Interviste
07 Marzo 2020

Quel mitomane di Giancarlo Dotto

Federer e Nadal, Carmelo Bene e il ping pong, Totti: abbiamo scambiato due chiacchiere con un giornalista extra-ordinario.

Giancarlo Dotto, giornalista, scrittore, assistente alla regia e amico di Carmelo Bene, grande appassionato di sport, polemico, bastiancontrario. Da anni partecipe al dibattito pubblico con il vento a prua, Giancarlo Dotto è un personaggio con cui è arduo scendere a compromessi. Opinioni affilate, stoccate alla banalità, tenzoni su quotidiani e tivvù. Dotto è allergico alla diplomazia di maniera e fa della sincera assertività il suo tratto distintivo. L’ho stuzzicato su più temi un sabato mattina alle nove meno un quarto.

Giancarlo, qual è nella tua opinione lo stato dell’arte del giornalismo sportivo italiano? Tu collabori con il Corriere dello Sport, il quale ha attratto numerose critiche per quella copertina sul Black friday, come hai reagito?

Hai posto un tema che è in realtà un macigno, cercherò di essere sintetico. Premesso che in Italia c’è sempre stato questo pregiudizio nei confronti del giornalismo sportivo come di un giornalismo minore quando in realtà da questo sono usciti alcuni tra gli esempi di scrittura più luminosa. Ne cito solo tre: Gianni Brera, Giampiero Ormezzano e Gianni Melidoni per rimanere su figure totemiche. Il motivo è molto semplice: in realtà il giornalismo sportivo è quello che racconta l’impresa, l’evento. Soltanto chi ha in dotazione una scrittura molto alta è in grado di farlo. È un giornalismo nobile perché si confronta al tema della mitologia dell’evento. Oggi si è degradato, perché a degradarsi è stato il giornalismo nel suo complesso.

Si sta eclissando il mondo della carta stampata, se ne celebra ormai il funerale, è un mondo che si sta decomponendo. Tanto più imperversa questo fenomeno tanto più si è pronti a tutto pur di sopravvivere. Tra questo c’è anche il tranciare i confini etici che delimitano il lavoro quotidiano, il rapporto deontologico con la notizia. Il giornalismo di oggi è ridotto allo stato della carogna, ci si aggrappa a tutto e si fanno titoli anche bastardi. Da parte mia non c’è stato imbarazzo, e bada bene che non procedo ad assoluzioni preventive per i miei compagni di merenda (Zazzaroni, nda). Al contrario provo piacere morboso nell’insultare me stesso e i miei amici, lo trovo un momento di grande verità.

Con Zazzaroni ci confrontiamo spesso senza mezzi termini, ma per quel titolo è stato messo su l’ennesimo atto fornicatorio del politicamente corretto, come è stato in parte per Amadeus per Sanremo. Non c’era alcunché di insultante od offensivo, ritengo anzi ci fosse una sorta di celebrazione subliminale dello strapotere carismatico del corpo africano e della sua fisicità. Vi era profondamente insito un elogio nella mia opinione. Il giornalismo della carta stampata arranca, il primo ad averlo capito è stato quel cinico di Feltri che ha inaugurato da pioniere un giornalismo di avvoltoi, che non guarda in faccia a nessuno. Al tempo catturava copie, ora non gli basta che per vivacchiare in TV. Le reazioni a quel titolo sono state nevrasteniche, a cominciare da quella ufficiale dell’AS Roma. 

Che ne pensa Giancarlo Dotto di questo calcio ipertrofico che va in scena sette giorni su sette? Si può resistere ai ricatti dei media che gestiscono i calendari?

Questo calcio à votato a far di noi dei polli di allevamento, questo calcio mangime non mi piace più e mi annoia, guardo molto più volentieri il tennis che su di me ha una funzione ipnotica. Aldilà del mito Federer, con lui siamo nel campo della sindrome di Stendhal, il tennis per quanto mi riguarda è rapimento estetico ed estatico. Una pallina che per ore fa avanti e indietro scaraventata di quei bruti che sono i tennisti di oggi: per me è un oppiaceo. Tornando al calcio io ho capito, tardivamente, qualcosa di importante. Essere tifosi ha tante varianti e collaborando da anni, infelicemente ma con simpatia, con le celebri radio romane, attratto dal richiamo del vile denaro a cui cedo volentieri, ho realizzato d’essere un tifoso non della maglia, ma di chi sta dentro la maglia, dell’eroe che la indossa e ne fa la corazza delle proprie imprese.

Il calcio per me è il mondo dell’epos, esiste solamente in funzione dell’impresa. La retorica urtante del solo la maglia per quanto mi riguarda è una bugia colossale. Non potrò mai dimenticare quella volta con l’amico Carmelo Bene seduti sul divano a guardare Francia-Italia: ad un certo punto Platini batte una punizione celestiale con la palla che si inarca perfettamente prima di infilarsi in rete, a foglia morta come si dice. Ci siamo trovati in ginocchio entrambi, genuflessi al cospetto del Roi e della bellezza del gesto. Anche frugando nel mio tifo per la Roma ho scoperto che al centro c’è sempre una figura, un eroe, un personaggio. Ho ripercorso il mio rapporto con lo sport dalla fanciullezza ad oggi e ho compreso che questa è l’essenza della mia passione, l’adesione al mito.

Il grande motore è il mito, la mia attuale disaffezione per l’attuale Roma è la mancanza di un qualcuno che mi porti nella stratosfera. Gli ultimi ad averlo fatto sono stati Alisson e Salah. Ci tengo a sottolineare, con un piccolo cedimento alla vanità, che il primo lo segnalai io a Garcia e Sabatini, rinforzando la cosa con un pressing estenuante. Lo scoprii all’Internacional di Porto Alegre, frequentando spesso il Brasile. Lo indicai a quella deliziosa persona che è Rudi Garcia che a sua volta girò la questione a Walter Sabatini. Sappiamo com’è finita. A proposito di miti e bandiere, sono finiti Totti e De Rossi, gli ultimi. Il mio slancio è finito con loro. Mi sono ridotto a sperare che arrivasse Politano, perché comunque era una bella storia. Lo sport è fatto di miti e di storie, è questo che incendia la mia scrittura. 


Neanche Fonseca ti attrae? Sembra un allenatore degli anni ’50, un vero gentiluomo. 

Sì Fonseca ha qualcosa di interessante, è sicuramente un gentleman. Vivo sei mesi l’anno in Portogallo e ne conosco bene la letteratura. Fonseca è un personaggio romanzesco, con questo suo sguardo sempre assorto, come se guardasse un orizzonte invisibile. Questa sua apparente impassibilità, questo suo fare scudo alle disgrazie di questo povero club che è oggi la Roma, mi attrae sicuramente. 

Hai citato il sommo Bene, che rapporto aveva con lo sport? 

Era assolutamente un appassionato. Un vero mitomane, lui che era egli stesso un mito. Ricorderò sempre con carezzevole affetto quando entravo in casa sua ed aveva appena visto un match di tennis, magari di Edberg, e mi accoglieva mimando goffamente i gesti tecnici. Era veramente buffo. Aveva questa prossemica da burattino che aveva un non so che di fiabesco. Era Pinocchio (ride, nda). Nel ping pong, ove mi diletto con un certo successo, ci perdevamo in tornei notturni a Forte de’ Marmi e lui faceva alcune piroette geniali, assurde.

Amava il gesto sportivo ed amava riprodurlo, tutto molto esilarante. Io son diventato giornalista grazie a Bene, all’epoca ero un ragazzo marginale, con qualche arte ma senza parte. Il mio rapporto con lui si era alterato – impossibile durare al fianco di Bene, pena la consunzione psicofisica. Chiamai il Messaggero proponendo loro una intervista con lo stesso Bene su temi sportivi. Comincia così la mia storia di giornalista allo sport. 

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Giancarlo Dotto in compagnia di Carmelo Bene, sul finire degli anni 90. (Foto Dagospia)

In precedenza hai celebrato quel rito laico che è vedere Roger Federer, di cui condividiamo l’adorazione, ma a me interesserebbe di più parlare di Nadal. Personalmente sono uscito dalla prigionia del duopolio, finito peraltro con Djokovic, dal manicheismo Nadal-Federer. Provo una sincera ammirazione sia umana che tecnica per Rafa, ma continuo a leggere di Giancarlo Dotto che ha un rapporto conflittuale col personaggio. 

Io non sono stato così bravo come te, io continuo a detestarlo Nadal. A differenza tua, essendo un soggetto molto fobico, associo Rafa Nadal alla mia fobia più ingestibile, quella per i topi. Non riesco ad andare oltre. La smorfia orrenda che fa quando lancia in aria la palla è un invalicabile momento di rigetto. Non riesco ad accedere al merito dei contenuti, è un mio limite, non riesco ad andare oltre a ciò che la faccia e il suono della voce comunicano. Vedo altresì, in Nadal, l’orrore tedioso della volontà alfieriana di un soggetto in assenza di grazia – beninteso non di talento, del quale sebbene nerboruto e muscoloso ne è dotato – ricompensata da una maniacale applicazione. Ogni volta che vince subisco una fitta di sofferenza. 

Giancarlo, sono costretto a chiederti di Francesco Totti, con il quale sì, anche io ho un rapporto più che conflittuale.

Io voglio chiarire che non odio Totti, la parola odio non mi è congeniale, l’odio implica una sofferenza e anche un limite, per me è troppo. Francesco ha minacciato di querelarmi per aver io semplicemente espresso un’opinione. L’ho sempre beatificato calcisticamente ma, ai miei occhi, anche per questo resta un uomo deludente. Quando nel derby fece quel selfie, un gesto mondano a favore delle telecamere, dopo il goal del pareggio in un derby fin lì davvero sofferto, provai un forte disagio. Un leader avrebbe dovuto portare la palla al centro e rabbiosamente pretendere la ripresa del gioco.

Insomma, Totti subisce il debito della propria immagine pubblica e questo a me non piace. Fuori dal campo si confessa quello che si è, non v’è più il risarcimento del gesto tecnico. A me non disturba Totti in sé, disturba la continua celebrazione che vi è attorno. Nel caso del conflitto con Spalletti, persona difficilissima, fegatoso toscano, ho contestato a Totti il fatto che da capitano e leader, anziché pacificare, avesse gettato benzina sul fuoco. Da questo punto di vista la distanza con Daniele De Rossi è abissale, davvero. Il motivo del mio disagio è stato sempre e soltanto questo. 

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