Vincere, morire, risorgere.
Dopo la sconfitta per 1-0 contro il Costa Rica il sogno nipponico sembrava essere sfumato. La Germania, a rischio l’eliminazione già al termine del secondo turno, aveva tirato un enorme respiro di sollievo, scacciando i fantasmi di una seconda eliminazione consecutiva ai gironi mondiali: le bastava battere l’abbordabilissimo Costa Rica e che il Giappone perdesse con la Spagna; o addirittura vincere con due gol di scarto e accontentarsi del pareggio spagnolo. Nessuno, alla vigilia della sfida con la Spagna – la stessa Spagna capace di fare 7 gol al Costa Rica, a cui il Giappone non era riuscito a farne neanche uno – credeva più negli asiatici: a partire dai quotisti, che pagavano la loro vittoria sette volte la posta.
Nessuno eccetto il popolo, la squadra e l’allenatore giapponese.
È per questo che i Mondiali sono la più bella competizione del mondo: perché nei campionati del mondo regnano ancora altre logiche, logiche antiche che trascendono il rettangolo di gioco; che alterano il calcolo, i valori in campo, inserendo variabili meta-fisiche (nel senso che vanno oltre la fisica stretta del gioco) e incontrollabili. Lo ha detto anche Luis Enrique al termine della gara, “ai Mondiali può succedere”, aggiungendo: «Abbiamo avuto 5 minuti in cui abbiamo perso totalmente il controllo, 5 minuti di vero panico e ho la sensazione che se il Giappone avesse avuto bisogno di segnare altri due gol ce li avrebbe segnati (…) Ci hanno superato come aeroplani». Cinque minuti irrazionali, in cui si è manifestato lo spirito giapponese.
Cose, appunto, che in un Mondiale possono succedere. Non si tratta solo di valori tecnici, tattici o fisici, ma dell’orgoglio di formazioni “nazionali”, che scendono in campo con l’onere e l’onore di rappresentare milioni di persone. È questo che spiega le vittorie giapponesi con Germania e Spagna, quella saudita contro l’Argentina, quella iraniana con il Galles e così via. Ci ricordiamo, in queste partite, come mai ci siamo innamorati del calcio e perché questo sia il gioco più bello del mondo: perché non è solo un gioco, chiaramente. È identità, politica, territorio, mistica. Cultura, nel senso proprio del termine. Perché a un certo punto ieri sera stavano passando Giappone e Costa Rica, lasciando a casa Germania e Spagna, e noi eravamo tornati bambini.
I Mondiali sono la più bella competizione del mondo perché, qui, il peso della variabile umana sposta clamorosamente il risultato. Diciamocelo, purtroppo la storia sta dando ragione ai maniaci del controllo e ai nerd del calcio, almeno nei campionati nazionali: approfittando del tramonto dell’epoca degli “uomini prima che calciatori”, uomini di carattere che con il carattere indirizzavano le partite, i più bravi e cerebrali degli allenatori – lo stesso Luis Enrique, un tecnico straordinario, così come Guardiola, Nagelsmann e molti altri – riescono a limitare il peso delle variabili (anche umane), a vincere la propria guerra totale contro la contingenza, a pianificare ogni dettaglio e trasferire in campo la partita che hanno nella propria testa.
Ma quand’è che perdono? Quando perdono il controllo. Quando ci si mettono la fortuna, la sfortuna, il carattere, gli uomini; quando le partite sfuggono alla razionalità e diventano incontrollabili, trascendono il terreno di gioco, si caricano di implicazioni psicologiche e nervose; quando magari interviene il pubblico, o le squadre avversarie si esaltano per un episodio riuscendo a spezzare e ribaltare il copione della partita. Come l’anno scorso, con il City che dominò il doppio confronto con il Real Madrid in Champions e uscì per la mistica del Bernabeu, subendo due gol in due minuti a partita pressoché finita e andando poi letteralmente nel pallone ai supplementari.
Gli stessi minuti di ieri (stavolta quattro) “incontrollabili, di vero panico”, in cui “il Giappone poteva fare altri due gol”, parola di Luis Enrique.
Nei Mondiali queste cose succedono più spesso perché i Mondiali hanno le loro leggi, ancora nazionali. Perché c’è un intero popolo dietro a un singolo giocatore, e processi del genere si innescano addirittura nella Coppa Davis e in uno sport individuale come il tennis – basta guardare Fognini, che appena indossa la maglietta azzurra sveste i suoi panni di Balotelli del tennis e si trasforma in un guerriero che non molla una palla. Figuriamoci per le Nazionali calcistiche, in cui undici giocatori per 90 minuti rappresentano popoli (ri)uniti: giocatori che a tratti sembrano quasi posseduti, indemoniati, spinti da una forza più grande – come i Sauditi con l’Argentina, capaci di picchi tecnici e atletici assolutamente inspiegabili per il loro valore.
Partite del genere, le stesse partite che spiegano perché a qualsiasi latitudine si finisca pazzi per il calcio, non possono allora essere interpretate con le statistiche, le heat maps, gli expected goals, la tattica e nemmeno la tecnica. Perché il Giappone ha vinto ieri sera con il 18% di possesso palla, e si è assicurato il primato nel girone con un possesso palla medio del 32,1%: una cosa mai successa nella storia dei Mondiali da quando si raccolgono le statistiche. E anche gli altri dati, grazie a Dio, non possono spiegare il percorso assurdo e illogico, anti-logico addirittura, dei nipponici: la vittoria con la Germania, il suicidio con il Costa Rica e la resurrezione con la Spagna. Hanno flirtato con la morte (sportiva), l’hanno beffata e infine hanno vinto.
Oggi allora i giornali scrivono giustamente di Doan, che ha spaccato e ribaltato il match per la seconda volta dopo averlo fatto già con la Germania; e di una squadra che ha “realizzato il piano dell’allenatore”, come detto da Kubo: resistere nel primo tempo e colpire nel secondo. Ma non sono più in grado di spiegare perché questo accada. Nel calcio si sta perdendo la capacità, e la volontà, di spiegare cosa ci sia dietro questi fatti: per una partita del genere Gianni Brera, grande sostenitore dei caratteri nazionali nel pallone, avrebbe esaltato lo spirito eroico e il sacrificio dei giapponesi prima di qualsiasi altra cosa.
Oggi invece i commentatori del football, non più cantori e poeti, come accadeva fino a vent’anni fa e come accade ancora in Sudamerica, si sono trasformati in analisti senza fantasia. In matematici della sfera e compilatori di tabellini.
I Mondiali, però, rimettono in moto la storia, riesumano l’epica. Nel periodo in cui diverse nazionali non sono più espressione delle loro Nazioni, come la Germania, che gioca come un club e di calcisticamente tedesco non ha più nulla, tante altre squadre rispecchiano ancora il loro carattere nazionale. Come il Giappone, che ha portato sul campo tutta la sua disciplina, la sua sofferenza, la sua disposizione al sacrificio: stoica direbbe qualcuno, giapponese diciamo noi. Ma come tante altre rappresentative, a partire dalle sudamericane (il Brasile, l’Argentina e l’Uruguay sono ancora tipicamente “nazionali”) e poi le africane, le asiatiche.
Pure in Europa capita: la stessa Spagna gioca un calcio, piaccia o meno (a chi scrive meno) spagnolo; e l’Olanda ha sempre giocato un calcio olandese (almeno fino a questi Mondiali, in cui Van Gaal l’ha “italianizzata”); altre, la Germania come l’Inghilterra, non sono più calcisticamente riconoscibili. Il bello dei Mondiali è però proprio questo: che tolte alcune eccezioni, e nell’epoca umana in cui più forte è l’omologazione, in campo scendono ancora i caratteri nazionali.
È meraviglioso – nel senso letterale del termine, anche qui – che i gol più belli arrivino dai brasiliani, che la grinta arrivi dagli uruguaiani, che la disciplina arrivi dai giapponesi. E che il Giappone vinca da Giappone, battendo una Spagna che perde da Spagna: con il 18% di possesso palla contro l’82%, e soprattutto con un sacrificio ordinato e disciplinato, espressione stessa di un popolo. Partite che ci ricordano, anche nel calcio, che i popoli esistono ancora: e allora lunga vita alle Nazion(al)i, lunga vita ai popoli, lunga vita alle differenze.