Nasceva oggi 110 anni fa, in una birreria di Praga, l’Hajduk Spalato, una squadra senza confini che per i suoi tifosi rappresenta un vero e proprio modo di vivere. In un’intervista realizzata (grazie alla fondamentale mediazione di Srdjan Hercigonja) con Jurica Gizdic e Duje Biuk, rispettivamente giornalista/memoria storica e responsabile del settore comunicazione della squadra croata, abbiamo indagato un tema che oggi più che mai affascina la letteratura sportiva: l’identità. Il tema dell’identità, infatti, è diventato sempre più un elemento con il quale analizzare e leggere le dinamiche del calcio contemporaneo.
Un valore che nel mondo del calcio viene posto, a seconda dell’interpretazione, sia come riferimento costitutivo al quale tornare sia come limite ideologico nell’imperante processo di brandizzazione del calcio stesso. L’identità non è comunque una formula prestabilita, un concetto invariabile nello spazio e nel tempo, bensì un qualcosa di estremamente permeabile ai cambiamenti del suo contesto. Spesso, soprattutto nell’epoca del marketing esasperato, viene banalizzata e stereotipata, e così fatta coincidere con intenti propagandistici e promozionali.
Un esempio è il video promozionale che ha accompagnato la presentazione della maglia della Juventus (2019/2020), la quale per la prima volta abbandonava le strisce in favore di una netta separazione tra il bianco e il nero intervallata da una linea rosa. Nel video, veniva tirata in ballo l’identità intesa come tradizione e due frasi, in particolare, sembravano rivolte a quei tifosi oltranzisti che non avrebbero accettato tale cambiamento “Don’t let tradition hold you back/ but inspire you to redigine the future”.
Tra le righe si poteva leggere un sotto testo “pericoloso”: la tradizione è un limite alla nostra brandizzazione, e nel futuro dei nostri prodotti c’è un posto marginale per il passato.
L’identità però non ha regole e valori aprioristicamente costitutivi, non sempre coincide con concetti monolitici quali quelli di sacralità e genius loci, e la sua complessità può essere meglio spiegata se calata all’interno del modo di vivere, dell’esempio particolare. Di questa complessità l’Hajduk e la sua storia rappresentano un esempio sfuggente: qui l’identità non è mai stata definita e definitiva; invece si è costruita vivendola, e si è modellata e riposizionata attraverso l’esperienza.
Per l’Hajduk Spalato, infatti, l’identità è come uno schema di gioco, un modulo, e propio questa adattabilità ne rappresenta la spina dorsale. L’Hajduk, nelle parole di Gizdic e Biuk, è un modo di vivere un simbolo di poetica resistenza che va oltre i suoi stessi confini. Proprio le origini dell’Hajduk rappresentano, del resto, un processo di smitizzazione del concetto tradizionale di identità quale rappresentazione sacra legata al luogo d’origine.
L’Hajduk Spalato nasce a Praga, nella birreria U Fleku, il 13 febbraio 1911, da studenti spalatini che studiavano in una delle capitali dell’Impero. E nasce anche in un concetto di “casa” allargato.
L’Hajduk sorge, quindi, guardando il derby tra Sparta e Slavia. Qualcuno potrebbe dire che sia nato in esilio e che i colori, bianco e rossi, rappresentavano fin da subito l’affermazione indipendentista croata. Ma questo significherebbe leggere la storia solo con il suo zeitgeist, lo spirito (tumultuoso) di quel tempo che portò la geografia politica a definirsi per come la conosciamo oggi.
Ascoltando le parole di Gizdic e Biuk la lettura, però, è quella di una squadra che rappresenta una pluralità di sentimenti e voci a partire proprio dal suo nome. Hajduk, ovvero aiducco, che come spiega anche la voce Treccani rappresenta «l’adattamento italiano del termine serbo croato hajduk (che è anche voce polacca, ceca, romena, bulgara, ungherese, forse der. del turco hajdūt «bandito»), che nei territori balcanici indicò, in epoca medievale, i briganti di strada».
L’Hajduk insomma viene fondato a Praga, adotta i colori croati, assume un nome di origine turco-ungherese ed ognuno di questi pezzi – come la bandiera a scacchi croata – testimonia la costruzione identitaria come atto contingente. L’identità è qui una messa in discussione continua, una contrattazione costante con il passato e con le aspirazioni verso il futuro. È un vestito fatto a mano, su misura, e questa misura l’Hajduk l’ha presa allargando i suoi confini, aprendosi alle contaminazioni e riadattandosi continuamente al contesto.
Un esempio è la famosa partita del 23 settembre 1944 contro le truppe alleate inglesi. Nel periodo bellico tutti i campionati erano fermi e molti giocatori dell’Hajduk decisero di entrare clandestinamente nel nucleo dei partigiani jugoslavi con base sull’isola di Lissa – dove tra l’altro continuarono ad allenarsi – diventando così la squadra ufficiale dell’esercito jugoslavo di liberazione con il nome di Hajduk-NOVJ. L’Hajduk, che aveva rifiutato di cambiare il suo nome in AC Spalato e prendere parte ai campionati italiani (nel 1941 il Regno d’Italia, dopo aver conquistato la Dalmazia, vi aveva istituito un suo Governatorato) decise di iniziare un tour in giro per il mondo per testimoniare il suo messaggio di resistenza.
Così la squadra nell’estate del 1944 si trasferì nel sud Italia e proprio contro gli alleati giocò una serie di amichevoli, quasi un campionato parallelo.
La prima partita si tenne il 13 giugno a Mola di Bari dove l’Hajduk si impose comodamente per 10-0 contro la British Unit di istanza a Mola. Seguirono altre partite tra Foggia (contro la RAF), Napoli, Gravina, Trani, Taranto e Roma (solo per citarne alcune). La partita che segnò l’apice di questo contro-campionato fu quella del 23 settembre a Bari. Di fronte a 40.000 persone l’Hajduk rimediò una sonora sconfitta contro la British Army XI (7-2). L’anno dopo gli spalatini girarono tra il Medio Oriente e il Nord Africa, venendo nominati da Charles de Gaulle squadra onoraria della Francia Libera.
In quegli anni la loro casa fu il mondo, e grazie al linguaggio universale del calcio superarono i confini. A tal proposito la “resistenza” è un tema più volte sottolineato da Gizdic e Biuk dal momento che identifica, soprattutto agli di uno spettatore esterno, l’Hajduk Spalato come la squadra del “no”, del rifiuto alla riducibilità, politica, geografica e ideologica. Questo “no”, ovviamente ha più sfaccettature e la costante negazione ha significato, di contro, una continua riaffermazione costituente per l’Hajduk.
Una volta tornato in Jugoslavia l’Hajduk, che nel frattempo aveva rifiutato di trasferirsi a Belgrado per diventare la squadra dell’esercito – cosa che invece diventerà il Partizan – iniziò subito a vincere. La difficile collocazione della compagine spalatina (nel senso di riduzione ad una determinata categoria) venne così piegata con sanzioni come quella del 1950 quando Vjenceslav Žuvela, uno dei fondatori della Torcida, venne arrestato. Agli occhi della polizia, infatti, l’intero gruppo di tifosi rappresentava una minaccia nei confronti dell’ordine pubblico.
Da quel momento, fino all’inizio degli anni ’80, il gruppo è stato monitorato e represso – tramite ad esempio il divieto all’utilizzo di striscioni – soffiando così su quel fuoco dell’identità etnica divampato in diversi scontri, soprattutto con gli avversari belgradesi, come accaduto nella partita del 23 settembre 1970 contro l’OFK Beograd. La partita venne sospesa sul risultato di 2-2 dopo che, al minuto 52, l’arbitro perse i sensi in seguito al lancio di un oggetto che lo centrò in testa.
Nei giorni successivi all’Hajduk venne inflitta la sconfitta a tavolino (0-3) creando una serie di disordini che culminarono con il “lancio” in mare, da parte dei tifosi spalatini, di diverse macchine con la targa belgradese. Tutto questo intonando la canzone di Sergio Endrigo “Kud plovi ovaj brod” (Dove va questa barca) una delle due canzoni cantate da Endrigo, originario di Pula, in lingua croata.
Inevitabilmente il tema della Torcida è stato discusso con Gizdic e Biuk, dal momento che rappresenta una delle tifoserie organizzate più longeve d’Europa. Anche in questo caso origine e nome rispecchiano un concetto di identità eterogeneo e in movimento, dal momento che la Torcida è nata a Zagabria grazie ad un gruppo di studenti dalmati (Vjenceslav Žuvela, Ante Ivanišević, Ante Dorić e Bajdo Vukas) e il suo nome deriva da un’influenza tutt’altro che locale e localmente ristretta.
Come sottolineato dai nostri due ospiti “non c’è Hajduk senza Torcida e non c’è Torcida senza Hajduk”.
La Torcida sud americana sugli spalti della città dalmata è diventata nel corso degli anni una vera e propria comunità, e questo lo si può vedere dalle azioni concrete che i tifosi hanno realizzato come i soccorsi portati ai paesi colpiti dal terremoto di Zagabria lo scorso dicembre e l’aiuto alle famiglie indigenti durante questo periodo pandemico. La Torcida come l’Hajduk è oltre i suoi confini, e i gemellaggi arrivano fino a Sidney.
L’Hajduk in questi suoi 110 anni è pieno di storie del genere, duali nella loro lettura e irriducibili a qualsivoglia stereotipo politico e geografico. Quello che colpisce maggiormente è la costante ridefinizione, il continuo cambiamento come stie di vita. Una squadra partigiana, nazionalista, locale e globale allo stesso tempo, in cui l’appartenenza non è un’eredità del passato, ma una casacca da vivere e vestire. Una squadra in definitiva che non si “appartiene”, ma si vive. E forse soltanto un squadra di calcio, nelle sue costanti contraddizioni, è in grado di riunire tutte quelle complessità che la società civile tratta come identità.