Una nazionale che rappresenta lo spirito di un popolo.
Solitamente, tra le vie del centro di Bordeaux, si sorseggiano pregiate varietà di vino rosso. Dai moli sulla Garonna alle viuzze del centro la vita è frizzante, ma composta. Eppure, il secondo weekend del giugno 2016, una fiumana di nerboruti uomini celtici aveva imposto le proprie regole in Nuova Aquitania. Maglie rosse di rappresentanza, boccali di birra in grandi quantità, stendardi con enormi draghi su campi bianco-verdi. Un solo coro, coinvolgente e abbacinante:
«Don’t take me home,
Please don’t take home,
I don’t wanna go to work.
I wanna stay here,
Drinkin’ all your beer,
Please don’t,
Please don’t take me home!»
In quel giugno 2016, la nazionale gallese era sbarcata non solo in Francia per la quindicesima edizione della massima competizione continentale. Era tornata finalmente nel grande calcio. Un’astinenza lunga quasi sessant’anni, quando in Svezia la selezione gallese dell’attaccante juventino John Charles arrivò fino ai quarti di finale. Il cammino si interruppe a favore della Selecāo che avrebbe poi vinto quell’edizione, in una partita consegnata agli annali. Il gol decisivo era stato segnato da un ragazzino con il numero 10: il primo in nazionale per Edson Arantes do Nascimento, meglio noto come Pelé.
Per la verità stupisce poco, perché come molte altre cose nella sua storia, anche il calcio gallese è stato negli anni assorbito dalla piramide calcistica inglese. Le squadre più importanti, tra cui lo Swansea e il Cardiff abituali ospiti delle massime leghe F.A., sebbene situate fieramente tra i narcisi non hanno mai accettato l’invito di far parte della lega professionistica gallese, nonostante le ghiotte possibilità di accesso alle maggiori competizioni europee. Anzi, a dire il vero, il movimento del paese non è mai decollato, e fino al 1992 era organizzato in modo totalmente dilettantistico. Anche ora, la rosa a disposizione del C.T. Robert Page non ha nessun rappresentante della lega professionistica nazionale.
In questi anni di buio solo qualche sporadica alba ha illuminato le verdi colline gallesi. Mark Hughes, Ian Rush, Ryan Giggs, Craig Bellamy sono giocatori che in Premier League hanno lasciato un segno indelebile, alimentando la fiammella del dragone, ma incapaci di diventare centro tecnico di un movimento ambizioso. Ci è voluta la visione lungimirante di un altro grande e mai abbastanza rimpianto figlio di Cymru per ridestare, ma sarebbe meglio dire creare, un movimento consistente. Gary Speed, stella gallese del Leeds campione di Inghilterra con Eric Cantona e del Newcastle di Alan Shearer, dal 2010 inaugurò una rivoluzione manageriale determinante per i Dragoni.
Iniziò un lungo processo di scouting per l’individuazione dei maggiori talenti gallesi sparpagliati nel Regno Unito, seguendoli con dedizione quasi paternalistica. Favorì la naturalizzazione di ragazzi discendenti da famiglie gallesi accendendo in loro l’ardore di una terra orgogliosa ma spesso sottomessa. Pretese che tutte le selezioni nazionali giocassero allo stesso modo della squadra maggiore, e quella che sembrava l’utopia di un sognatore nel giro di un anno divenne una realtà consolidata.
Quando nella sua abitazione Gary Speed si tolse la vita, lasciando un paese letteralmente sotto shock, oltre alla tragedia umana molti ormai avevano interpretato il segnale come l’ennesima avvisaglia di tempesta sulla nazionale dei Dragoni. Invece, l’eredità tecnica raccolta da Gary Coleman ha portato il Galles al miracolo di Euro 2016. Una formazione rocciosa, solida nei suoi interpreti difensivi e affidata alle folate offensive della sua stella incontrastata: Gareth Bale. Un calcio di trincea, così caro alla fanteria leggera gallese rinomata per la sua efficacia, e allo sport che scorre nelle vene della sua gente.
Perché è inutile negare che la vera vocazione del popolo gallese sia la dedizione a una palla ovale che ogni primavera schiude le porte, con il Six Nations, allo scontro fratricida, il preferito dai gallesi. Uno sport di coesione e ripartenza, molto simile alla squadra di calcio che potremmo vedere a Euro 2020. L’interregno di Ryan Giggs, il commissario tecnico che stava guidando la squadra a un processo evolutivo, a tratti anche spregiudicato con il suo 4-2-3-1, è durato poco. L’ex stella del Man Utd continua ad avere un pessimo rapporto con le relazioni sentimentali e le accuse di violenza domestica, attribuitegli lo scorso anno, hanno prima portato alla sospensione, poi al definitivo allontanamento del commissario tecnico gallese.
Le parole del fratello Rhodri, con la moglie del quale Ryan ebbe una delle tante relazioni extra-coniugali, sono abbastanza chiare: «Mio fratello si è rovinato per colpa del sesso». Fortunatamente per i Dragoni, le ottime prestazioni della squadra selezionata da Giggs si sono confermate anche con la guida Page, che però ha rimescolato le carte riportando la squadra gallese sul terreno della guerra. Il 5-2-3 con cui la squadra si era presentata agli europei era un modulo solido, che aveva nella fisicità dei 3 centrali la cassaforte dei propri punti. Tra Connor Roberts e Neco Williams i quinti sembravano offrire il corretto bilanciamento richiesto dal ruolo. In particolare il secondo, sulla corsia sinistra, con i suoi vent’anni ha il compito di dare la scarica elettrica nelle transizioni e affermare il suo potenziale futuro nel Liverpool di Klopp, dove in questa stagione è stato il back-up di Robertson.
Ma i due centrocampisti così potevano soffrire l’inferiorità numerica in molte partite, e la sfida più grande di Page rimaneva quella di capire dove posizionare nello scacchiere il talento di Ramsey. Le scarse doti di corsa e recupero lo posizionano indietro nelle scelte per la mediana, ma il Galles ha bisogno della sua qualità per lanciare le transizioni. Tutte affidate naturalmente allo strapotere fisico di Bale che, reduce da stagioni opache, spera di confermare che il rosso lo risveglia, più come un toro che come un dragone. Per questo nell’ultimo partita il Galles è tornato a un 4-2-3-1 abbastanza bloccato che ha rimesso Ramsey alle spalle della punta, decisamente più libero di creare gioco offensivo (e subito è arrivato il gol del centrocampista bianconero).
Al di là dei tatticismi, al Galles servirà l’enorme cuore celtico dei suoi giocatori e della sua gente. E come sempre ci sarà. Perché in Galles lo sport è volano di tradizioni, di un nazionalismo affogato dallo status quo britannico. Da quando Edoardo I d’Inghilterra sconfisse l’ultimo re gallese Llywelyn II, un lungo processo di annessione ha tentato di frustrare i caratteri identitari del popolo celtico. Il drago gallese non è nemmeno rappresentato nel vessillo unionista e al patrono San Davide, differentemente da quanto accade per i Santi Giorgio e Andrea, non è dedicata una festività nazionale indetta ufficialmente. Il 20% dei gallesi parla ancora l’idioma dei padri, un dialetto celtico, il Cymraeg, che conserva una tradizione centenaria e si affianca sempre più spesso all’istituzionale inglese, ma che solo nel 2011 è stato elevato a lingua ufficiale da Buckingham Palace.
Lo sradicamento dalla terra a favore dello sfruttamento minerario voluto da Londra ha completamente stravolto una società, che è diventata da agricola a industriale con lo stesso incessante ritmo dettato dell’estrazione del carbone, copioso in questa terra. Energia britannica e virus mortale per i polmoni gallesi, per decenni legate a doppio filo a miniere e labour party, scelta inevitabile per la stragrande maggioranza degli operai. Un immobilismo che proprio nello sport ha trovato una spinta decisiva: prima come affermazione identitaria, poi come suggestione alternativa al potere centrale.
Negli ultimi vent’anni il Plaid Cymru, partito indipendentista gallese, ha quasi quadruplicato i suoi consensi in una escalation che preoccupa Londra. Ormai le spinte separatiste hanno il chiaro esempio scozzese come riferimento, e la sensazione è che la tendenza possa aumentare. Non è un caso che in questi venti anni, all’inizio del progetto Speed, la nazionale gallese abbia trovato nuova linfa. Due indici direttamente proporzionali, perché la semifinale a Euro 2016, con annessa sfida ai gironi all’Inghilterra – persa, dopo l’iniziale vantaggio di Bale – ha cementato un sentimento nazionalista dormiente nel cuore anche dei più scettici. E d’altra parte i Dragoni sono tornati a respirare grande calcio anche e soprattutto grazie a uno spirito di appartenenza forgiato in questi anni.
E sebbene la vicenda politica sia estremamente più complessa e variegata, è certamente un bene che la cultura che continua a prosperare tra le montagne e nell’entroterra del paese ora abbia anche conquistato i palcoscenici sportivi più importanti. In una terra magica, che ha ospitato la leggenda di Re Artù e la mitica Excalibur, al Galles le armi certo non mancano. E nemmeno lo spirito, quello infuso dal Santo patrono Dewi Sant, in particolare quella sua massima di vita così attuale:
«Gwnewch y pethau bychain»
«Fate le cose piccole. Esse faranno la differenza.»
La ricetta giusta per stupire ancora e urlare all’Europa: Cymru am byth, Galles per sempre.