Come smontare una macchina perfetta. E rischiare la Serie B.
E niente da fare. Non fa ora a fare tre passi avanti, che ne fa tre indietro il povero Hellas. Dopo il colpaccio di Lecce, il popolo gialloblù ci credeva: per la prima volta dall’inizio di questa martoriata stagione la squadra, riemersa dalle macerie in cui l’aveva ridotta l’Inter, si trovava fuori dalle sabbie mobili della zona retrocessione. Bella reazione, squarci di sereno all’orizzonte dopo tanto grigiore, anche perché a questo giro di valzer il calendario pareva essere dalla sua parte: Lecce e Spezia opposte a Lazio e Milan, Verona in casa contro un Torino che al campionato aveva poco o nulla da dire se non onorarlo fino in fondo.
L’occasione per un altro balzetto era ghiotta, eppure è successo l’esatto contraro di cosa sotto gli archi dell’Arena tutti speravano: il Lecce ha pareggiato all’Olimpico contro una Lazio che non sa più vincere, e lo Spezia ha preso a sculacciate il Milan. Così a rimetterci è stato solo un fiacco Verona, messo sotto di brutto da un Toro che nel secondo tempo sembrava facesse di tutto pur di non chiudere la pratica. Ora, a tre partite dalla fine, è tutto da rifare, una botta tremenda sul morale e la fiducia dell’ambiente.
Hanno perso la pazienza pure i Butei della curva che hanno sfogato la loro delusione in una bordata di fischi e nell’invito alla truppa, negli stadi italiani succede sempre così in questi casi, a tirar fuori gli zebedei. E qui sta il quesito amletico: questa squadra, così fragile da far quasi tenerezza, oltre agli attributi ha anche la qualità necessaria per farcela? Qui dobbiamo riavvolgere il nastro e tornare al giugno di un anno fa. Il Verona è reduce da tre annate una più bella dell’altra, eppure in quei giorni parte un’operazione di piazza pulita:
se ne va Tony D’Amico, uomo di campo, giovane e dinamico direttore sportivo che con le sue intuizioni sui libri contabili della società ha lasciato una collezione di plusvalenze, quelle vere per intenderci.
Per rimpiazzarlo, il presidente Setti punta su Francesco Marroccu, uomo di fiducia di Massimo Cellino a Cagliari e a Brescia, un profilo aziendalista in linea con l’ala amministrativa del club che con D’Amico diciamo che proprio in idillio non è. E il perché lo spiega puntuale Marroccu al suo arrivo, quando parla di «una situazione finanziaria condizionata da pesanti ammortamenti»: come dire «D’accordo, D’Amico avrà fatto anche bene, ma ha speso troppo. Ragazzi, io sono qui per la spending review». Mah…perdere, senza far nulla per trattenerlo, un ds come D’Amico che tanto bene ha fatto, è quantomeno un grosso rischio del quale Setti si assume la responsabilità.
E poi il campo; Igor Tudor, che tanto bene ha fatto proseguendo sulla via tracciata da Ivan Juric, non perde tempo, ringrazia, saluta e vola a Marsiglia. Per la panchina Setti e Marroccu puntano su Gabriele Cioffi, reduce da una buona stagione all’Udinese dov’è subentrato in corsa a Luca Gotti. Un allenatore giovane ed emergente, con tanta voglia di fare. Peccato che a Cioffi smontino una macchina che era perfetta, lasciandolo in un baleno senza i tre tenori del reparto offensivo, Barak, Simeone e Caprari, roba da 40 gol in tre la scorsa stagione. E che sia una lacuna difficile da colmare, lo conferma presto il campo:
il Verona balbetta, raccoglie la miseria di cinque punti in nove giornate e a ottobre, dopo la quarta sconfitta di fila rimediata a Salerno, a Cioffi danno il benservito.
Si opta per la soluzione interna, la più economica: squadra a Salvatore Bocchetti, tecnico della Primavera, già giocatore di Juric e collaboratore di Tudor in panca. Il patentino il buon “Sasà” però non ce l’ha, potrà guidare la squadra solo grazie alla deroga di un mese che la Federazione gli concede fino alla sosta mondiale, poi bisognerà trovare qualcuno da affiancargli con le carte in regola. Bocchetti incassa altre sei sconfitte, che sommate a quelle di Cioffi fanno dieci. Un fardello sotto il quale il Verona affonda.
Setti medita il da farsi e durante la sosta richiama a Verona il figliol prodigo Sean Sogliano, suo Ds nei primi tre anni di presidenza: i due non si erano lasciati certo bene, anzi, ma i litigi se li son lasciati alle spalle per il bene del Verona. Sanguigno e marcatamente interventista, Sogliano, che non viene da recenti esaltanti esperienze altrove, ha voglia di rivalsa, ama la città e per Setti è lui l’uomo che ci vuole per ricaricare le batterie e ripartire.
Per prima cosa Sogliano risolve la formalità dell’allenatore individuandolo in Marco Zaffaroni (uno che in serie A non ha mai allenato e che, se non facesse questo mestiere, lo vedresti come un Casciavit degli anni Settanta immerso nella nebbia milanese alle prime luci dell’alba salire su tram col cappotto e lo sciarpone per recarsi in fabbrica a Sesto San Giovanni). Faccia e patentino li mette lui. Poi Sogliano muove pedine sul mercato: in uscita il goiellino Ilic va al Torino (e vai di plusvalenze!), mentre a budget zero in entrata arrivano Ngonge, Braaf, Duda, Abildgaard e Gaich: cinque che del Verona non fanno esattamente una corazzata.
Dovrebbe partire Simone Verdi, ma invece rimane solo perché all’ultimo istante del mercato di gennaio un quantomai provvidenziale buco informatico fa saltare il suo trasferimento alla Salernitana. La situazione è paradossale: il Verona ha a libro paga quattro allenatori (Zaffaroni, Bocchetti, Cioffi e Di Francesco, quest’ultimo esonerato nel campionato precedente ma ancora sotto contratto), due direttori sportivi, ma neanche un centravanti che la cacci dentro. Non un dettaglio da poco.
La squadra però pian piano si ritrova e prende coraggio: risale, cade malamente a Genova contro la derelitta Sampdoria, ma vince scontri diretti importanti, rimonta e batte il Sassuolo sul filo di lana grazie a un generoso regalo di Consigli e strappa pure un punto al San Paolo contro il Napoli che sta per cucirsi sul petto il terzo scudetto. Il resto è cosa recente. Bene o male, dalla sosta a oggi l’inedita coppia Zaf & Bok ha raccolto 25 punti rimettendo, va detto, in piedi la baracca.
Questa la storia fino alla sconfitta di domenica contro il Torino al Bentegodi che complica non poco la faccenda.
Tutto questo panegirico, solo per rispondere alla domanda iniziale: questo Verona bislacco, così fragile da far quasi tenerezza, oltre agli attributi ha davvero anche la qualità necessaria per farcela? Vero che nel calcio tutto può succedere, ma onestamente, anche alla luce di ben altro ardore che in campo mettono gli onesti pedatori di Lecce e Spezia, parrebbe di no. E la retrocessione non sarebbe allora che l’epilogo di quello che allo stato dell’arte appare essere un suicidio perfetto architettato un anno fa con delle scelte scellerate. Felici, se sarà, di essere smentiti.