anzalone, prima come uomo d’affari e poi da uomo di sport. Il fiuto lo aveva portato a investire nel mattone, settore che nel secondo dopo guerra imperversava e che stava cambiando i connotati di una Capitale destinata ad abbandonarsi a colate di cemento – alla faccia di quei vecchi e larghi spazi verdi, barriera incrollabile tra centro e una periferia sconfinata.
Democristiano tra i democristiani, Anzalone costruì la propria fortuna sotto l’egida di quello scudo crociato che avvolgeva e proteggeva Roma, la quale vi si sarebbe schermata fino alla svolta Argan del ’76. Il fiuto degli affari nella vita, l’amore per il calcio come passione da portare avanti, fuso con le abilità di chi non sta a guardare ma vuole sporcarsi le mani. Anzalone iniziò con l’Ostiense, poi la Roma, fede incrollabile, a metà di quegli anni ’60 dove a comandare c’era un altro compagno di partito e andreottiano di ferro, Franco Evangelisti.
In lacrime mentre annuncia la cessione della sua amata Roma
Tifoso prima che dirigente, capì che le cose sarebbero dovute cambiare e in fretta negli ultimi scampoli dell’era Alvaro Marchini, il Papa Rosso, che con Anzalone non condivideva neanche la scheda elettorale. Con l’ex partigiano a guidare la società giallorossa, di successi ne erano arrivati pochi e di contrasti fin troppi. Casse vuote, cessioni dolorose. La partenza di tre giovani dalle belle speranze come Capello, Landini e Spinosi fece il resto. A far divampare le fiamme, la destinazione: Torino, sponda bianconera.
Troppo, anche per Anzalone, che nel consiglio di amministrazione fece valere le proprie ragioni un anno più tardi. Marchini voleva cacciare Helenio Herrera e riportare a Roma Fulvio Bernardini; Anzalone non gradiva e spingeva per tenersi stretto il Mago. Ebbe ragione lui, che in un colpo solo ottenne tecnico e carica di presidente, ufficializzata nel ’71 e innaffiata subito dallo champagne che Ginulfi e compagni avrebbero stappato nel giugno successivo, brindando al 3-1 sul Blackpool e alla conquista del Torneo Angloitaliano.
Garbo e stile a mo’ di pochette, per la riva giallorossa del Tevere Anzalone divenne il presidente gentiluomo. Avrebbero voluto si tramutasse anche in altro, ma nel decennio bollente della lotta di classe i soldi continuavano a essere troppo pochi rispetto alle ambizioni.
A fare il resto tante intuizioni buone su carta e stroncate nella pratica, con nomi di spessore che rivelarono poca sostanza in campo. Il matrimonio col Mago Herrera durò appena una stagione e mezza, ancora meno la fugace relazione con quel Manlio Scopigno che, una volta sbarcato al Tre Fontane, fece credere a tutti si potesse replicare il miracolo Cagliari: il problema, forse, è che non c’erano né un Gigi Riva né un Nenè al quale appigliarsi.
Nel mezzo quello sgarbo maturato nel 1974, e uno scudetto andato a finire sulle maglie di una Lazio che, sotto l’egida del Sor Umberto Lenzini, cresceva fino a sfiorare un titolo e poi a conquistarlo con quel nemico giurato romanista di Giorgio Chinaglia. Allo smacco biancoceleste Anzalone rispose con Nils Liedholm, non ancora Barone e non più calciatore, ma già tecnico lungimirante e predestinato a diventare signore anche in panchina. Fu forse il successo più grande di un presidente che, chissà quanto inconsapevolmente, stava gettando le basi per quel che un decennio più tardi sarebbe accaduto.
Tornò ben poco indietro a Gaetano Anzalone, che alla sua Roma diede decisamente più di quando raccolto.
Sul prato dell’Olimpico, però, il presidente gentiluomo seminò Bruno Conti e Francesco Rocca, tirati fuori dal cilindro della Primavera e di quel settore giovanile del quale lo stesso Anzalone si era occupato prima dell’ascesa a massimo dirigente. Ci mise su il ritorno di Picchio De Sisti dopo gli anni spesi a fare le fortune della Fiorentina del PetissoPesaola, il colpo Pierino Prati, giudicato bollito da Buticchi a Milano e rivitalizzato dalla cura Capitale, l’idea di mandare in prestito e poi riprendersi immediatamente Agostino Di Bartolomei, e due nomi che di lì a poco avrebbero rappresentato il modello di portiere e attaccante a cui paragonare ogni altro 1 o 9 transitati per Roma: Franco Tancredi e Roberto Pruzzo.
Proprio l’acquisto del Bomber di Crocefieschi, strappato a mezza Serie A e portato sulle sponde del Tevere direttamente dalla Gradinata Nord di Genova, spinse Anzalone a rinviare la cessione della Roma di una stagione. Giusto il tempo di godersi i frutti di tanto sudore e dei quattrini versati nelle casse del Grifone, salvo scontrarsi con una realtà che vide i giallorossi salvarsi alla penultima giornata, all’Olimpico, proprio grazie a un gol di quel suo ultimo pupillo burbero e baffuto.
3 luglio 1978. Luciano Moggi, allora DS della Roma, presenta i neo-acquisti Luciano Spinosi (a sinistra) e Bomber Pruzzo.
Da gentiluomo a gentiluomo, l’estate del ’79 vide il passaggio di consegne e la sua Roma affidata all’Ingegner Dino Viola. Più che un atto d’amore,un gesto di responsabilità. Troppo grande l’amore per la Roma, grande al punto di portarlo a fare un passo indietro e a cedere quel bene così caro, che ora però necessitava di forze fresche e soprattutto di capitali ben maggiori. Viola allora raccolse, modificò e migliorò la struttura di una squadra che da lì in poi avrebbe iniziato a competere e vincere, ma che poteva contare sulle solide basi gettate da Gaetano Anzalone.
Si face da parte, il presidente galantuomo, godendo da tifoso ai successi di quelle maglie sulle quali proprio lui aveva pensato di affiggere il lupetto, la cui creazione venne affidata alla genialità di Piero Gratton. Quindi, il 18 maggio del 2018, se ne è andato a 88 anni. Senza clamori, con discrezione, così come aveva fatto quarant’anni prima separandosi solo formalmente dalla sua Roma. Lasciandola finalmente ai palcoscenici che meritava, perché la Roma era più importante di tutto. Anche di lui.