Gianni Mura nasce a Milano il 9 ottobre 1945. Appassionato di medicina, archeologia e musica, si affaccia al mondo del giornalismo sportivo non ancora ventenne. Ha iniziato a La Gazzetta dello Sport, anche se il quotidiano al quale è più legato rimane La Repubblica. Ha scritto anche per L’Occhio, Epoca, Il Corriere dell’Informazione. Le sue rubriche, sportive ma anche culinarie, hanno fatto la storia del giornalismo italiano e sono innumerevoli, così come i premi che gli sono stati conferiti durante tutta la carriera. Autore, tra l’altro, di due romanzi (Giallo su giallo e Ischia), Gianni Mura è a tutti gli effetti uno dei più importanti giornalisti sportivi del secondo Novecento.
Allora, partirei dal presente: di cosa si occupa oggi Gianni Mura?
90% sport, 10% ristoranti.
Ciclismo e calcio sono i due sport che ha sempre seguito: tra i due, dopo decenni di onorato servizio, quale preferisce e perché?
Attualmente il ciclismo, senza dubbio. Per un periodo si sono contesi lo scettro di sport da me preferito, ma alla lunga il ciclismo ha prevalso per una serie di motivi: per i paesaggi che attraversa, per la possibilità di spaziare che regala alla scrittura, soprattutto perché almeno nelle corse a tappe si corre giorno dopo giorno e quindi le critiche di qualsiasi genere vengono azzerate. C’è subito la chance di rifarsi, di vendicarsi, di dare battaglia. E, al di là dell’aspetto meramente lavorativo, mi appassionano anche pallavolo e atletica leggera.
Quando entrò in Gazzetta, quindi oltre cinquant’anni fa, cosa si aspettava e come immaginava questo mondo?
Avrei di gran lunga preferito Il Corriere della Sera, non lo nego. L’occasione che La Gazzetta dello Sport mi stava dando in quel momento la vedevo come una buona gavetta che mi sarebbe tornata utile più avanti. Sicuramente non pensavo di diventare Gianni Mura: non che non ci credessi, attenzione, è che non mi interessava minimamente, non me ne curavo. Mi davo da fare per scrivere meglio possibile e basta.
La mia carriera universitaria durò due mesi, mi resi conto che avrei imparato più sul campo che in cinque anni di esami. E alla fine mi affezionai all’ambiente, alla vita di redazione, all’archivio. Venivo pagato per scrivere e a me sembrava un sogno perché avrei scritto anche gratis, sui muri. Ho avuto la fortuna di vivere un’epoca d’oro del giornalismo italiano, piena di grandi maestri che insegnavano volentieri il mestiere. Di quei giorni conservo ricordi bellissimi.
Il suo percorso come giornalista nasce da liceale, quando viene segnalato per la spiccata capacità nello scrivere bene: con la scuola di oggi, sarebbe ancora possibile?
A malincuore, no. Anzi, direi che è vivamente sconsigliato. C’è un analfabetismo di ritorno pazzesco. Nel giornalismo, ad esempio, è scomparsa la figura del correttore di bozze e io lo trovo profondamente sbagliato.
Cos’ha significato, per lei, raccontare sport in un certo modo all’interno di un quotidiano e quindi “spalla a spalla” con tematiche politiche, economiche, sociali? E’ stato un percorso tortuoso?
Allora, prima di tutto si è rivelata azzeccata la linea che decisi di adottare quand’ero ancora alle prime armi: piedi per terra, chi vince non è una divinità, lo sport è importante ma è soltanto una parte del tutto e della nostra vita. Ritornando alla domanda: da parte mia, non c’è mai stato nessun complesso di inferiorità. E questo è dovuto alle esperienze extrasportive che ho maturato nel corso degli anni, ad esempio a Epoca. Quando si parla di carta stampata, le ho fatte tutte. Quindi, per concludere, direi che non ho sofferto questa convivenza.
Come veniva considerato, dal lettore, il giornalista sportivo cinquant’anni fa e come viene considerato oggi?
Prima era tutto più semplice. E anche valido, credo. Ogni quotidiano aveva le sue firme di prestigio, personaggi famosi e dai contenuti importanti. E noi giornalisti eravamo davvero l’unico tramite esistente tra gli sportivi e l’opinione pubblica. Adesso c’è questa competizione coi social: siamo arrivati al punto che tanti del settore scrivono in un certo modo proprio per accontentare questo pubblico, di modo che risparmi loro il massacro.
Oggi, il più bravo è il più veloce, e una bella fetta di colpa da questo punto di vista ce l’hanno i siti dei giornali. È una lotta sul filo dei secondi. E chi se ne frega se nella notizia si trova scritto “anno scorso” con l’h: è stato il più veloce, quindi va bene così.
Che rapporto ha con la tecnologia e con la televisione, tanto da fruitore quanto da ospite (nel caso della seconda ovviamente)?
Non sono un mostro televisivo, me ne rendo conto. Nemmeno per la radio, a dir la verità, ma tra le due la preferisco. Proprio per questi motivi, mi rintano nel mio cantuccio e scrivo. Non voglio e non m’interessa fare la vergine immacolata: in televisione qualche volta ci sono stato. Solo in alcuni programmi, però. Dove c’è la possibilità di parlare, senza assilli, ricordando magari qualche episodio del passato. La maggior parte di quelli odierni, invece, punta a far contento il tifoso. E a me non sta bene, quindi non ci vado.
Per quanto riguarda la tecnologia, sono davvero poco pratico. Quando si parla di social network e web, penso soltanto a una cosa, che poi è una speranza: che la rivoluzione tecnologica non finisca per rivoluzionare anche il modo di pensare di chi scrive. Sarei contento se andasse così, mi basterebbe.
Il fatto che il web abbia esteso la possibilità di improvvisarsi giornalisti è necessariamente un male?
Assolutamente no, ma tendenzialmente sì. Mi spiego. Molti ragazzi, più o meno giovani, mi fanno avere dei loro pezzi: per un consiglio, magari un parere. E alcuni di loro sono davvero bravi. Una cosa, però, va detta: scrivere un qualcosa dal salotto di casa non significa, sempre, fare giornalismo o essere giornalisti. Se mi faccio un uovo al tegamino, non è detto che sia uno chef. Il problema, secondo me, è che tutti vogliono essere qualcuno o qualcos’altro, e invece va a finire che nessuno è nessuno.
Come valuta il giornalismo sportivo italiano su carta, ad oggi?
In generale, la tendenza mi sembra quella di scrivere per la curva dello stadio: poca, pochissima critica e invece tanta pancia, enfasi. Quando, il lunedì mattina, vado a comprare il giornale, vorrei che qualcuno mi spiegasse perché tizio ha vinto e caio ha perso senza dover obbligatoriamente tirare in ballo l’arbitro, e al di là della cronaca dell’evento. Rispetto a qualche decennio fa, direi che il servizio è notevolmente peggiorato.
Dove si parlerà di sport, che sia ciclismo o calcio, tra vent’anni?
Mi auguro sulla carta stampata, ma ne dubito fortemente. Dal mio punto di vista, bisognerebbe ripensare il modo di fare giornali. Una rivoluzione delle menti pensanti, ecco. Io, ad esempio, eliminerei una buona parte della politica che appesantisce diverse pagine della prima parte di ogni quotidiano. Più inchieste e report, per dirne una, sarebbe già qualcosa. Più fuori che dentro alla redazione, ecco. Quando avviai io, i direttori mandavano in giro a consumarsi le suole delle scarpe e guai a tornare senza una storia. Oggi, invece, sono soltanto gli occhi e i polpastrelli a consumarsi. Non serve l’eccezionalità a tutti i costi e il lettore vuole sentirsi civilmente rappresentato.
In un’intervista racconta che la critica avanzata più volte nei suoi confronti è stata quella della esagerata moralità. Mi viene in mente l’episodio che pochi mesi fa vide coinvolto Nainggolan e quel famoso video che postò sui social.
Ora, indignarsi ed ergersi a professori o maestri è altrettanto deprecabile: ma com’è possibile che sport ed etica/morale siano attualmente così divisi? Come si è arrivati a questo? Perché la normalità fino a qualche decennio fa era incarnata (o si avvicinava molto) da modelli come Zoff e Scirea mentre oggi si lascia passare tutto come se niente fosse?
Nainggolan bel giocatore, peraltro, ma personalmente andrei a cena fuori con Zoff e Scirea tutta la vita. Le cause sono tante: le regole ci sono ma vengono vilipese, per i furbi conta soltanto vincere e quindi tutto è lecito, se fai notare qualcosa del genere ti etichettano subito come moralista e buonista. Nonostante l’età, mi stupisco ancora quando leggo notizie del tipo: killer uccide tre persone e poi chiede scusa alle vittime.
Cosa vuol dire tutto questo? Uno chiede scusa se calpesta un prato, in situazioni del genere uno deve appellarsi al perdono, e forse nemmeno basta. C’è una realtà distorta e pericolosa, direi. Prima venivano considerati di più anche gli sconfitti e le vittime, per dirne un’altra. Delle accuse di moralismo, sinceramente me ne frego. Io uno sportivo lo giudico anche in base a quello, è un aspetto che va di pari passo con la prestazione. Altrimenti, in base a cosa dovrei giudicarlo? Al taglio di capelli?
Cos’è il Tour de France con una metafora.
Per i francesi è la festa di luglio. Per me è l’avventura di un mese, l’esperienza che più di ogni altra si avvicina alla chanson de geste.
Cosa manca al Giro d’Italia per colmare questo famoso gap nei confronti del Tour? E’ così importante colmarlo?
Il Giro d’Italia è già bello di suo e non dovrebbe curarsi così tanto del Tour de France, che continuerà ad essere più importante e grande perché è nato prima e grazie all’abilità dei francesi nel saper vendere meglio il loro prodotto. Quella al gigantismo è una corsa senza senso, puramente economica peraltro. E non c’è da stupirsi se nei prossimi anni questi eventi partiranno da Pechino o Washington, tanto con gli aerei che ci sono oggi… E io li boicotterò finché non arriveranno in Francia e Italia, anche se mi daranno ancora del moralista.
Se non avesse avuto il calendario calcistico da rispettare, avrebbe seguito anche le classiche e il Giro?
Certo, quando ero più giovane e libero da obblighi calcistici seguivo classiche, Giro, Tour e Vuelta. L’età anagrafica, adesso, non mi viene in contro; e poi a maggio ho ancora il campionato, la Champions League. Non è che il Giro mi stia sulle palle, è che in quel mese devo necessariamente seguire altri eventi. L’unico mese libero è luglio, e io lo passo al Tour de France.
Tre nomi: Sagan, Aru e Nibali. Che idea ha su questi atleti e personaggi, estremamente diversi l’uno dall’altro ma molto particolari?
Sagan non assomiglia a nessun altro ed è un gran campione: lo dimostra il fatto che il Tour dello scorso anno, dopo la sua ingiusta squalifica, ha perso molto. Nibali merita rispetto, se l’è conquistato sulla strada. Vince poco ma vince benissimo, mi piace perché inventa la corsa senza affidarsi particolarmente a radiolina e ammiraglia. Una prolunga del vecchio ciclismo, aggiungerei. Aru, intanto, è una novità perché un sardo non era mai arrivato a questi livelli: discorso da estendere anche a Nibali, ovviamente, e questo dà un’idea di come la geografia del ciclismo sia cambiata. Gli manca ancora qualcosa, però: a volte è lui, a volte la squadra. E’ un bel corridore, fermo a cronometro ma capace di scatti interessanti in salita: deve centrare quel successo che lo elevi a campione.
L’Italia, dal secondo dopoguerra fino al termine o quasi del millennio scorso, ha potuto contare su artisti, intellettuali, giornalisti, cantautori e se vogliamo anche politici di grande spessore e rilevanza. A cos’era dovuta questa abbondanza di talento, unicità e carisma, secondo lei?
Dal punto di vista ciclistico, si potrebbe dire che l’Italia aveva molti corridori forti. Penso agli anni sessanta: Adorni, Gimondi, Motta, Zilioli, Bitossi, Taccone, e altri ancora, gente che vinceva tanto al Giro quanto al Tour. Quasi ogni regione aveva il suo, per dire. In generale, erano tempi diversi sotto tutti i punti di vista. Benessere, stimoli, ma anche l’educazione impartita dai genitori e il recente passato ancora fresco: tanti sono stati figli della guerra, e qualcosa comunque rimane e condiziona gli eventi futuri.
Come si può fare del buon giornalismo (sportivo ma non solo) in un Paese in crisi (economica, politica, identitaria) come l’Italia di oggi?
Le condizioni attuali influiscono eccome, ci mancherebbe, però è bene che si sappia che si potrebbe fare del buon giornalismo anche in un contesto peggiore dell’attuale. Linguaggio e sensibilità, ad esempio, sono due caratteristiche fondamentali che un giornalista che si reputa tale non può non avere: mi sembra siano senza tempo, già questo potrebbe e dovrebbe essere un inizio.
Lo sport, nonostante sia forse più seguito ora rispetto a qualche decennio fa, dà l’impressione di essere solo un bellissimo spettacolo ma niente di veramente rilevante a livello sociale: è una verità?
Lo vediamo tutti i giorni, ormai. Nel dopoguerra, ciclismo e pugilato erano gli sport più seguiti e venivano considerati da poveri. Oggi, per quanto pedalare a quei livelli sia duro e pericoloso, non è più da poveri. I ciclisti, decenni fa, si facevano intervistare e fotografare nelle camere d’albergo, in vasca, con i figli: ora invece si godono il loro esilio dorato nei bus ed escono già bardati, riconoscibili soltanto dal numero che hanno sulla schiena. I tempi sono cambiati e con loro l’Italia. E non lamentiamoci: il ciclismo, basta vedere le strade quando passa il Giro o il Tour, si difende ancora piuttosto bene.
Il giornalismo è un mestiere o anche uno stile di vita?
Quando iniziai, lo vedevo come una forma di artigianato, un qualcosa che si fa con le mani, un po’ come il calzolaio o il vasaio. Ergerlo a metafora di vita mi sembra esagerato, però gli va riconosciuto un certo peso: chi fa questo lavoro può potenzialmente rovinare delle esistenze. Richiede molta responsabilità, questo sì. Più che un medico, direi che un giornalista può ambire ad essere un buon infermiere.
Chris Froome spezza il tempo in due, prima e dopo il Colle delle Finestre, prima e dopo il 25 maggio 2018. Con un gesto di 82km ha distrutto il ciclismo che lui stesso ha contribuito a creare.
Firma nobile del giornalismo italiano (e non solo sportivo), Roberto Beccantini è il giornalista-tifoso più imparziale che conosciamo. Tifoso dai tempi di Sivori, per via dei calzettoni abbassati e del genio fumantino; imparziale, perché – sue parole – sincero col lettore.