La motocicletta come compagna di vita. Ne annusa l’odore, sente il suo canto cupo e soave. Lo ascolta finché non irrompe nel suo inconscio, proiettandolo in una dimensione parallela. Percepisce il suo splendore, il suo pianto. Le parla con un filo di voce, che diventa più assordante dei cilindri che sprigionano potenza. La sprona, la coccola, la guarda dall’alto come un cavaliere fa col destriero che lo condurrà in battaglia fino alla gloria. Forse alla morte. La porta al limite. Sempre. Perchè quello è il senso, la strada, il destino. Alcune volte deve domarla e riportarla a sé, come un purosangue rampante:
«Perché la motocicletta è come una donna, può tradirti da un momento all’altro. E se la ferisci, si vendicherà».
Giacomo Agostini ha amato le donne quasi quanto le moto. Era come il diavolo e l’acqua santa: avvenente playboy e coniuge devoto. Una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde diviso tra donne e due ruote: ma Ago giurò amore eterno soltanto alla MV Agusta, sua compagna di sempre.
Il ritratto di un uomo devoto
Quella tra Giacomo Agostini e la MV è una storia di puro amore lunga oltre 50 anni. Ad eccezione di un breve periodo di crisi coniugale. Era il 4 dicembre 1973 e Ago spiazzò tutti: «Dalla prossima stagione correrò con la Yamaha». In Agusta era arrivato Phil Read che, oltre a saper piegare come un funambolo farebbe appeso ad un filo, se la cavava abbastanza bene anche con le parole. Tra una frecciatina e l’altra, vinse il titolo della 500 relegando Agostini al ruolo di comprimario. Il Campionissimo annusò il tradimento nell’aria e colse l’occasione per rispondere, una volta per tutte, alla fatidica domanda: «È Agostini il pilota più forte o la MV la moto più veloce?».
Perché quella di Ago assomigliava ad una barbara tirannia. E i numeri lo confermavano: 13 mondiali in otto anni, divisi tra le classi 500 (7) e 350 (6). Qualcosa in più di un semplice dominio.
Dall’altra parte del mondo, i giapponesi avevano tecnologie a sufficienza ma ancora poco know-how per imporsi ai livelli degli italiani o dei connazionali della Honda. La Yamaha non aveva mai vinto un titolo nella classe reginama Ago accettò la sfida. D’altronde la sua bacheca non smetteva di luccicare. Così come la fama da donnaiolo, che lo aveva eletto a icona italiana in giro per il mondo. Tanta era la sua popolarità che comparì persino in quattro film, oltre che in numerosi fotoromanzi dell’epoca.
Giacomo Agostini, circondato dai suoi fedeli, mentre osserva in trance mistica la MV
Col Sol Levante ci fu subito feeling, nonostante una stagione d’esordio tra più ombre che luci, conclusa comunque con il titolo nella 350. Nel 1975 la scintilla si trasformò in rovente passione: Agostini arrivò a contendersi il titolo della 500 con Read nell’ultima gara di Brno. Bastava arrivare secondo per inanellare il quindicesimo titolo, il primo targato Yamaha nella mezzo di litro. Ago frenò l’istinto e sposò la ragione: primo Phil Read, secondo Giacomo Agostini. Il mondo era ancora suo. Per la quindicesima volta. Mai nessuno come lui.
L’apoteosi di Agostini coincise con uno dei momenti più delicati nella storia della MV Agusta.
L’azienda, dopo la morte del Conte Domenico Agusta, era passata nelle mani del fratello Corrado. Il reparto corse viveva di incertezze. Ed allora tornò l’amore, quello vero, puro e travolgente: Agostini lasciò la Yamaha e rilevò la scuderia. E a bordo della MV motorizzata Suzuki disputò la stagione ‘76 da campione del mondo in carica. Nella gara di chiusura, sul mitico tracciato del Nurburgring, colse la prima vittoria stagionale e l’ultima della sua carriera. Proprio su quella pista infinita, spettrale e maledetta dove, 20 anni prima, aveva ottenuto il primo successo nel motomondiale. In sella alla MV ovviamente. L’epilogo più emozionante e simbolico di uno dei binomi più iconici nella storia dello sport. Come Pelè e il Santos, Schumacher e la Ferrari e Merckx e la Milano-Sanremo.
Re Giacomo in azione nel 1975 in sella alla sua Yamaha
Il successo con le donne faceva il paio con quello sulle due ruote. Un talento dal sapore di profezia. Perché il giovane Ago mandava giù le colline ai piedi della città alta di Bergamo come un veterano. A lanciarlo nel circus del motomondiale ci pensò involontariamente un notaio amico di Aurelio Agostini, papà di Giacomo. Il vecchio babbo non vedeva di buon occhio la carriera da centauro del figlio e provò ad opporsi in tutti i modi, fino all’intervento del fidato amico: «Dai, cosa vuoi che sia! I giovani di oggi vanno lasciati liberi di vivere le proprie passioni, lascialo correre!».Aurelio si convinse. Il caro notaio, però, tra un passaggio di proprietà e l’altro equivocò il tutto: era convinto, infatti, che Giacomo volesse correre in bici, non in moto!
Dopo papà Aurelio, Giacomo lottó contro ben altri avversari. Alcuni erano talentuosi, leali, cavallereschi. Altri provocatori, ostili, scomodi. Altri ancora fatali, invincibili. Vinse contro tutti.
Il primo duello ad entrare nel mito fu quello con Mike Hailwood, che incrociò il giovane Ago quando si avviava a terminare una carriera leggendaria. La sfida tra i due ebbe il sapore di un duello generazionale: un salto nel tempo dal vecchio al ragazzino, dalla saggezza all’irriverenza. L’apice della rivalità al Tourist Trophy 1967, nell’Isola di Man, in Inghilterra. Sul circuito più difficile e mortale del pianeta, Agostini e la MV Agusta comandavano fino a pochi metri dal traguardo. Ma Ago trascinò la sua bella oltre il limite e questa lo tradì, come una compagna infedele: rottura della catena. Hailwood passò in testa e vinse, ma dedicò il trionfo al giovane rivale: «Senza la sfortuna avrebbe vinto Agostini, questo è il suo successo». Non ci fu mai rivincita perché Mike the Bike si ritirò nel 1979 e morì due anni dopo in un incidente automobilistico.
Giacomo Agostini e Hailwood sono scolpiti nella leggenda
I rivali più iconici, però, furono due. Accomunati dal medesimo destino. Un arguto e spavaldo romagnolo e un freddo e magnifico finlandese. Il primo aveva l’aria da finto intellettuale e nascondeva lo sguardo cattivo del centauro dietro un paio di occhialoni spessi, di quelli da primo della classe. Si chiamava Renzo e portavauncognome intrinseco di genio e talento: Pasolini. Il Paso, romagnolo doc, rappresentò la nemesi del Campionissimo in pista ma, soprattutto, fuori. Il “ragazzo con gli occhiali” amava provocare Agostini in ogni modo: lo pungeva a parole, gli fumava in faccia (Agostini odiava le sigarette). Sull’asfalto sportellava che era un piacere.
La rivalità tra Ago e Paso riportò indietro gli sportivi italiani, rievocando loro le leggendarie divisioni tra coppiani e bartaliani, tra comunisti e democristiani, tra i seguaci di Don Camillo e quelli dell’onorevole Peppone.
Il Paso era l’orgoglio operaio, Ago quello principesco. Pasolini lottava con mezzi inferiori rispetto a quelli del rivale: lui, fantino in sella alla piccola Benelli; l’altro, cavaliere sulla gloriosa MV. Nonostante l’evidente divario tecnico tra le due case, il Paso menava di brutto. E quando ad incollarsi alla sua carena era Agostini, lui dava il meglio di sé. Il dualismo nacque nei circuiti cittadini della Romagna, lì dove Renzo si trasformava in Ago. E il pubblico era tutto per lui.
Pasolini aveva uno stile di guida diametralmente opposto a quello di Agostini: sempre al limite il primo; razionale, saggio, ai confini del calcolatore il secondo. Il computo dei trionfi parlava a favore del bergamasco, perché il buon Paso vinceva poco o nulla. Secondo o ultimo non faceva differenza: “Io corro per correre, poi se vinco tanto meglio”. Pasolini era alba o tramonto, fuoco o tempesta. Diventò l’eroe delle folle (specie quelle della sua terra) e il rivale per eccellenza di Agostini. Nel ‘72, passato alla Aermacchi motorizzata Harley-Davidson, sfiorò il titolo della 250. Glielo portò via un altro eroe segnato dal destino.
Renzo Pasolini e la sua incredibile somiglianza con PPP
Mentre l’Italia sognava una nuova Coppi-Bartali, irrompeva sulla scena mondiale il terzo uomo. Un centauro venuto dal Nord Europa che rivoluzionò letteralmente il modo di guidare le moto. Jarno Saarinen era dolce ma duro, intelligente, leale. I capelli lunghi e dorati scendevano sui lineamenti vichinghi. Un angelo biondo dallo sguardo truce. Una classe cristallina. Jarno piegava come un dio. Dipingeva traiettorie, scolpiva i cambi di direzione con fare canovesco. Curvava con le gambe larghe e staccava come un forsennato. Aveva una cura maniacale del proprio mezzo: laureato in ingegneria meccanica, girava il paddock insieme alla moglie Soily e correva da privato a bordo di una Yamaha acquistata con i soldi per l’università.
Nel 1972 la casa nipponica lo prese a cuore fornendogli una moto più aggiornata e Saarinen conquistò il titolo della quarto di litro davanti a Pasolini. Il 1973 si preannunciava denso di emozioni. Perché si sfidavano il tiranno Agostini, il pungente Read, lo spavaldo Pasolini e l’angelo cattivo Saarinen. Il finlandese pareva nella sua stagione di gloria: tre vittorie su tre nella due e mezzo, due su tre nella classe regina. Al quarto gran premio, sul circuito di Monza, il destino traccerà per sempre una linea dalla quale non si tornerà mai più indietro.
Agostini ha appena vinto la gara della 350. Alla partenza della 250 Pasolini e Saarinen scattavano dalla prima fila. Rincorsa, partenza, gas spalancato e via.
Ad un tratto, caló il gelo. Dalla curva grande si levò nell’aria soltanto il silenzio assordante. Il rombo dei motori voló nel cielo. Si perse in mezzo ai boschi che circondano la pista. In quel drammatico 26 maggio, il canto dei destrieri a motori recitò lo spartito di un requiem. Pasolini perse il controllo della moto che si schiantó sul guard rail carambolando in pista. Saarinen fu centrato in pieno volto. Tanti i piloti coinvolti. Ma il destino, che di solito pesca a caso, quel giorno scelse i più grandi: Paso e Jarno morirono sul colpo. I corpi inermi sull’asfalto disegnavano uno scenario apocalittico: moto in fiamme, uomini a terra. Terrore.
Saarinen e la moglie Soili: separati solo dal tragico destino della morte
Agostini conobbe l’avversario imbattibile: la morte. E rifletteva se tutto avesse senso. «Pensi sempre che non capiti a te. Questo ti dà la forza di continuare». Lui, quella convinzione, l’ha sempre fatta sua. L’ha portata al limite. Come la MV. Perché, in fondo, era quello il senso di tutto.
Oggi il 79enne Giacomo Agostini ha aperto un museo nella sua Bergamo. Ma guai a chiamarlo museo: «Mi fa sentire così vecchio…», dichiara in una recente intervista a La Repubblica. Perché in fondo Ago è ancora il seducente centauro di un tempo. Il più vincente di tutti.
«Ho ricontato i trofei che ho vinto in carriera, ne ho trovato qualcuno in più rispetto a quelli che ricordavo».