Intervista, a tutto tondo, a un'istituzione italiana del pallone.
“Non bisogna vivere di ricordi, ma vivere per costruire nuovi ricordi”. Così si è presentato Giorgio Perinetti nella sua nuova avventura da direttore tecnico dell’Us Avellino: un proposito che in realtà riassume tutta una carriera (di lungo e prestigioso corso), che inizia sui campi dilettantistici romani circa quarantacinque anni fa. Campi di terra, impolverati, preferiti ad esempio al luccicante mondo dello spettacolo, quello che già frequentavano i suoi amici e compagni di scuola Verdone e De Sica.
Perinetti infatti nasce a roma nel 1951, frequenta il liceo classico Torquato Tasso ed inizia la sua avventura sportiva in un piccolo club di nome Jacobini Sport. L’inizio di un lungo, lunghissimo cammino in cui scrive pagine importanti dello storia calcistica italiana. Dalla Roma al Napoli di Maradona, dal Palermo alla Juventus, senza dimenticare piazze come Siena, Venezia, Genoa, Bari, Brescia e adesso Avellino. Quarantacinque anni di esperienza sui manti erbosi di tutt’Italia.
Dai campi scintillanti (eufemismo) della Serie A a quelli sintetici e mal tenuti della Serie C, con un unico comune denominatore: la passione per il calcio. Perinetti sottolinea più volte quest’aspetto. La passione come motore primo per costruire nuovi ricordi, ogni giorno, senza limitarsi a vivere di ciò che è stato. Quello sarebbe per lui il punto di non ritorno: nello sport, sicuramente. Ma forse – per come l’ha sempre intesa – anche nella vita.
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Quando Perinetti ha capito avrebbe votato la sua vita al calcio?
Ero un gran appassionato di calcio come tutti i ragazzi della mia epoca. Giocare non mi usciva bene. Pur tentandoci, mi rendevo conto di non esser molto bravo, di avere poche possibilità di entrare in quel mondo dal manto erboso. Quindi iniziai ad andare allo stadio con un bloc-notes dove mi annotavo tutte le marcature che vedevo in campo. Andavo a vedere sia Roma che Lazio, entrambe le squadre. Pensate che il mio premio per la promozione scolastica fu un abbonamento ridotto per la Curva. All’epoca, quando andavo all’Olimpico, osservavo il tunnel da dove uscivano i calciatori e i dirigenti e mi dicevo che anch’io un giorno vorrei esser uno di quegli omini che escono dal sottopassaggio.
Da quel momento ho iniziato a pensare come realizzare quel sogno. Fu difficile, non avevo conosceze. Pensate che al Liceo ero in classe con Verdone e De Sica ma le mie attenzioni non erano al mondo dello spettacolo bensì solo ed esclusivamente allo sport. Allora decisi di rimboccarmi le maniche. Iniziai dalle giovanili, con la mia squadretta dell’epoca, la Jacobini Sport, e ottenemmo un risultato importante in un torneo giovanile. Quel successo ha catalizzato le attenzioni su di me, con alcuni dirigenti dell’epoca che erano incuriositi dalla mia persona. Passai subito alla Roma, iniziai così il mio percorso. Dal gradino più basso fino alla formazione giallorossa, era tutto come in un sogno.
Lei ha avuto la possibilità di lavorare e scoprire molti talenti del calcio italiano e mondiale. Di Maradona si è parlato tanto, e abbiamo letto anche di quando gli comunicò la squalifica per cocaina, ma in realtà, lei, che persona vedeva davanti a sé? Chi era Maradona per Perinetti?
Tutti quanto mettono in risalto questa vicenda. Dal punto di vista giornalistico è ovvio che attiri le attenzioni, ma dal mio punto di vista è una storia triste, per nulla affascinante. Mi viene ricordato sempre questo episodio. Si tratta di un momento doloroso della mia carriera. Dovevo comunicare al migliore giocatore del mondo che non avrebbe più giocato a calcio almeno per un lungo periodo. Per me Maradona è stata la sintesi del calcio. Sono cresciuto con tanti idoli da piccolo, come Sivori, ma Maradona era un Sivori al quadrato. Un mancino, con i calzettoni bassi e tanta fantasia.
Io sognavo Sivori ma Maradona era l’apoteosi, la sintesi del calcio. Era tecnica allo stato puro, passione, che si univano e davano vita ad uno spettacolo incredibile. Giocava a calcio come piace a me, con passione, trasporto, tenacia, non era un calcolatore: Maradona era il calcio alla massima espressione. Un qualcosa di unico che nemmeno in Messi trovi. Precisiamo, la pulce è un calciatore straordinario, non fraintendetemi, ma è robotizzato. Non ti comunica quell’esplosione di vitalità che invece Diego sapeva fare. Trascinare il pubblico, amare la sua gente, vivere a contatto con le persone. Ora questo non avviene più.
Purtroppo quando dico robotizzato intendo dire che i calciatori sembrano quasi non riuscire più a comunicare i sentimenti. Con l’avvento dei social, con questa frenesia di informazione, i calciatori di adesso devono fare attenzione a tutto: calcolare ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo. Basta un niente per far si che il tuo nome giri sul web. Però a me, parlando di Maradona, piaceva quel genere di campioni e quel genere di calcio. Io non dimenticherò mai, tornando alla tua domanda, quella sera a Posillipo. Non riesco a togliermi dalla mentela smorfia di dolore che fece quando gli parlai, che si portò il braccio sinistro sul fianco. Sono scene che ti fissi nella mente e non scordi più.
Come vede invece la situazione interna al calcio italiano? Intendiamo a livello di leadership politica e di scelte fatte per “valorizzare” un prodotto che ha perso appeal nel corso degli anni.
Ha perso appeal perché non facciamo riforme, perché non abbiamo coraggio di affrontare i cambiamenti. Non c’è una sensibilità politica verso uno sviluppo dello sport. Basti vedere le difficoltà che ci sono per costruire nuovi stadi. Al tempo stesso non troviamo mai l’accordo per una riforma di sistema ma ragioniamo sempre in termini individualistici, prendiamo i diritti televisivi. Inoltre c’è un problema nei settori giovanili. È tutto sbagliato quanto si fa in Italia, soprattutto nella formazione dei giovani. Una volta eravamo la Nazione che vinceva tre campionati U21, adesso fai fatica con tutte le nazionali. Abbiamo fatto tante scelte sbagliate, perché ci si perde nelle liti di condominio così si possono rappresentare le nostre assemblee.
Lei ha vissuto gli stravolgimenti del nostro calcio, e in passato ha lavorato anche con Luciano Moggi. Qual era il suo rapporto con Moggi? E che opinione si è fatto di Calciopoli?
Due persone hanno influenzato la mia carriera: uno era Nils Erik Liedholm e l’altro è Luciano Moggi. Tutto ebbe inizio nella stagione 1976/77. All’epoca ero un giovane dirigente del settore giovanile della Roma e lui era già alla Juventus con Italo Allodi. Agli inizi del nostro rapporto era molto diffidente, poco confidenziale, e sinceramente me ne importava poco. Dopo un anno Luciano venne da me e mi disse: “Tu farai il calciomercato con me, sarai il mio assistente”. Penso che quell’episodio, e la sua figura da maestro, sia stata decisiva per la mia carriera.
L’argomento Calciopoli meriterebbe un trattato, non si può riassumere in pochi minuti. Penso che se una società come la Juventus penalizzi se stessa richiedendo la retrocessione in Serie B, beh credo che lo scenario sia molto diverso rispetto alla sola Calciopoli. C’erano tante situazioni intorno molto più complesse che riguardavano gli assetti societari e quant’altro. Siete intelligenti, potete capire cosa intendo…
Nel 2011 fu coinvolto nello scandalo del calcioscommesse, da cui uscì pulito. Cosa ci può dire su questo fenomeno tutto italiano, che ultimamente si è arricchito di nuovo – seppur a suo modo – capitolo?
È un fulmine a ciel sereno sinceramente, calciatori così giovani coinvolti in queste vicende. Sicuramente bisogna far luce sulla vicenda, capire cosa li abbia spinto e farli uscire da questa patologia, la ludopatia. Certamente non cercavano il lucro, sono tutelati da contrari milionari e sarebbe impensabile una cosa simile. Non me ne rendo conto sinceramente, non lo comprendo. Sinceramente è un qualcosa che non concepisco quanto sta emergendo.
Al tempo stesso c’è bisogno di regole restrittive, non si possono fare sgarri alle regole. Certamente, bisogna far sì che anche le società di calcio possano tutelarsi nei confronti dei tesserati. Stiamo parlando di imprese, non di singoli atleti. Dico per i costi elevati, per la mole economica che ruota intorno a loro, in primis sugli stipendi. Bisogna dare anche a loro i mezzi per tutelarsi senno le situazioni sfuggono al controllo. Hanno mille tutele, non si può fare una multa che interviene l’associazione a tutela. Sinceramente così non va, i club devono tutelarsi.
Ma dopo tanti anni, cosa la spinge a rimanere in questo mondo?
C’è troppa negatività attualmente. Me ne rendo conto anche dalla vostre domande (ride ndr). Io sono positivo. State parlando con una persona che a 22 anni si sedeva vicino a Helenio Herrera in un’amichevole. Come posso non rispettare quel giorno. Ho vissuto tre/quattro generazioni di calciatori e vivo in questo mondo sempre con la stessa passione. Ho 45 campionati alle spalle più le giovanili e ancor oggi, vado a Messina, perdo e non dormo la notte.
Certo, ho vissuto anche tante esperienze negative, borderline, però questa passione non la riesco a smorzare. Non riuscirei a stare sul divano di casa a guardare la televisione. Mi devo sentire vivo, mi piace stare vicino ai ragazzi e magari poter dare un piccolo contributo alla loro crescita. Non solo calcistica ma anche umana. Non riesco a rinunciare a tutto questo. Ho attraversato mezzo secolo e non riesco a vedermi fuori, continuerò a farlo, cercando di mostrare modelli sani di crescita agli atleti e a chi mi sta intorno.
Ci racconta un episodio determinante, decisivo nella sua carriera? Se ce n’è stato uno…
Io spero sempre di scrivere un libro sulla mia storia. In pandemia l’ho iniziato, poi l’ho abbandonato viste le altre pagine di sport che ho da scrivere nella mia vita – anche se un po’ me ne pento. Quando sento parlare di aneddoti, la mia mente mi si affolla di ricordi e faccio fatica a sceglierne uno. Sicuramente, però, posso raccontarvi qualcosa: ero dirigente alla Roma quando i giallorossi persero la Coppa dei Campioni in casa (1983-1984). Ero insieme a Sven-Göran Eriksson, colui che sarebbe stato il futuro allenatore dei giallorossi. Liedholm sapeva che quella sarebbe stata la sua ultima panchina alla Roma. Nonostante il mio rapporto con lui, all’epoca avevo scovato questo talentuoso allenatore che non potevo non valorizzare.
Quella sconfitta l’accettai perché comunque giocavi con una delle squadre più forti del momento. Due anni dopo (1985-86), con Eriksson in panchina, recuperammo 9 punti alla Juventus capolista. Quei risultati che stavamo ottenendo mi facevano pensare in grande. Mi dicevo che a 34 anni sarei diventato il dirigente campione d’Italia senza nessuno aiuto esterno, senza Moggi o Previti o via dicendo. Ero felice, sognavo quel tricolore, soprattutto dopo aver recuperato quelle 9 lunghezze di distanza. Sembra poco, ma all’epoca il campionato la vittoria era ancora premiata con soli due punti. Immaginatevi il clima in cui giocavamo, sembrava tutto fatto, invece non fu cosi. Giocammo all’Olimpico contro il Lecce già retrocesso.
Ci aspettavamo una partita facile, invece perdemmo 3-2 e lo scudetto volò via dalle mie mani. Nonostante sia un aneddoto negativo, perché ti parlo di una sconfitta, da lì inziò il mio vero cammino. Da quella sconfitta ho imparato tanto. Mi sono rialzato, e da quel momento ho ottenuto tante vittorie. Ma ovviamente, ho perso tante altre volte. Quel risutalto negativo mi ha aiutato a comprendere che la sconfitta aiuta a vincere a ottenere i risultati sperati. L’errore ti aiuta a non reiterarlo e ti rende migliore. Ecco, quindi l’aneddoto negativo lo prendo e lo trasformo in positivo perché senza esso, probabilmente, non avrei avuto questa carriera. Voi giovani, dovete pensarla così. Magari non basatevi sulle mie parole, ma su quelle di Michela Jordan. Se non erro stesso lui disse: “Dai canestri sbagliati, dalle partite perse, ho imparato a vincere”.
In una recente intervista, Eziolino Capuano ci ha detto che per lui il benessere delle società occidentali è un ostacolo alla formazione del talento: “il talento non è mai uscito da Parioli ma sempre dalle zone povere del mondo“, ci ha detto. Cosa ne pensa lei?
Non sono tanto d’accordo. Non si può certamente generalizzare ma ci sono tante concause. Oggi abbiamo una generazione di giovani pantofolai che preferiscono il divano e la PlayStation al campo di gioco. Non vogliono correre né giocare. Anche le famiglie giocano un ruolo determinante in questo. Ora sono molto più protettive. Hanno paura della strada e di cosa possa accadere. Tutto questo fa sì che preferiscano vederli sul divano, comodi. Inoltre c’è un problema molto più serio, ovvero quello del lavoro e della difficoltà nell’accompagnarli alle scuole calcio. Per non parlare delle difficoltà nella famiglie separate.
Ovvio, non bisogna fare di tutta un erba un fascio. Ma la società è cambiata e di conseguenza anche l’approccio allo sport. Inoltre c’è un grande problema, quello della formazione:i calciatori ormai escono in serie. I bambini non si divertono più sui campi. Tutte le scuole calcio sono uguali, non portano niente di diverso sotto il profilo della formazione e della crescita dell’estro. Prima si dava spazio alla tecnica, alla fantasia, e il ragazzino si sentiva meno imprigionato e quindi si esprimeva di più e di conseguenza aumentava il divertimento. Se adesso, ai ragazzini, facciamo fare esercitazioni tattiche non possiamo pretendere che si divertano. Noi dobbiamo fare esercitazioni tecniche ed esaltare il merito ed il talento, non mortificarlo.
Basti pensare che un tempo dicevamo: dribbla! Invece adesso diciamo scarica. In questa differenza di lessico è racchiusa l’attuale concenzione del calcio. Maurizio Viscidi, l’attuale responsabile a livello nazionale dei settore giovanili FIGC, ha ammesso che bisogna tornare a fare insegnamento individuale ai bambini. La lavagna deve sparire dagli spogliatoi delle giovanili. Però concordo su una cosa, c’è meno fame rispetto a prima. Più benessere vuol dire meno calcio di strada. Su questo sono d’accordo. Poi bisogna dire che ci sono più pericoli, come la sicurezza, e fattori che inducono a non farli giocare liberamente per strada come un tempo.
Secondo lei è anche colpa degli allenatori che puntano più al risultato che alla crescita dei bambini?
Certo. Se noi creiamo una mentalità dove il risutalto giustifica tutto, non induciamo la crescita. Puoi vincere tranquillamente 3-0 ma non svilupperai mai un calciatore adatto alla prima squadra. Non bisogna fare questa analisi a livello di giovanili. Andres Iniesta, che tutti conosciamo, afferma che la differenza tra Spagna e Italia è da ritrovare nel lessico. Quando un bambino iberico torna a casa gli si chiede “come hai giocato?”. In Italia, invece, si chiede “hai vinto o hai perso?”. Questa differenza porta una serie di conseguenze. Non è detto che vincere significhi crescere e migliorare.
Poi c’è un altro discorso da affrontare. Gli allenatori delle giovanili non sono né tutelati né ascoltati dai club. Al tempo stesso, non deve esistere il concetto si debbano chiamare ”allenatori”, ma vanno chiamati “istruttori” innanzitutto perché il loro compito è quello di istruire i giovani. Tornando al punto principale, gli istruttori dei settori giovanili devono esser valorizzati a livello economico, non si possono fare contratti annuali che vengono rinnovati di volta in volta. Vanno tutelati con contratti pluriennali perché devono avere la tranquillità di dedicarsi al loro compito, senza pressioni, sapendo che possono vivere facendo il settore giovanile.
È per vivere intendo come stabilità economica. Se sono costretti ad inseguire il sogno del professionismo come allenatori, per trovare questa stabilità gli allenatori si dedicheranno a sperimentare se stessi come allenatori e non svilupperanno i calciatori come istruttori. Le proprietà guardano i numeri non la sostanza. Si dovrebbe spendere qualcosina in meno per la prima squadra e dedicare queste risorse al settore giovanile.
Cosa ne pensa delle plusvalenze e della narrazione montata su tale argomento? Ricordo che lei ha acquistato Sturaro dalla Juventus per 16mln all’epoca del Genoa…
Le plusvalenze esistono da sempre. Si facevano anche prima degli anni ’80. È un sistema abbastanza elementare e si utilizzavano già tempo fa. Chiaro che poi bisogna vedere fino a che punto possono aver un risvolto giuridico. Bisogna capire se si può realmente determinare una plusvalenza con certezza e non è facile, soprattutto se non ci saranno normative diverse rispetto a quelle attuali. Chiaro che quando si superano certi limiti si vedono ombre ovunque. Ci vogliono leggi specifiche per contrastarle anche con l’intervento dello Stato stesso. Ad oggi, però, mi sembra che sia stato fatto un buco nell’acqua.
Ha detto che Avellino la coinvolge troppo. Dopo tutto ciò che ha vissuto, come mai ha trovato questo feeling?
Ad esser sincero la prima cosa che mi viene in mente è che ho trovato una persona d’altri tempi in Angelo Antonio D’Agostino. Un presidente diverso da quelli che girano ora nel mondo del calcio, e non lo dico perché ci lavoro. Lo dico perché ci credo e non avrei accettato un’offerta in un club con tante vicissitudini particolari. Ho trovato un presidente che rispetta i ruoli, che si spende per la società. Io già conoscevo Avellino ed il suo pubblico essendo una piazza storica. Ho vissuto tanti bei momenti in passato qui in Irpinia, al di là del calcio.
Ho accettato di venire qui ad Avellino perché voglio riuscire a galvanizzare questa piazza, riuscire a creare qualcosa d’importante e portarla in alto. Come ti ho detto precedentemente ho sempre utilizzato la passione come energia per andare avanti, ma qui ad Avellino c’è qualcos’altro che ancora non mi riesco a spiegare. Si è creata un’alchimia particolare. Soffro se le cose vanno male, gioisco se vanno bene. Sto bene e voglio fare molto per la formazione biancoverde. Mi sento di casa. Sento tanti stimoli qui in Irpinia, che un po’ altrove sono mancati. E io vivo per questi.