L'originale rapporto tra il celebre intellettuale e lo sport.
“La testa di Danton sul corpo di un pigmeo, con la gobba davanti e la gobba di dietro, piccolo di statura. Questa testa però: scultorea, stupenda, con degli occhi di un azzurro che fissavano l’interlocutore e non lo mollavano. Era in un angolo del cortile dove aveva messo su un’aiuola, che coltivava amorevolmente”. Con queste parole Sandro Pertini descrive uno dei più grandi intellettuali italiani del ‘900, Antonio Gramsci. I due si incontrano a Turi di Bari nel 1930, entrambi prigionieri, entrambi oppositori del fascismo.
Quello di Gramsci è un corpo da intellettuale, quasi leopardiano nella sua vistosa imperfezione. Con un corpo così non sarebbe stato possibile per nessuno dedicarsi all’attività sportiva. Nino – così viene chiamato Gramsci durante la sua infanzia sarda – mostra durante i primi anni di età dei sintomi che di solito si manifestano negli ultimi. Sviluppa un principio di gobba che costringe sua madre a portarlo da uno specialista di Oristano. Secondo la sua opinione, la cura migliore per Antonio sarebbe stata legarlo con una corda e tenerlo appeso a una trave del soffitto.
L’Antonio Gramsci bambino, deciso a migliorare quel corpo problematico, inizia a costruirsi degli attrezzi per fare ginnastica, in modo da correggere al più presto i notevoli difetti fisici che gli impediscono di partecipare ai giochi dei suoi coetanei. Nel cortile della sua casa accumula una serie di grosse pietre, levigate fino a farle diventare sfere, tenute insieme da manici di scopa. Si costruisce dei manubri. Come racconta la sorella Teresina, tutte le mattine Nino si dedica al sollevamento dei pesi fino allo stremo.
Durante l’infanzia a Ghilarza, nonostante la sua dedizione, Antonio Gramsci non è riuscito a rimettere dritto il suo corpo. In compenso è proprio in quel periodo che si sviluppa quella sua testa “stupenda”, come la chiamava Pertini. Si chiude in casa Nino, e studia più di chiunque altro.
La sua abilità negli studi porta Gramsci fino all’Università di Torino grazie alla vittoria di una borsa di studio. Lì entra in contatto con una realtà ben più dinamica e variegata di quella sarda. Torino nei primi decenni del Novecento è il fulcro delle innovazioni tecnologiche, dell’industria e anche dello sport nazionale. Già dalla metà dell’Ottocento nel capoluogo piemontese nascono le prime società sportive, come la Reale Società Ginnastica, il Club Alpino Italiano e altre federazioni di pattinaggio, scherma e canottaggio. Inoltre Torino è la prima città in Italia ad introdurre l’educazione fisica obbligatoria nelle scuole.
E poi, il calcio. È consuetudine riconoscere Genova come il luogo di nascita del football italiano, ma pare sia stato un torinese, Edoardo Bosio, il primo a portare il calcio in Italia, al suo ritorno da una trasferta di lavoro in Inghilterra. La prima società calcistica italiana, il Torino Football & Cricket Club, nasce nel 1887. Sotto la Mole inoltre si è giocato il primo campionato di calcio italiano nel 1898. Le squadre partecipanti sono l’Internazionale Torino, l’FC Torinese, la Ginnastica Torino e il Genoa. A vincere è l’unica squadra non torinese del torneo.
Nell’ambiente piemontese Antonio Gramsci esordisce come redattore nelle rivisteIl Grido e Avanti!, dove spesso per timidezza si firma come A.G. oppure Alfa Gamma. “La timidità spingeva sempre Gramsci a vivere impersonalmente”, annoterà Pier Paolo Pasolini. Quando però Gramsci inizia a scrivere dei pamphlet per la rubrica collettiva dell’Avanti! chiamata Sotto la Mole, ecco che la sua fama di giornalista cresce. I suoi interventi nella rubrica segnano la letteratura giornalistica italiana dei primi decenni del secolo scorso, anticipando di qualche decennio La bustina di minerva, celebre rubrica di Umberto Eco su L’Espresso.
Uno dei primi a voler raccogliere e catalogare il talento di Gramsci è stato un suo amico e professore di letteratura italiana, Umberto Cosmo, che già nel 1918 propone al giovane Antonio di fare una cernita dei suoi pamphlet e raccoglierli in un volume. Gramsci rifiuta ma nel 1960 Einaudi li pubblica tutti in un volume chiamato proprio Sotto la Mole 1916-1920.
Tra i numerosi scritti di cultura, costume, storia e teatro ospitati dalle pagine dell’Avanti!, ce n’è uno chiamato Il Football e lo scopone, uno dei pochissimi di Antonio Gramsci che riguardino lo sport. L’intellettuale sardo non è mai stato uno sportivo, ma in questo intervento dimostra di aver capito, prima di altri, il valore sociale dello sport, in particolare del football, come veniva chiamato in quegli anni.
Gramsci, nello scritto pubblicato su l’Avanti! il 26 agosto 1918, propone un confronto tra il calcio e lo scopone, simboli di due mondi contrapposti: quello nuovo e quello vecchio. “Gli italiani amano poco lo sport”, esordisce Gramsci, specificando che preferiscono rinchiudersi nelle bettole e giocare a carte, in mezzo a nuvole di fumo, urla e pugni sui tavolini. Lo scopone richiedeva un lavoro “perverso” del cervello, è un gioco, come tutti quelli di carte, che implicava una diffidenza reciproca e sotterfugi di vario tipo per ingannare l’avversario.
Il foot-ball invece è un modello di società dove è prevista una gerarchia tra i partecipanti delineata dalle capacità individuali che si mettono al servizio della squadra. Nel calcio c’è sì la lotta, la gara e il furore competitivo ma anche la lealtà. “Dov’è la lealtà nello scopone?”, si chiedeva il futuro segretario del Partito Comunista.
Gramsci considera lo scopone molto più violento del calcio, all’epoca ancora un gioco per gentiluomini, non ancora per atleti: “La partita a scopone ha spesso avuto come conclusione un cadavere e qualche cranio ammaccato. Non si è mai letto che in tal modo si sia conchiusa una partita di foot-ball”. Il gioco delle carte è retaggio delle società arretrate, delle osterie della Sardegna rurale che Gramsci lascia da ragazzo. È lo “sport” di coloro che vivevano la società civile con diffidenza verso il prossimo.
Curioso notare come la propaganda fascista avrebbe sfruttato qualche anno dopo anche le carte da gioco. Quale modo migliore per finire tra le mani sporche dei lavoratori? Così il Cartificio Italiano Moderno di Palermo produceva nel 1922 delle carte chiamate Fascio, tutte dedicate ai simboli del regime. La rivista Panormus, organo di stampa del comune di Palermo, con un approccio opposto a quello gramsciano, decantava così il gioco delle carte: «Poiché il giuoco mite sarà ovunque il godimento buono di un’ora al giorno di colui che avrà sudata la sua giornata di lavoro onesto».
Sarebbe stato il calcio per Gramsci a produrre uomini moderni, con maggiore attitudine alla convivenza e più attrezzati per occupare un posto nella nascente società civile, più aperti alle novità dall’estero, come quella del football inglese, ad esempio. Il calcio sarebbe stata un’occasione di sviluppo sociale che gli italiani non avrebbero dovuto lasciarsi sfuggire: meglio uscire dalle bettole e tirare calci a un pallone.
Le storia è però celebre. Gramsci finisce in carcere perché fiero oppositore dell’ex direttore dell’Avanti! Benito Mussolini, che marciando su Roma aveva imposto un brusco cambio di direzione all’Italia. Mussolini è molto abile a manipolare ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini, tempo libero compreso. Intuisce che il calcio può diventare qualcosa di più di uno svago e ne favorisce la diffusione. Il Duce ha in qualche modo fatto proprie le idee di Gramsci di Sotto la Mole, filtrandole però con la sua proverbiale propensione alla propaganda e all’accrescimento del consenso.
Secondo la visione gramsciana però, il calcio che si sta sviluppando sotto il fascismo è una preoccupante degenerazione del gioco che lo affascina in gioventù. Quello che scrive Gramsci nel ’32, nei suoi Quaderni dal carcere, è una feroce critica alla statalizzazione dello sport ad opera del fascismo, accusato di aver risvegliato dei campanilismi che sembravano sopiti. Quelli sportivi si possono rivelare i campanilismi più sanguinosi, figli di una cultura primitiva risvegliata sugli spalti dei nuovi stadi in costruzione.
Sembra che Antonio Gramsci abbia voluto mettere in guardia gli sportivi e gli appassionati, mostrando le derive verso le quali la passione sfrenata avrebbe potuto condurre. Nella storia del football italiano abbiamo avuto diversi esempi di degenerazioni provocate dal fanatismo, un sentimento viscerale che ha sempre minacciato i valori più puri della disciplina sportiva. Quei valori però, hanno resistito. Proprio come profetizzava Gramsci, lo sport rappresenta ancora un modello di società: per questo può educare alla vita, rappresentando un momento di espressione di sé e di autentica libertà.