Ritratti
20 Gennaio 2024

Garrincha maledetto

Ricordo del campione storpio che amava bere, fumare e giocare a calcio come nessun altro.

Bangu è il secondo quartiere più popoloso di Rio de Janeiro. Un grande tappeto di case incastonato fra le montagne. È un quartiere residenziale, riservato alla classe media, alla gente normale, lontano sia dalle favelas che dai grattacieli del centro città. È notte fonda fra il 19 e il 20 gennaio 1983, l’orario riservato ad ubriaconi, prostitute e metronotte, e uno spettro si aggira fra le case. Ha l’odore acre dell’alcol e di chi non torna a casa da giorni, la giacca lisa, i capelli neri arruffati e l’andatura claudicante. Cerca la strada di casa, dove non torna da quattro giorni e ad aspettarlo c’è sua moglie Vanderléia, l’ultima della tante. È lo spettro di un campione, il suo nome è Manoel Francisco dos Santos, per gli amici Manè, per tutti gli altri Garrincha.

“Sentendo nominare Pelè i brasiliani si tolgono il cappello, sentendo nominare Garrincha gli scende una lacrima”.

Garrincha nasce a Pau Grande, sobborgo a nord di Rio ai confini con la giungla. I suoi primi anni di vita sembrano scritti da un ipotetico Dickens amazzonico. Un po’ Tarzan, un po’ Oliver Twist, vive un’infanzia bucolica e selvaggia, passata nel fango, a nuotare nei torrenti e a dare la caccia ai passeri. Proprio ad un esemplare di passero, Garrincha appunto, deve il suo soprannome grazie ad un’intuizione della sorella. Tabagista e dedito alla bottiglia già da prima dei dieci anni, a quattordici inizia a lavorare nella fabbrica tessile locale, salvo essere licenziato un anno dopo per le sue inadempienze ed essere ripreso poco più tardi solo a patto di giocare a calcio nella squadra dello stabilimento.

Il piccolo Manoel sembrava fatto per tutto meno che per fare sport. Una poliomielite lo aveva reso storpio: strabico, con la spina dorsale deformata, il ginocchio destro affetto da valgismo e il sinistro da varismo e soprattutto la gamba sinistra di sei centimetri più corta della destra. Ma proprio da questi difetti Garrincha ha tratto la sua forza.



Egli è stato il primo grande 7 nella storia del calcio, prima di Best, di Beckham e di Ronaldo. Prototipo dell’ala dribblomane, ha fatto della sua corsa caracollante un delirio per i difensori. La gamba sinistra più corta gli donava infatti un’innata capacità di abbassarsi sul lato per poi scattare come una molla verso destra. Imprevedibile, sgattaiolava fuori dal blocco avversario proprio come un passero che sfugge da una gabbia. Garrincha danzava intorno al pallone con una grazia innaturale per il suo fisico e con una tecnica anacronistica per l’epoca, quasi fosse stato catapultato nella giungla dal futuro.

“Come faccio? è facile. Nel dribbling vado incontro al mio avversario. Quando arrivo vicino, gli tiro la palla dietro: lo spingo avanti e corro. Se gli avversari sono due, supero il primo con un tocco leggero così che il secondo non può fare il buffone, deve affrontarmi in fretta e io lo supero sullo scatto”.

È stato un innovatore del gioco del calcio. Totalmente incontrollabile, libero e anarchico in campo, più volte il CT brasiliano Feola è stato costretto a metterlo fuori squadra per le sue intemperanze, salvo poi non riuscire a farne a meno. Uno psicologo della nazionale verdeoro lo definì addirittura minorato, stimando che avesse l’intelligenza di un bambino di 9 anni. Ma è proprio la sua anima naif che gli ha permesso di inventare. Garrincha è stato l’essenza del calcio in quanto tale, privo di sovrastrutture e tatticismi vari. Solo un uomo e un pallone. Il calcio al suo stato più puro.

La maggior parte della sua carriera la passa al Botafogo, dove al momento del suo provino uno degli allenatori scrive sulla propria relazione: “Il giocatore ha mostrato qualità straordinarie. Ha solo un difetto, a mio modo di vedere correggibile, dribbla troppo”. Ma è con la maglia del Brasile che ha scritto la leggenda. I suoi venti minuti contro l’URSS durante i gironi della spedizione svedese sono descritti dai pochi fortunati presenti come fra i momenti più dominanti della storia del calcio, con buona pace del malcapitato avversario. Quattro anni dopo, liberatosi dall’ingombrante ombra di Pelè infortunato, diventa capocannoniere del Mondiale 62, miglior giocatore e autentico trascinatore della nazionale verdeoro.

“In Svezia (nel ’58) e lo sarà anche in Cile, nel ’62, fu lui il vero protagonista. Quando al limite non sapevano cosa fare i miei connazionali gli passavano la palla sulla destra e Garrincha creava per gli altri e per sé”.

José Altafini

Noto mal viveur, si dice che il Mondiale del ’58 fu festeggiato due volte nei bar di Pau Grande: al triplice fischio e al ritorno di Garrincha. Disseminò per il mondo tredici figli, riconosciuti: otto con la prima moglie, due con la seconda, una con la cantante Elsa Soares, una con l’ultima moglie e un ultimo, tal Ulf Lindberg, frutto del Mondiale svedese. Le sue fortune? Tutte disciolte in fondo ad una bottiglia di cachaca, un’acquavite molto in voga in Brasile.

Quasi in rovina si trasferì per un periodo anche a Roma, vivendo come testimonial per l’Istituto Brasiliano del Caffè. Dai racconti di quegli anni esce fuori un personaggio pasoliniano, diviso fra le bettole della Capitale e le partitelle sull’asfalto di Campo de’ Fiori o sulla spiaggia di Torvaianica.

Nel 1969 fu poi anche protagonista di un incidente stradale dove la suocera, sbalzata fuori dal parabrezza, perse la vita.

Consumato dalla miseria e dai sensi di colpa il suo alcolismo peggiorò, fino a quella notte di gennaio 1983. Tornato a casa dopo quattro giorni fra i bar di Rio venne ricoverato all’ospedale Boa Vista, padiglione Santa Teresa, quello riservato agli alcolizzati. Verrà trovato morto dagli infermieri il giorno dopo a causa di un edema polmonare. Il suo funerale fu un Carnevale anticipato. La sua salma, trasportata su un’autopompa dei vigili del fuoco, venne seguita dal popolo brasiliano in festa dal Maracanà fino Pau Grande, luogo della sepoltura. Poi qualche anno fa la notizia: le ossa di Garrincha sono sparite. Anche da morto, nessuno è riuscito mai ad ingabbiarlo.

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