Ritratti
28 Marzo 2023

Gianni Minà, tra la Storia e il mito

Le parole più vere si mostrano a luci spente.

Amare un mestiere al punto di immergervisi fino in fondo: perlustrare i bassifondi, ficcarsi in situazioni assurde e disperate, affidarsi all’istinto e al fiuto del cronista di razza, rimanere neutrale pur essendo irrimediabilmente partigiano, e, soprattutto, mai chinare la testa di fronte a qualunque elemento ostile cerchi di ostacolare il tuo cammino, frapponendosi fra te e il tuo scopo. Sì, questa è l’unica regola mai infranta da quel gigante del giornalismo che è stato Gianni Minà. Una regola che si è dato da solo, naturalmente.

E non è un caso che fra le innumerevoli grandi passioni del reporter spicchino la boxe e la musica: la noble art lo conduceva negli spogliatoi, dove l’odore di canfora e sudore si mescolava con quello della sconfitta di quelli che lui definiva “danzatori tristi”, che solo in un quadrato recintato potevano scappare dalle sconfitte che la vita aveva o avrebbe inevitabilmente dato loro. E la musica, per il suo potere magico con la quale sa essere violentissima senza fare violenza, racconta storie ora meravigliose, ora tristi, ma sempre vere, e giunge immancabilmente al cuore di chi sa ascoltare.

Era nato a Torino, ma si potrebbe pensare a uno degli scherzi del Caso: perché era un uomo talmente libero da non poter avere una sola bandiera, una sola patria, e per questo sapeva scegliere quali battaglie combattere, quali cause abbracciare, a quali voci fare da cassa di risonanza. Si vantava di sapersi guadagnare senza sforzo la fiducia delle persone, forse per la sua indole rispettosa e un po’ timida, forse per il suo aspetto pacioso: e doveva essere per forza vero, considerato che nella sua ultradecennale carriera aveva infilato una collezione di colpacci da far impallidire i pennivendoli che oggi infestano le redazioni di testate gloriose oramai ridotte a veline gossipare alla ricerca di interazioni.

Gianni Minà foto
Una foto che oggi sta rimbalzando ovunque: anzi, LA foto. Come la riassumeva lui “la summa del mio modo di essere”

Fra i primi scoop una intervista esclusiva a Zatopek, la Locomotiva Umana che seminava con la medesima facilità avversari e giornalisti, ma si fece conquistare dalla curiosità di Minà per il lato umano dell’atleta, raccontato come persona e non come mera macchina da medaglie. Molti avrebbero saputo raccontare la falcata elegante e potente con cui Tommie Smith divorava pista e rivali per vincere l’oro nei 200 metri a Città del Messico 1968, solo Gianni seppe ascoltarne e decifrarne il disagio della lotta a un razzismo all’epoca dominante che lo avrebbe portato a una protesta clamorosa, e lo condusse contemporaneamente nella Storia e nell’oblio della cronaca.

Ma anche a un’amicizia sopravvissuta negli anni.

O l’intervista a Muhammad Ali, che concesse come un sovrano annoiato un colloquio a un cronista che credeva fosse come tutti gli altri (“shit men” li chiamava The Greatest); gente che voleva imporgli come vivere e come pensare, e che gli poneva domande per criticare e non per capire: ma poi capì di essersi sbagliato e promise che “la prossima volta” si sarebbe aperto di più. Quella prossima volta sarebbe diventata un’amicizia eterna, intima, tanto da concedere l’esclusiva a lui, e lui solo, prima del vittorioso match contro Spinks che lo avrebbe incoronato per la terza volta campione del mondo dei massimi.

Ma lo sport non poteva bastare a calmare l’inquietudine di vivere e raccontare di un uomo per il quale i confini erano solo linee scritte su un pezzo di carta: nel corso di una vita rocambolesca, grazie al suo spirito e alla sua faccia tosta, aveva anche avuto modo di fare da chauffeur ai Beatles sulla Seicento di suo fratello per portarli a far bisboccia al Piper, dopo aver seguito in esclusiva la loro tournée italica – ovviamente nel tragitto cambiarono idea e finirono al Club84, dove tirarono l’alba fra reciproche confidenze.

O quando sfruttò le capacità linguistiche della prima moglie Georgina per noleggiare a prezzo di favore un elicottero e, da corrispondente spiantato, recarsi sull’Isola di Wight per girare quel capolavoro di documentario di “Europa pop e folk”, che avrebbe venduto alla Rai facendo conoscenza per la prima volta con le strette maglie della censura, quella volta dribblata con un guizzo elegante della sua parlantina. Da lui si fecero intervistare leader amatissimi dala gente come papa Wojtila e Pertini, e proprio il presidente del Mundial 82 sarà la testa di ponte decisiva per strappare una esclusiva a Gabo Marquez.



Era capitato infatti che l’autore di Cent’anni di Solitudine avesse barattato la sua disponibilità con la possibilità di interloquire con Pertini: Minà ottenne uno scoop memorabile grazie ai suoi buoni uffici con il Presidente, realizzando un’intervista memorabile insieme a Enzo Biagi con il rocambolesco escamotage di far ricevere Garcìa Marquez dal segretario generale Maccanico, per evitare l’incidente diplomatico con la Colombia. Biagi, altro fuoriclasse del giornalismo, fu talmente riconoscente a Minà da aspettare che Gianni diffondesse il suo servizio al telegiornale prima di inviare il suo pezzo al Corriere della Sera, di cui era allora inviato:

«questa era l’etica dei giornalisti di allora, oggi ti avrebbero fregato il pezzo!”,

commentò anni dopo Gianni nella sua biografia, con una punta nemmeno tanto velata di amarezza. O il colpaccio con Fidel Castro, intercettato una prima volta negli spogliatoi dell’incontro di Teofilo Stevenson, il più grande pugile cubano di tutti i tempi, perché aveva imparato dagli esordi come giornalista della carta stampata, con Ghirelli, a «uscire poco prima che la partita di calcio o l’incontro di pugilato sia terminato e anticipare tutti negli spogliatoi. In fondo anche per la vita è così». Perché

«Le frasi più interessanti, le parole più vere, il viso delle persone, si mostrano a luci spente. Quello che accade in superficie lo vedono tutti, non c’è quasi niente da raccontare. È sotto la punta dell’iceberg che bisogna mettere la testa.”

Storia di un boxeur latino, Gianni Minà

Ma Gianni Minà è stato soprattutto un uomo capace di affezionarsi ai ribelli, ai derelitti, a chi sembrava aver dipinto su di sé un destino di sconfitta, o a chi mordeva la polvere dopo aver vissuto gli splendori della gloria: amico e confidente di Maradona al punto di esser stato il migliore a capire e raccontare i demoni che lo perseguitavano, senza sconti, con l’animo di chi voleva aprire il sipario sul dramma di un uomo che chiede aiuto perché non sa replicare, nella vita reale, le magie che gli consentivano miracoli sotto i riflettori degli stadi.



A lui solo, nei giorni amari seguiti al dramma di Madonna di Campiglio, si concesse un Pantani che stava per imboccare la spericolata discesa agli inferi che lo avrebbe condotto alla morte. E questa miracolosa capacità di empatia lo aveva portato ad avere il privilegio di raccontare tutti gli avvenimenti epocali del XX secolo, con le sue memorabili interviste che sembravano quattro chiacchiere fra amici, perché in fondo lo erano, si fosse in uno studio televisivo o si requisisse i locali di una trattoria per una cena di durata imprecisata.

Dalla memorabile libagione fra Rocco e Brera, che aveva portato a un reportage irripetibile fra due pesi massimi del calcio italiano di ogni epoca, alle chiacchierate con Vinicius de Moraes e Ungaretti, passando per le interviste a veri e propri monumenti come Dizzy Gillespie, alla cui casa il cameraman di Minà quasi diede fuoco, e a Robert De Niro, Rigoberta Menchù, Celentano. La capacità di sperimentare in tutti i campi, che lo portò al successo nella carta stampata e in televisione (un nome per tutti: Blitz, ma anche “L’altra domenica” lo vede fra le teste pensanti).

La voglia di non mollare mai, condannandosi anche a una vita di precariato, a vivere alla giornata, a dormire nei bivacchi, con le stelle come tetto, a osare, a rischiare contro i potentati, come quando diede voce al tecnico ribelle per eccellenza dell’atletica italiana, Sandro Donati. Il coraggio di fare domande scomode all’ammiraglio Lacoste, quando bastava un niente a farti entrare nelle fila dei desaparecidos, per ricevere in cambio un ostracismo inevitabile da appuntarsi come medaglia sul petto. E il coraggio ancor più grande di assecondare la propria passione col rischio di sacrificare al mestiere la famiglia riuscendo però a crearsene altre in ogni angolo del mondo, a trovare casa in ogni albergo o locanda.

A ricevere premi meritati e beccarsi l’inevitabile ostracismo di chi non sopporta chi abbia e manifesti un pensiero indipendente.

E Minà si era fermato, a riflettere, a rimettere ordine nei ricordi di una vita picaresca, per non dimenticare esperienze di vita che, a elencarle tutte, ti sembra impossibile appartengano a una sola esistenza. Ma era solo un trucco, l’ennesimo di quello che è stato forse l’ultimo dei cronisti di razza, che, curiosamente, si chiamava Gianni come gli altri due monumenti del giornalismo italiano, Mura e Brera, bisillabi, ché nella brevità sta la perfezione e l’immediatezza delle cose.

Per certi versi, pur partendo dal racconto della realtà, è stato una sorta di Galeano italiano, capace di trascinarti in un mondo onirico con i suoi servizi che sapevano essere evocativi tanto quanto erano precisi e impeccabili: e agli occhi di chi tanto ha amato le sue opere, Gianni Minà non è affatto morto. È semplicemente partito per un altro reportage, per svelare un altro mistero, per raccontare un’altra storia. Con il suo stile inconfodibile, e il suo mondo irripetibile.

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