Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco: il “giochismo” è un concetto astratto e non del tutto dimostrabile. Non esiste un allenatore che abbia come obiettivo quello di far giocare bene la sua squadra per un semplice gusto di estetica. Per un tecnico la bellezza è l’efficacia: essere efficaci in ogni fase rappresenta la chiave per raggiungere l’equilibrio. È l’equilibrio l’eldorado di ogni allenatore.
Il dibattito tra “giochisti” e “risultatisti” ha riempito le pagine dei giornali e dominato i salotti televisivi italici. Per anni si è parlato della Juventus di Allegri: efficace e vincente ma non bella. La discussione è viva ancora oggi: i bianconeri hanno provato a calarsi in una dimensione “giochista”, prima con Sarri e poi con Pirlo. Se il sarrismo è uscito ridimensionato dall’avventura sulla panchina della Vecchia Signora, sull’operato del Maestro sarà il tempo ad emettere la sentenza definitiva.
Il giochismo ha bussato anche alle porte di Appiano Gentile. L’Inter di Conte sembra aver ritrovato la quadra dopo un avvio di stagione complicato. Con le vittorie su Sassuolo, Borussia Mönchengladbach e Bologna, i nerazzurri si sono lasciati alle spalle il periodo più delicato della gestione Conte, culminato con la brutta sconfitta contro il Real Madrid. Il leit motiv della stagione interista è stato “imprimere qualità” al gioco attraverso concetti abusati dall’opinione pubblica: pressing alto e dominio del gioco con il possesso del pallone.
L’ex tecnico di Juve e Chelsea ha chiuso la prima annata in nerazzurro con un doppio secondo posto, in campionato ed Europa League. La società aveva indicato nella “qualità” l’ultimo passo da compiere per il definitivo salto in avanti della squadra. Tra le righe spuntava il nome di Christian Eriksen, l’uomo incaricato di prendere per mano l’Inter e condurla verso una dimensione più moderna.
In avvio di stagione Conte ha provato a cucire un nuovo abito addosso ai suoi. Accantonato il fedele 3-5-2, l’Inter ha optato per un trequartista dietro le punte Lukaku e Lautaro Martínez. Il più delle volte è toccato proprio ad Eriksen giocare tra le linee. Oltre al danese, l’Inter ha presentato altre novità rispetto alla scorsa stagione: una difesa a tre con due terzini (Kolarov e D’Ambrosio i più impiegati, complici anche le assenze causa Covid di Bastoni e Skriniar) e due esterni altissimi in fase di possesso (l’assetto con Perisic da una parte e Hakimi dall’altra è stato quello su cui ha più insistito Conte). Ma le novità non erano incentrate soltanto sul modulo, bensì su un atteggiamento che lasciava presagire la svolta “giochista” di Conte e dell’Inter.
Il processo di iniezione di qualità non è andato a buon fine. L’evanescente Eriksen è stato messo spesso da parte in favore di Nicolò Barella, dirottato sulla trequarti in una sorta di rivisitazione della versione “allegriana” di trequartista (Boateng al Milan, Vidal alla Juventus). Con il giochismo soltanto profetizzato, l’Inter di Conte ha raccolto appena una vittoria in otto gare tra campionato e Champions League.
Dopo la prova desolante contro la versione lite del Real, Conte ha rotto gli indugi: via i proclami, si torna all’antico. A bocciare il progetto ambizioso dei nerazzurri sono arrivate anche le dichiarazioni di Marotta su Eriksen, finito mestamente in panchina e ai margini del progetto. Il dirigente nerazzurro ha parlato dell’acquisto dell’ex Tottenham definendolo una semplice «occasione di mercato».
Conte ha basato il nuovo corso su alcuni aspetti. Primo fra tutti il dominio del gioco, inteso come possesso palla. Fino al pareggio contro il Parma, l’Inter aveva registrato una media superiore al 60% di possesso. Ora il dato è sceso al 40%. Ma non servono big data o nerd calcistici per intuire l’inversione di tendenza. L’Inter si proponeva di dominare il gioco ma non ne aveva le qualità. Il campo ha evidenziato la fragilità della “rivoluzione” nerazzurra. Se nelle prime partite stagionali sembrava solo un problema di tenuta difensiva, il tempo ha esteso le noie anche al reparto offensivo.
I nuovi concetti proposti da Conte hanno trasformato l’Inter in una difesa colabrodo. I nerazzurri hanno incassato undici gol in sette partite di campionato e sette in quattro di Champions. Una squadra che è sembrata snaturata rispetto ai mesi scorsi. La svolta offensiva ha privato l’Inter delle proprie certezze. Con il ritorno al 3-5-2 classico, la presenza di un centrocampista centrale a protezione dei tre dietro garantisce più copertura e libera le mezz’ali negli inserimenti verso l’area avversaria.
L’Inter è tornata a valorizzare la sua arma migliore per scalfire le barriere avversarie: la prima impostazione. La tendenza (che tendenza poi non è) è quella di partire da basso, direttamente dai piedi del portiere. I nerazzurri palleggiano bassi, sfruttando i miglioramenti con i piedi di Handanovic e le doti di palleggio dei vari De Vrij, Bastoni e Skriniar. Attirando il pressing degli avversari, l’Inter può uscire palla al piede e attaccare in campo largo, aggrappandosi alla velocità degli esterni ma soprattutto di Lukaku, inarrestabile quando morde la profondità. Già lo scorso anno l’uscita palla al piede dei nerazzurri aveva messo in difficoltà squadre come Barcellona e Borussia Dortmund in Champions.
Dopo la partita contro il Bologna, Conte ha ammesso: «Il problema è che a differenza degli altri paesi in Italia si gioca un calcio molto tattico. Alterniamo momenti di pressione alta a momenti di attesa e poi di aggressione sulla palla. Stiamo cercando questo tipo di equilibrio. La pressione alta dava dei frutti ma gli avversari ti studiano, si preparano e quando fai questo tipo di pressione è inevitabile che concedi qualcosa in più». Poi tocca il punto cruciale, ovvero l’equilibrio:
«La cosa migliore è che abbiamo trovato equilibrio. L’importante è che la squadra rimanga corta, sia nella propria metà campo che in quella avversaria».
L’Inter di Conte ha diviso a sua volta l’opinione pubblica. All’inizio della sua avventura ad Appiano, molti rimproveravano al tecnico la mancanza di un gioco moderno e l’insistenza sul 3-5-2 ma, più in generale, un atteggiamento accorto e di rimessa. Con l’evoluzione tattica soltanto accennata, Conte ha mostrato la vera natura dell’Inter: il giochismo non fa per i nerazzurri. Questione di qualità degli interpreti: nella classifica dei passaggi riusciti per squadra, l’Inter occupa la diciassettesima posizione. Qualcosa vorrà pur dire.
Ma il giochismo ha mietuto altre vittime. Pensiamo al Torino, che in estate ha scelto di ripartire da Marco Giampaolo. L’ex tecnico di Empoli e Samp, vuole riscattare la deludente parentesi sulla panchina del Milan. Il gioco e le qualità di Giampaolo sono fuori discussione. Lo è invece il nuovo corso impostato su una squadra come quella granata che, negli anni con Mazzarri, è stata abituata a compattarsi e a giocare di rimessa. Principi lontani dal credo di Giampaolo.
Con sei punti in nove partite, il Torino ha eguagliato la peggior partenza nella sua storia in Serie A nell’era dei tre punti. Nel derby contro la Juventus, i granata hanno assaporato per più di un’ora una vittoria che mancava da venticinque anni (tanti sono trascorsi dall’ultimo successo in casa dei bianconeri), salvo poi essere rimontati nel finale. Epilogo analogo a quanto accaduto contro l’Inter (avanti per 2-0 e rimontati sul 2-4). Dalla partita di San Siro Giampaolo ha rotto gli indugi mettendo da parte il 4-3-1-2 in favore del più collaudato 3-5-2. Anche qui non è questione di modulo ma di atteggiamento: il Toro è tornato a fare quello che sapeva, vale a dire compattarsi e giocare in transizione.
Nel primo tempo dell’Allianz Stadium il Torino ha chiuso tutti gli spazi alla Juventus, trincerandosi in una linea a cinque concedendo poche soluzioni ai bianconeri. I granata hanno consegnato il pallino del gioco agli avversari che, nonostante percentuali bulgare di possesso palla, hanno calciato per la prima volta in porta al quarantatreesimo del primo tempo; infine, Pirlo l’ha spuntata grazie a due palle inattive e ad altrettante disattenzioni dei difensori granata. Inevitabilmente Giampaolo sta pagando il poco tempo a disposizione (sosta ridotta tra la fine della scorsa stagione e l’inizio della nuova), oltre ad una campagna acquisti che non ha portato gli interpreti migliori per il suo calcio.
Discorso simile può essere fatto per il Parma. Dopo la sconfitta contro la Roma è arrivato un tweet eloquente del nuovo presidente Kyle Krause:
«In soli 3 mesi, abbiamo sperimentato una quantità straordinaria di cambiamenti. Nuovo allenatore, direttore sportivo, titolare, giocatori. Stiamo cambiando il modo in cui giochiamo. Non più 3-5-2, da qui in avanti attacchiamo».
I gialloblu, che in estate hanno salutato il “risultatista” D’Aversa in favore del “giochista” Liverani, navigano al quintultimo posto in classifica con appena due vittorie in dieci giornate. Il giochismo non ha ragione di esistere nemmeno in Emilia. Ma potremmo anche citare l’Udinese di Gotti, il quale ha dichiarato di doversi adattare e non poter esprimere il suo calcio ideale (studiato da e con Sarri). Risultato: squadra ritrovata e compattezza tra le migliori in Serie A.
Sempre più club italiani vengono attratti da una filosofia di gioco che il nostro calcio non può permettersi. Questione di qualità ma anche di cultura. L’eccezione è data da squadre come Atalanta, Sassuolo e Verona. Ma non parliamo di giochismo per Atalanta e soprattutto Verona, bensì di un calcio organizzato che tira fuori il meglio dai calciatori a disposizione. La vera bellezza sta proprio qui.