Andarsene, assunti al cielo su un carro infuocato. Con questa suggestiva allegoria Brera dipingeva la morte dei suoi eroi sportivi. Voleva indicare una maniera epica, leggendaria, degna, di lasciare questo mondo per chi aveva illustrato il genere umano in maniera così brillante ai suoi occhi.
La notte del 19 dicembre 1992, il destino volle che fosse questo, quasi in maniera letterale, il modo in cui Gianni Brera si congedò dalla sua vita terrena. Nelle ore successive, nel più fulgido dei ricordi a lui dedicati, Gianni Mura scrisse che Brera alla fine li aveva fregati tutti: non era morto né di cuore né di polmoni, organi strettamente connessi a due dei vizi preferiti dal maestro, la buona tavola ed il fumo. Un incidente stradale sulla strada che collega Codogno a Casalpusterlengo gli fu fatale.
Classe 1919, nasce in provincia di Pavia, precisamente a San Zenone, un tipico paesaggio padano, avvolto da una sottile foschia anche nelle mattinate estive, che sorge e prospera sulle rive molli e paludose del Po. Questa provenienza geografica è per lui quasi un tema ossessivo, ed attraverso il filtro della sua zona natia è solito setacciare tutte le informazioni che raccoglie. Anche il nome con cui spesso di si riferisce a se stesso – Gioannfucarlo – è reminiscenza della cultura contadina del primo Novecento, dove al proprio nome si legava quello della discendenza paterna, per dare una migliore identificazione di sé stessi.
Si potrebbe stare qui ad elencare come nasce la figura letteraria di Brera, dai primi studi a Milano, alla conseguente gavetta iniziata ad appena 17 anni presso il Guerin Sportivo, ma sarebbe togliere spazio prezioso all’illustrazione del colossale genio della parola di cui si parla. Il Brera giornalista, firma autorevole e conosciuta, ha una data d’inizio. Anzi più precisamente un anno.
È il 1949, la guerra è da poco terminata e, dopo aver prestato servizio arruolato nei paracadutisti, riuscendo a riciclarsi nell’ufficio stampa della Folgore e come corrispondente di guerra per il popolo d’Italia, Brera è alla Gazzetta dello Sport assegnato inizialmente all’atletica dall’allora direttore Bruno Roghi.
Nell’estate di quel 1949 è corrispondente al Tour de France, e segue la corsa gialla, raccontando a milioni di Italiani la lotta di vertice tra Coppi, Bartali e Magni. All’epoca il ciclismo è lo sport nazionale, immensamente più seguito del calcio. Le corrispondenze di Brera sono autorevoli, precise dal punto di vista tecnico, e sufficientemente colorite da toccare l’immaginario collettivo dei lettori di tutta la penisola. La maniera stessa con cui descrive Coppi – trionfatore di quell’edizione e primo nella storia a centrare l’accoppiata Giro-Tour – è un primo e gustoso antipasto delle capacità letterarie del maestro di San Zenone. Lo descrive come un uomo dall’apparente fisico goffo e sgraziato, del tutto inadatto all’attività sportiva, ma che per uno scherzo del destino è condannato a fondersi e trovare il suo ideale complemento nel mezzo meccanico rappresentato dalla bici.
Dopo queste furoreggianti corrispondenze dalla Francia, a Brera viene offerta, a soli 30 anni, la direzione della Gazzetta dello Sport, carica che occupa però per un tempo limitato, non aderendo bene alle caratteristiche dell’uomo e del professionista. L’habitat naturale di Brera è quello del battitore libero, ingaggiato di volta in volta dalla testata che gli consenta di esprimere il suo linguaggio e le sue idee. Già negli anni 50/60 la presenza di Brera nelle pagine sportive sposta un cospicuo numero di copie, e trovare chi gli dava i soldi per il lesso, come scriveva lui, non rappresentava più un problema.
Gran parte delle fortune del Brera giornalista derivano dalla sua maestria nel manovrare la parola scritta come il più abile degli scalpellini fa con il marmo della sua scultura. Ma non solo. Anche le posizioni tenute da Brera, nell’epoca dell’affermazione del calcio come sport di massa, sono fonte del suo successo.
Una vera e propria crociata per il difensivismo, un’aspra e rude battaglia ingaggiata con la cosiddetta scuola napoletana, impersonata dal suo rivale più acerrimo Gino Palumbo. Una guerra dai contorni quasi ideologici, con un Brera compiaciuto del fatto di sentirsi in netta minoranza, strenuo difensore della bellezza del non-spettacolo applicato al calcio.
Per Brera il modo migliore di affrontare una partita di pallone era quello di avere l’adeguata protezione della propria porta. Sulle pagine della Gazzetta, e dopo aver osservato la Salernitana dei primi anni Cinquanta allenata da Gipo Viani, arriva a teorizzare l’evoluzione tattica con lo staccamento di un uomo da mettere dietro la linea difensiva, a protezione della porta e contemporaneamente con il compito di prima impostazione dell’azione.
Chiama questa figura “libero” perché – appunto – libero da incombenze di marcatura. Oltre all’importanza tattica, che non indaghiamo in questo pezzo, è lampante che per definire tutte queste sue teorie Brera necessiti di un linguaggio: deve in pratica inventare, o prendere a prestito da altri settori, parole che possano permettergli lo scorrere fluente e piacevole della scrittura.
“Libero” è solo una delle prime e probabilmente la più famosa. Ma quando sentiamo parlare di rifinitura, presa dal gergo sartoriale, o di goleador, che trae spunto dallo spagnolo toreador della corrida, nemmeno ci accorgiamo di parlare una lingua totalmente sconosciuta prima di Brera. E vi sono altre centinaia di parole che oggi sentiamo regolarmente in telecronaca o radiocronaca, o leggiamo sui quotidiani sportivi, che nascono dalla sua penna.
Già presa singolarmente, questa semplice constatazione di natura lessicale giustificherebbe l’ingresso di Brera nell’olimpo dei grandi della letteratura. La sua fama è grande, tanto da suscitare curiosità anche negli ambienti intellettuali più alti, al punto che uno dei massimi esponenti della cultura, quale Umberto Eco, analizza il “fenomeno Brera” definendolo come un Gadda spiegato al popolo. Un’affermazione che però stizzisce non poco il Gioannfucarlo, prima di tutto perché – anche senza dirlo mai apertamente – non si sentiva subalterno a Gadda, e poi per la supponenza e quel senso di superiorità culturale che traspariva dalle parole di Eco, intento in qualche modo a sminuire la portata intellettuale delle cronache sportive.
Nella sua continua battaglia sulle sponde del difensivismo all’italiana Brera incrocia quello che meglio di tutti traduceva in campo tutte le sue teorie calcistiche:Nereo Rocco, allenatore triestino dai modi burberi, uniti però ad un’umanità senza eguali. Sin dai tempi dello splendido Padova di fine anni Cinquanta, Brera sostiene apertamente, dalle pagine della rosea, l’operato del paròn. Oltre all’intesa sul campo ideologico calcistico, i due si accordano meravigliosamente anche sul tavolo bandito delle migliori osterie padane.
Interminabili ed innumerevoli le notti scandite dalle caraffe di barbaresco, passate a teorizzare tattiche e schemi e talvolta a stilare formazioni per le partite più importanti. Intesa quasi simbiotica per questi due giganti della storia del calcio, con un unico punto inconciliabile: Gianni Rivera. “No sta tocarme el bambin de oro” è solito ammonire Rocco con voce stentorea, quasi zittendo l’intero vociare dell’osteria di turno. Brera ovviamente abbozza, ricordando il primo giudizio non proprio brillante dato dallo stesso allenatore triestino alla prima vista di un Rivera ancora giovane e fisicamente acerbo.
Proprio Rivera è forse la spina più pungente nella rosa critica del Brera giornalista. Pur riconoscendone le indubbie qualità tecniche, e ben cosciente del trovarsi dinnanzi al più fulgido talento calcistico dai tempi di Meazza, Brera non sopporta la mancanza di nerbo atletico di Rivera. Decide di soprannominarlo abatino, nomignolo coniato in origine per Livio Berruti, ma che secondo Brera calza a pennello al giovane alessandrino. La cosa porta anche qualche piccolo problema a Brera, che si trova ad affrontare aspre critiche e qualche ululato quando siede in tribuna stampa a San Siro.
Questa dei soprannomi è comunque una dimensione reale della cifra stilistica del maestro di San Zenone. Ama così tanto la libertà di potersi permettere questi vezzeggiativi da portarli dentro i suoi articoli come veri e propri elementi di critica. Ricordarli tutti meriterebbe un pezzo a parte, in questa sede sarà sufficiente pensare al suggestivo Rombo di tuono affibbiato a Gigi Riva, che per Brera rappresentava il modello di centravanti ideale. Ricevere nelle cronache dell’epoca un soprannome da Brera è motivo di vanto ed orgoglio per i calciatori, a testimonianza della popolarità raggiunta dal maestro di San Zenone.
Una popolarità che trova altre testimonianze nel grande successo della rubrica che lui stesso tiene sulle pagine del Guerin Sportivo, il celebre Arcimatto. Questo è il terreno dove rintracciare probabilmente il Brera più autentico. Stimolato ogni settimana dai lettori sugli argomenti più disparati, Brera fornisce in queste righe il massimo della sua produzione, colorando con il suo stile personalissimo e scintillante ogni pezzo, foss’anche inerente alla storia, allo sport o alla cucina regionale.
Scrivere per lui era quasi una necessità fisica, sfogata nelle centinaia di cartelle sputate dalla sua Olivetti portatile, la celebre macchina da scrivere, autentico ferro del mestiere. La domenica poi era il giorno da consacrare all’evento massimo, la partita di cui tutti attendevano la sua personale lettura. In ossequio al giorno della settimana, la stessa preparazione all’articolo aveva un’aurea di sacralità: Brera prendeva posto nella tribuna stampa, accompagnato dal suo borsello in pelle d’ippopotamo contenente tutto il necessario per seguire il match.
Taccuino e pennarello per le annotazioni di cronaca, che a seconda della partita poteva anche essere totalmente riempito di appunti, pillole di varia natura per gli acciacchi dell’età, ed ogni sorta di prodotto da tabacco esistente, dalle pipe, alle sigarette con e senza filtro. Nella variante invernale, troviamo anche il fido fiaschetto di whisky per resistere alle rigidità della stagione.
L’approdo sulle pagine di Repubblica, che negli anni Ottanta non esce il lunedì, toglie un po’ della poesia di quel rito. Brera ne soffre in parte, non potendo affidare le sue cronache alla trance letteraria, che la consegna immediata del pezzo impone, e togliendo di conseguenza una parte di quello sprint che caratterizzava i suoi resoconti. Si accontenta comunque di scrivere tutte le settimane il pezzo riassuntivo sulla giornata di campionato, ed affida la sua vena critica all’immediatezza del mezzo televisivo, prima nelle ospitate alla Domenica Sportiva, poi al processo biscardiano e alle TV locali lombarde.
Rimane però intatta, anche con il passare degli anni, la sua autorevolezza. Brera vive ed opera abbastanza per scrivere dell’ascesa del Milan di Sacchi, che per primo rompe gli schemi del gioco all’italiana, esportando un modello di calcio propositivo che mai prima d’ora s’era visto sul rettangolo di gioco. Definisce quella squadra come impostata sull’”eretismo podistico”, imposto dal pressing asfissiante, e non manca di far notare come quella schiera di campioni abbia vinto meno in campo nazionale di quanto fosse lecito attendersi. Ha appena il tempo di vedere quella stessa squadra, impostata da Fabio Capello su concezioni più solide e quadrate, dominare il campionato senza sconfitte.
Non riuscirà a vedere i successivi tre scudetti in quattro anni che suonano quasi a conferma della sua teoria. L’età avanzata e l’avvicinarsi delle feste gli consigliano di schivare la noiosa trasferta della nazionale, impegnata nelle qualificazioni ai mondiali del 94 sul campetto della modesta selezione di Malta. Dopo la sua classica cena del giovedì, con gli amici di sempre, la Fiesta su cui siede al posto passeggero viene centrata da un’auto che accorre in senso opposto, diventando il carro di fuoco degno della sua allegoria funebre.
Abbiamo appena scavallato il quarto di secolo senza Gianni Brera. Ha portato la cronaca e la critica sportiva ad assumere una dignità mai vista prima. Chiunque legga appassionatamente una rivista di cultura sportiva, lo deve in qualche maniera alla forza con cui le mitraglianti dita breriane hanno picchiettato i tasti una Olivetti Lettera 62, lanciando cartelle di giornalismo sportivo a sfondare il muro dei preconcetti culturali, astrusi e sorpassati. Per ricordarlo dobbiamo affidarci ad un neologismo inventato per l’occasione. In qualche maniera, per dirla con Gianni Mura, siamo tutti dei “senzabrera”.