Il francese è stato soprattutto un miraggio estetico.
Quando Thierry Henry nasce a Les Ulis il 17 agosto 1977 non può sapere che ogni essere è uno, vero e buono. E anche bello, nel senso del pulchrum, messaggio che da San Francesco è arrivato a Dostoevskij: la bellezza è il contrario dell’utile, non del brutto. Ovunque c’è bellezza se non c’è utilitarismo, a questo alludeva il mediocre Trofimovic dei Demoni quando diceva che si può vivere senza pane ma non senza bellezza.
Di Henry si è pensato, detto e scritto tutto il dovuto, e a ben ragione perché parliamo di uno dei più forti calciatori della sua epoca. Residua forse una sola questione, trascurata dai più e derubricata a maniacale dai pochi. La questione su quanto bello sia stato Thierry Henry nella sua carriera. Bello in un senso assoluto, non solo riferito all’innegabile eleganza motoria nella sua attività calcistica.
Nel calcio di Gomorra, tatuaggi e doppi tagli, le epilessie provocate dagli scarpini fluorescenti non si contano. Parrucchieri da condurre agli arresti domiciliari, magliette disegnate sotto abuso di psicotropi, stadi incolori e abulici. In questo calcio trap la pudicizia si è smarrita, la sobrietà è persa, l’eleganza la osserviamo rarefarsi nella volgare nebbia che acceca il nostro amatissimo pallone.
Questo ineluttabile processo di inaridimento stilistico ha germogliato negli anni ottanta, quelli patinati e roboanti, per poi fiorire nei chiassosi novanta e sublimarsi negli anni dieci, e speriamo non venti, del corrente secolo. Poco abbiamo potuto per resisterea questa crociata che il Pallone ha mosso allo stile.
Ma vi è stata, più segnatamente dalla fine dei novanta agli inizi degli anni duemila, una parentesi felice in cui si è tornati ad accarezzare gli occhi. Gli anni della camiseta blanca con cui i Galacticos hanno trionfato sul Bayer Leverkusen, della kombat della Robe di Kappa indossata dalla Nazionale nel 2002, alcune divise del Newcastle e del Barcellona, gli anni soprattutto della beatissima carriera di Thierry Henry nell’Arsenal di Arsène Wenger.
Gli anni in cui i Gunners hanno funto da diga contro il fiume della villania. Un miraggio estetico contrapposto all’offensiva del cattivo gusto. Capitanati dal cavaliere Henry, quelli del Nord di Londra hanno offerto lampi di luce a noi insaziabili amanti delle maglie da gioco.
Nell’estate del ’98 il tecnico di Strasburgo raggiunge finalmente l’obiettivo di portare il giovane Titì ad Highbury dopo soli sei mesi dal suo approdo a Torino. Henry alla Juventus è stato probabilmente il più grande fallimento della Serie A moderna.
Sei mesi di incomprensioni tattiche—Lippi viene esonerato a febbraio, Ancelotti lo vede come ala, se non terzino—ed umane con l’ambiente. Nella sua unica partita giocata da punta marca due reti all’Olimpico contro la Lazio, ma è troppo tardi, leggenda racconta che un litigio con Don Luciano Moggi sarà fatale: 10 milioni di sterline perché Wenger possa riabbracciare il suo pupillo dopo la prima esperienza nel Principato.
L’Arsenal viene dal double del 98, ai senatori Adams, Seaman, Dixon, Winterburn, Keown e Bould si sono aggiunti Viera, Petit, Anelka. Inizia la francesizzazione dei Gunners, elemento che perdurerà per tutta l’epopea Wenger. I primi mesi sono difficili, è necessario che il longilineo Thierry si adatti alle durezze del calcio inglese. Le divise dei primi anni di Henry all’Arsenal (dal ’99 al 2002) sono pressoché identiche. Nella prima stagione, foto sopra, la casacca rossa è contornata da inserti blu navy: due bande verticali che discendono in parallelo dalle spalle alla fine dei pantaloncini. Nel complesso la divisa è pura, lo sponsor Dreamcast è pulito ma il meglio con la Nike deve ancora venire.
L’azienda di Beaverton ripropone stessa foggia anche per le due stagioni successive: il colletto da polo torna rosso, le bande blu—che richiamano le divise dei marine vittoriani—traslocano sulle lunghe maniche bianche. É la maglietta del nuovo double, quello del 2002, quando i gooners, i tifosi dell’Arsenal, possono celebrare un nuovo successo sui Red Devils di Sir Alex Ferguson.
Nel 2003 l’Arsenal dissipa un vantaggio in campionato di 8 punti, cruciale la sconfitta in casa contro il Leeds, e consegna il titolo allo United, chiudendo l’anno con nessun trofeo. Da lì in poi per un intero anno i Gunners non perdono mai. Sono gli Invicibles, squadra leggendaria nella storia recente del massimo campionato inglese. Il titolo consacra Henry come fuoriclasse mondiale—è arrivato secondo al Pallone d’oro la stagione precedente—e giocatore simbolo del miglior Arsenal di sempre.
Ma è lo stile di quella squadra che meraviglia. La maglia si libera dei dettagli superflui e torna al bicromatico bianco neve e rosso scarlatto. Il girocollo è comodo, le maniche sono lunghe ed accentuano la statuaria forma di Henry. Lo sponsor è il gigante del TLC britannico 02 dall’iconico simbolo chimico. Il tutto è di semplice raffinatezza, non c’è alcunché fuori posto. Una squadra si può considerare leggendaria per i meriti sportivi, ma è solo con un supporto scenografico che si imprime nella memoria degli appassionati. Quell’Arsenal era semplicemente magnifico.
Dal 1886, anno della sua fondazione nelle officine di Dial Square del Royal Armament, al 1918, gli operai-giocatori dell’Arsenal giocarono con divise rosso borgogna. La ragione, a sentirla oggi singolare ma all’epoca ben comune, è che il nucleo fondativo del Dial Sq Club, il progenitore dei Gunners, proveniva dal Nottingham Forrest, ove le divise erano di quella sorta.
I proprietari trovarono più economico munire il resto della squadra di divise simili anziché comperare tutto l’equipaggiamento da capo. Quando il club si trasferisce da Woolwich ad Highbury, nel quartiere ove sorgeva il nuovo impianto, i rossi indossano ancora le divise di quella tonalità. Solo nel 1925, grazie al mitologico manager Herbert Chapman, il rosso divenne acceso come lo conosciamo oggi.
La stagione 2005-06 è triste per l’Arsenal. Se un campionato agrodolce permette ai cannonieri di qualificarsi alla prossima Champions, è proprio nella massima competizione continentale che la delusione è cocente. Il sogno di laurearsi campioni si infrange in finale allo Stade de France contro il Barcellona, che ribalta l’iniziale vantaggio di Sol Campbell con le reti di Eto’o e Belletti.
Seppur tragica dal punto di vista sportivo, quella stagione è l’acme stilistico di quegli anni. Il calcio moderno costringe il club a costruire, a mezzo miglio di distanza, un nuovo stadio di proprietà ad Islington, brandizzato Emirates. Il Final Salute ad Highbury viene celebrato un anno intero e la Nike produce una divisa dall’ineguagliabile fascino.
I colori sono gli stessi della prima stagione, il 1913, nello stadio rottamando. Il collo a polo è superiore ad un piccolo spacco a V, che permette di smorzare l’austerità della divisa. La vestibilità è ancora larga, non obbligatoriamente attillata come negli anni successivi. Il materiale tecnico è lucido, a rendere il disegno ancora più ipnotico. Gli inserti sono, ça va sans dire, in oro. Henry è insieme a Viera, che però non la indosserà mai, il modello che la Nike sceglie per progettare la divisa commemorativa.
Thierry in quella maglia è eroico. Ad un giocatore dal temperamento spesso sbruffone ed arrogante, la divisa esaspera il divismo. É cavalleresca, in un certo senso medievale. Tutta la magia stilistica di quegli anni meravigliosi di Arsenal culmina nella maglia onoraria per Highbury. Un capolavoro.
Il 2007 Henry lascia l’Arsenal per accasarsi al Barcellona. Ha 30 anni, è stato per diverse stagioni uno dei calciatori più forti al mondo, il più forte d’Inghilterra e il fenomeno assoluto della storia dell’Arsenal. Il suo miglior calcio è passato, nelle quattro stagioni al Camp Nou vivrà sempre all’ombra dei campionissimi catalani. Nel 2010 va a New York, o meglio nel New Jersey, ai Red Bulls.
La sua esperienza americana ci interessa il giusto. Il ragazzo è ormai uomo e anche il suo personaggio è mutato. Le braccia si riempiono di tatuaggi, la barba nera si posa su un volto meno sfrontato e più parco. Rimane innegabilmente avvenente, ma la sensazione è che il carisma prevalga sulla spavalda leggiadria di inizio carriera. È sempre Titì Henry, ma ha una aura totemica, più saggia e pesante.
A Gennaio 2011 però avviene uno di quei drammi sportivi per cui noi romanticoni camminiamo su questa terra. Una di quelle pagine di racconto sportivo che segnano una generazione. I Red Bulls accordano il prestito temporaneo di Thierry all’Arsenal per evitare che lo stop della MLS comporti un calo di condizione fisica. Alla vigilia dell’Epifania è già ad Heathrow, prende la numero 12, indossata sempre con Les Blues, perché la 14 è di Theo Walcott.
Quattro giorni dopo è in campo in FA Cup contro il Leeds. Subentra a Chamakh al 68^ tra gli applausi scroscianti dell’Emirates, il risultato è fermo sullo 0 a 0. Dieci minuti più tardi Alex Song taglia la linea di difesa e imbecca Henry, che galleggiava dietro la linea di fuorigioco. Punta la porta, apre un piatto sul secondo palo e segna. Un copione già scritto. ‘It just had to be Thierry Henry, this script was written’ dice il telecronista.
Quell’abito è perfetto per concludere la storia d’amore tra Henry e l’Arsenal. Nike, che di lì a qualche anno finirà di vestire i Gunners, è in stato di grazia: la casacca rossa è lucente, il girocollo è sottile e rosso. Lo stacco cromatico con il bianco marmo è netto, le maniche sono lunghe, ma perché non ci sono più?, con una sottile riga rossa al centro. Lo stemma è bianco candido, contornato da una corona d’alloro e quercia per celebrare i 125 anni del club. Il motto Forward, come quello della fanteria inglese.
Nel calcio è pieno di esempi di calciatori giovani e belli, come gli eroi di Guccini. Ma pochi hanno sintetizzato al meglio stile, talento, carisma ed eleganza come Henry. Una speranza estetica, in un calcio sempre più tamarro, che ci emoziona ancora oggi.