Un modello da imitare per gli sportivi senza personalità.
Passa tutta la differenza del mondo tra il calciatore senza carisma e l’altro, quello in grado di cambiare le sorti non solo di un match: di un popolo, di un movimento. Gianluca Vialli – soprannominato da Gianni Brera Stradivialli, secondo la coincidenza di essere nato a Cremona come Antonio Stradivari e per l’orgoglio suscitato alla stregua del liutaio ai passanti in Piazza del Comune – di atti ne ha disseminati diversi nel firmamento del calcio italiano. Sul tappeto verde, la prima punta moderna: nove granitico e intelligente, 259 gol in 673 in tutte le competizioni con fiato da disintegrare al servizio della squadra e giocate incisive, mai banali; non per il pubblico, per un popolo, un movimento – anche le reti sbagliate, di classe.
Esteriormente, il suo stile di gioco è una bottiglia di Morus LXIV Gin mentre sul giradischi scorrono le vibrazioni di Albione: Song 2 dei Blur, Starlight dei Muse, Days Are Forgotten dei Kasabian. Interiormente, il manifesto dell’equanimità orientale: una delle emozioni più complete della pratica buddista, l’humus della saggezza e la libertà di pensiero. Corpo e psiche lo rendono il leader naturale dello spogliatoio: Bisonte Seduto nei momenti di crisi, Robin Williams ne L’attimo fuggente al culmine dell’empatia con i compagni e lo staff tecnico.
Il capotribù che si fa portavoce della Juve di Marcello Lippi – una delle formazioni più forti e carismatiche della storia del football –, presentandosi davanti alle telecamere ogni settimana in modo da sgravare dalle pressioni i fratelli di battaglia, senza lesinare l’ironia, faccia a faccia col circo mediatico che diventa tritacarne. Il re della goliardia contro la tensione: storyteller ante litteram, è storica la sua ripresa con una piccola telecamera, accompagnata una dialettica da comunicatore innato, dell’avvicinamento alla sfida di ritorno della Vecchia Signora contro il Real Madrid, a Torino, nei quarti di finale della Champions 1995-96.
Un’impronta social equilibrata, funzionale al gruppo, da tramandare ai posteri.
Perché riprendere il viso pulito di Alex Del Piero e il culo di Antonio Conte, in un momento cruciale della stagione, per tirare fuori dai volti dell’ambiente il sorriso trascinante, è una scossa d’armonia. Fuori dai likes, fuori dalle inserzioni. Lui può permetterselo: il bomber delle rovesciate imperiose; il toro indomabile delle rimonte impossibili, Juventus-Fiorentina 3-2 docet; la componente di fuoco del duo scudetto Vialli-Mancini alla Samp, un po’ come Simon & Garfunkel in concerto al Marassi; ricci ruggenti alla Cremonese, nelle Notti Magiche d’Italia Novanta e tra le cazzate necessarie di Mai Dire Gol.
20 maggio 1992, Wembley, finale Barcellona-Sampdoria. Solo uno con palle stratosferiche può rialzarsi dopo quella notte. Veleno sui sogni. Davanti al miracolo di Mantovani e Boskov l’armata di Cruijff. Sconfitta di misura ai supplementari, ma soprattutto una caterva di reti mancate da Stradivialli – che erano un gioco da ragazzi. Le sue palle stratosferiche, appunto, lo portano alla corte di Gianni Agnelli, che tanto bramava le sue prestazioni. Coppa Uefa, Scudetto, Coppa Italia, da capitano senza filtri, implacabile. Non più ricci: capoccia pelata, lucida, con un accenno di basette che fanno vibrare il glamour in abbinamento al suo pizzetto e agli occhioni blu.
L’ossessione resta la Champions League. La sua e di ogni singola componente del mondo zebrato. Vincerla da capitano può essere l’orgasmo giusto per annichilire la notte del 20 maggio 1992.
22 maggio 1996, Stadio Olimpico, finale Juventus-Ajax. Goduria di Madama ai calci di rigore contro il volpone Van Gaal: la prima vera coppa conquistata all’ombra bianconera della Mole, che annichilisce lo scempio dell’Heysel. Foto cartolina: capitan Vialli la alza al cielo degli imperatori romani, dando il cinque ad Ottaviano Augusto.
Poi il Chelsea, prima da calciatore – fisico e tempra in grado di controbattere con lealtà alla durezza del gioco oltremanica – poi in panchina, a sorpresa. Coppa di Lega e FA Cup a pelo d’acqua del Tamigi da manager esordiente, ma già navigato. La vera vittoria è un’altra: i tabloid britannici – storicamente perfidi – sono catturati dallo stile elegante e dalla favella perspicace dell’italiano, elevato a gentleman della Premier League. Uno così la regina Elisabetta lo avrebbe invitato volentieri per un tè a Buckingham Palace. Lui, infinitamente legato alle sue radici, si sarebbe presentato con una torta Cremona e una bottiglia di El Turás.
Gianluca Vialli è un capitano vero, un amico vero: Mancini gliene dà atto, eleggendolo team manager della Nazionale in previsione degli Europei 2020. 10 luglio 2021, Londra, albergo a cinque stelle. La vita di Gianluca Vialli è un film reale. Non è partito dai bassifondi, ma ha sempre menato in campo una fame e una ferocia esemplari. Per la squadra, per il popolo, per il movimento. Nell’ultima cena della kermesse, legge delle parole ai futuri campioni d’Europa. Fa quello che ha sempre fatto tra picchi e le cadute della carriera: l’atto: capitano, amico. Cita Franklin Delano Roosevelt, oggi l’epitaffio del campione, il suo.
«Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio. L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze. L’uomo che dedica tutto sé stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato.
Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta».
11 luglio 2021, Wembley, ancora Wembley, maledettamente Wembley. Finale Inghilterra-Italia, a casa loro, nella fossa dei leoni. La vita di Gianluca Vialli è un film reale, che sublima la sua essenza in un frangente irripetibile: occhi verso la tribuna, i ventidue protagonisti in campo calciano i rigori. Stradivialli ha la strizza di guardare, il cuore sta per uscirgli dal corpo, come a un passo da gol nel 20 maggio 1992. Il capitano, l’amico, apre gli occhi, si volta verso la porta di Donnarumma: l’Italia è campione d’Europa, a Wembley, benedetto Wembley, metafora di tenacia, rinascita. Il capitano, l’amico è campione d’Europa: di un popolo, un movimento. E non è un caso.
L’encomio finale alla sua battaglia contro il tumore al pancreas, che è periferico al cospetto degli atti compiuti nella galassia dello sport internazionale, lo può riservare Daniele Mencarelli dal suo Bambino Gesù (Edizioni Nottetempo, Milano, 2013).
La tua piccola testa pelata
il colorito avorio spento
ha poco a che fare col sorriso
malgrado la chemio in bella mostra,
non sono io ma tu a confortarmi
con la tua aria da giocatore
quando colpisci con forza il pallone,
quasi mi dimentico la secchezza paurosa
le spalle ingobbite dentro il pigiama,
ma ridi per il liscio di tua madre
e la tua risata è come un canto
che tutti proviamo ad imitare,
non riesco a pensarti morente.
Ci si domanda che futuro dare ai giovani calciatori italiani. Ci si domanda come tornare grandi. Ci si domanda come fare rinascere la Nazionale. Dai modelli. Dall’atto. Il testamento di Stradivialli può e deve servire. Se il carisma è innato, la personalità si coltiva. Bisogna diventare capitani, amici, fratelli di una squadra, un popolo, un movimento. Così si assorbe e si tramanda il sacrificio. L’obiettivo: palle stratosferiche.