Con stima e affetto, ma sei proprio catalano.
Voi non ci crederete ma a me Pep Guardiola sta molto simpatico. Ritengo anche che sia il miglior allenatore al mondo, qualunque cosa voglia dire, e senza di lui onestamente non saprei più dove sbattere la testa. Peppe dà senso alle mie stagioni sportive, e ogni anno aspetto solo il momento catartico (che tanto prima o poi arriva) in cui, smorfia sul volto e sguardo perso nel vuoto, si strofina la pelata dopo l’ennesima rocambolesca sconfitta in Coppa dei Campioni. Sembra la trama di un fumetto o di un cartone, tipo Wile E. Coyote o una roba del genere, con Guardiola che prepara tutto nei minimi dettagli e qualcosa che puntualmente gli fa sfumare l’ambita Coppa dalle grandi orecchie.
È il karma per i maniaci del controllo, che per quanto siano bravi (e Pep forse è il più bravo) vivono il contrappasso della sconfitta sempre per dettagli imprevedibili e anzi intangibili.
Guardiola insomma è un avversario a cui voglio bene, che se non ci fosse la mia vita, almeno quella da telespettatore sportivo, perderebbe di senso. Questo catalano che ha sempre una buona parola per tutti, stressato fino al midollo ma costretto a mantenere la calma per non tradire il suo personaggio immacolato; ossessionato dalla vittoria, come un Conte qualsiasi, ma sempre pronto a mascherarlo davanti ai microfoni; cervellotico fino al punto di avvelenarsi il sangue e andare in burnout.
Guardiola che si smentisce, che dice di non voler più essere un profeta ma poi lo è come e più di prima, che dichiara in mondovisione “la vittoria è l’unica cosa che conta” malgrado sia palesemente disgustato dal risultatismo, che regala al mondo una ideologia calcistica ma poi la rinnega seccamente; che pure quando fa i complimenti agli avversari non riesce a dissimulare la convinzione di sentirsi, per distacco, il migliore al mondo (cosa che però non ammetterebbe neanche sotto tortura).
Teorico di un calcio pulito e sostenibile (almeno fino a quando ha potuto) ma spinto dai miliardi emiratini, demiurgo del talento ma direttore d’orchestra di mercati sempre più folli e dispendiosi. Indipendentista catalano di lusso da oltremanica, promotore e modello della causa Open Arms dal suo attico a Nuova York – in realtà è un lussuoso appartamento a Salford, per cui ha anche rischiato di far saltare l’accordo con il City considerato che voleva un palazzo lussuoso in centro costruito su misura. A Pep mi sono con il tempo affezionato, a questo simpatico ossessionato un po’ (tanto) ipocrita tipicamente catalano. Meno mi sono affezionato al guardiolismo, che come tutte le ideologie è ben peggio delle persone, e ai suoi presupposti “filosofici”.
Qualche giorno fa ad esempio Pep ha battezzato il golf “lo sport più giusto di tutti“: “Se sei il migliore vinci tu, nessuna scusa (…) Ammetto che è davvero bello, nello sport non esiste la fortuna“. Non gli va proprio giù a Pep, intimamente convinto di essere il numero uno, che invece la fortuna esiste eccome e che la Dea bendata, almeno in Europa, continui a dargli buca concedendosi a dei privilegiati come Zidane e Ancelotti. Il suo è un meccanismo di rimozione spinto all’estremo, fino al punto di lanciarsi in un’improbabile quanto metaforica e risentita apologia del golf, uno sport (?) che ha un suo pittoresco senso estetico solo tra miliardari wasp, colline verdi, alligatori che gironzolano placidi e laghetti più o meno artificiali – che sempre siano benedetti gli stereotipi e i pregiudizi!.
Quindi ha riattaccato con la sua ideologia del merito, una trasposizione aziendale del pallone che purtroppo ha fatto breccia anche in grossa parte del pubblico.
Eppure il football ha dovuto le sue fortune, pure tra molti intellettuali, al suo carattere rocambolesco, imprevedibile, alle sue narrazioni da Davide contro Golia; anzi è grazie a questo aspetto che ha sviluppato una sua letteratura. Poi è naturale che gli allenatori, soprattutto dei top club, puntino tutto sul merito, vogliano un calcio meritocratico e quindi calcolabile per cui il migliore (sul campo e in panchina) alla fine ha la meglio. Guardate anche Pioli, che più diventa bravo più assume toni e proposte da profeta, come quelle per introdurre il tempo effettivo e soprattutto vietare i passaggi all’indietro allo scopo di incoraggiare il calcio offensivo.
Loro perseguono i propri interessi ma noi finiamola di fare i sommelier del pallone, benpensanti e civilizzati. Perché dovremmo sposare il pregiudizio per cui la vittoria spetta a chi gioca meglio (e quindi spesso a chi ha calciatori più forti)? Perché invochiamo il merito e la giustizia nel calcio? Ma che siamo in un’azienda? Ma chissenefrega del merito! Viva la piccola squadra che fa un gol contro una grande, si chiude neanche fosse a Fort Alamo, spezzetta il gioco come può e perde tempo con ogni stratagemma possibile per portare a casa la pagnotta (e qualche punto). È la legge della giungla, altro che merito.
L’ideologia del merito è roba da calvinisti senza sole e senza poesia, non c’azzecca niente col nostro bel carattere italiano e mediterraneo ma neanche con l’essenza del football.
La bellezza del calcio, come diceva Galeano, sta nel suo essere “arte dell’imprevisto”: nelle bizze e nei tranelli di Eupalla, dea capricciosa del pallone, non nei business plan – più o meno economici, più o meno intellettuali – fondati su calcoli il più possibile accurati per rientrare degli investimenti e ridurre il margine di rischio. Una pedata sbagliata può mandare in fumo la strategia di un anno, un salvataggio sulla linea di Mendy e un’inspiegabile mistica da Bernabeu possono condannare il nostrissimo Pep: lui che insieme alla sua squadra era stato il migliore, e che si ritrova un altro anno a bocca asciutta in Europa senza alcun tipo di spiegazione razionale.
Per tutto il resto c’è il golf: dove vince sempre il migliore, senza scuse, e che non a caso ha fatto breccia innanzitutto tra quei barbari ultracivilizzati degli Americani. Quelli che hanno ucciso la poesia, con buona pace di Ezra Pound, e per i quali il soccer è uno sport principalmente femminile. Basta?