Disumano, troppo disumano. Maurizio Sarri, piaccia o no, è fatto così. E ti pone di fronte a un aut aut: o lo ami a prima vista o lo detesti a vita.
Maurizio Sarri, l’homo novus. Estraneo al contesto circostante, avulso dal tempo contingente. «Sono fortunato: mi pagano per fare una cosa che avrei fatto la sera, magari dopo il lavoro e gratis». Maurizio Sarri, l’agente provocatore. Lui, quello che decide di mollare il posto fisso, in banca, per dare la scalata a un sogno: la Serie A. E a mani nude. Impiegandoci nientemeno che vent’anni. Vent’anni di gavetta, vent’anni di studio. Vent’anni di scrupolosa applicazione: senza ricevere spintarelle, senza imboccare scorciatoie. Senza contare su raccomandazioni. Anzi, all’opposto: paulatim, gradatim et cum magno labore. Lui, quello che porta sempre la tuta: «Faccio l’allenatore, mica l’indossatore». D’altronde, come dargli torto? Quello che – aneddoto tra gli aneddoti – non ha mai indossato la cravatta. Mai. E neppure le sciarpe o le spille per sostenere le varie campagne umanitarie che coinvolgono il mondo del calcio. «In un Paese civile», va giù duro, «la ricerca contro il cancro o la distrofia deve essere appannaggio dello Stato». Chi deve intendere, si accomodi pure: è servito. Maurizio Sarri, ça va sans dire. Scostante a pelle, oltremodo irritante, burbero fin nel midollo. Diretto, però. In una parola bisillaba: schietto. Del resto, del suo temperamento, non ne ha mai fatto mistero: «Sì, ho un carattere forte: devo imparare a controllarmi, a dosare la rabbia, anche di fronte a palesi ingiustizie». Maurizio Sarri, sempre e comunque. Dietro o davanti alle telecamere, in panchina come negli spogliatoi, in conferenza stampa e in famiglia: ammesso che gli resti qualche minuto per starci, in famiglia. Se è vero – come è vero – che lavora in media quattordici ore al giorno. «Dalle 8 alle 22, solitamente». Riuscite a immaginarvelo? Lì, a catalogare dati. Lì, ad aggiornare la tabella di marcia. Lì, a studiare scrupolosamente gli avversari: a scervellarsi su come e quando realizzare il colpo di Stato. «Mi sono fatto preparare dei programmi in cui tenere le schede dei giocatori, i test, i dati, le comparazioni: studio l’evoluzione dei miei ragazzi, scelgo quelli più interessanti e li monitoro per tutto l’anno», confessa sornione. Disumano, troppo disumano. Maurizio Sarri, piaccia o no, è fatto così. E ti pone di fronte a un aut aut: o lo ami a prima vista o lo detesti a vita. Lui, quello che adora le bionde e fuma peggio di un turco. Altra curiosità: quand’era all’Empoli, fra primo e secondo tempo, si faceva allungare una sigaretta dai tifosi assiepati sulle tribune. Perché proprio in pubblico?, vi chiederete. Anche solo per soddisfare il piacere di un tiro secco. Anche solo – solo? – per farsi beffe dei salutisti della domenica. O, più probabile, per violare quei dannati codici di comportamento, gli odiati protocolli, e vedere l’effetto che fa. E infine la sua idea di calcio: moderno nella teoria e antimoderno nella pratica. Scientifico e, insieme, antiscientifico. L’amalgama tra futuro e passato, il connubio tra nostalgia e anti-nostalgia. Con la cultura del lavoro, immancabile nella sua storia personale, al primo posto: «La sosta natalizia? Siamo gente di spettacolo e smettiamo di farlo nel periodo in cui la gente ha più tempo. Preferirei giocare adesso, piuttosto che qualche turno infrasettimanale che ci va ad intasare settimane e settimane».
Rewind. Facciamo un passo indietro: fermiamoci al 10 gennaio 1959. Maurizio Sarri, figlio di operai, nasce a Napoli. Quel giorno lì, quasi 57 anni fa. «Mio padre Amerigo faceva il gruista, quando le gru si azionavano da sopra, per la ditta che costruì l’Italsider a Bagnoli», ricorda con fierezza. Sua madre Clementina, invece, «lavorava in una ditta di cornici». Napoletano di nascita, toscano di adozione; e non si spiegherebbe altrimenti la sua verve polemica, a tratti provocatrice e indisponente, tipica di quei marinai scandinavi dei racconti di Jack London. Cresce a Figline Valdarno, a un tiro di scoppio da Firenze, dividendosi tra i campi dilettantistici e gli sportelli bancari. Si occupa di transazioni fra grandi istituti di credito: lavora per il Montepaschi di Siena. Posto fisso e stipendio assicurato, ma non basta: è un lavoro che, a lungo andare, gli sta troppo stretto. 1) Spesso e volentieri, gli orari di ufficio mal si conciliano con quelli d’allenamento. 2) Confucio ha ragione: scegli il lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in vita tua. 3) Tirando in ballo Ezra Pound: se un uomo non è disponibile a correre qualche rischio per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o è lui che non vale nulla. Tranquilli, non è il suo caso: le sue idee hanno un certo peso. «Da allenatore, salendo di categoria, capivo che sarei riuscito a campare ugualmente, ma soprattutto non ne potevo più di andare in ufficio e di aspettare con impazienza di staccare alle 17 per raggiungere il campo». Quindi? «Ringrazio, saluto e vado via». Déjà-vu: è il 1999.
«Sono figlio di operai, ciò che percepisco basta e avanza. Mi pagano per fare una cosa che avrei fatto la sera, dopo il lavoro e gratis. Sono fortunato».
Proseguiamo per tappe. La prima corrisponde all’annata 1990-91. Siamo a Stia, un paesino popolato da poco più di tremila anime: è qui che il giovine Sarri prende la sua prima, importante decisione. Appende gli scarpini al chiodo, allettato dalla possibilità, concreta, di diventare allenatore in Seconda Categoria: «Ero un difensore roccioso e di carattere. Ero già un allenatore a 16 anni. Giocavo negli Allievi e il nostro mister, il giorno della partita, non si presenta perché in rotta di collisione con la società. Dico ai compagni che si gioca comunque: scrivo le liste, metto l’autista come dirigente accompagnatore, faccio l’allenatore-giocatore e vinciamo in trasferta. Il giorno dopo torna il mister: “Non mi dimetto più, resto per voi”». Nelle due stagioni successive allena la Faellese, il suo primo laboratorio tattico: si divertirà a smontare e rimontare il 3-3-4, passando per il 3-5-2 e il 5-3-2, con variabili annesse e connesse. Sempre a metà tra il lusco e il brusco: sempre. Dopo quell’esperienza, ecco il salto di categoria, arriva la Promozione. Nell’ordine: il Cavriglia che, tempo tre anni, traghetta fino all’Eccellenza; nel ‘96, l’Entella e un altro nut conficcato nella roccia. A seguire, 1998-99, il Valdema; l’anno dopo, il Tegoleto. Ma è di nuovo tempo di scegliere. «Tra il posto in banca e il calcio ho preferito, come unico mestiere, quello che avrei fatto gratis». Millenovecentonovantanove: nella biografia di Maurizio Sarri, il 1999 è una data imprescindibile, cerchiata con un rosso vivo, rutilante. Pronti, via: si riparte. Esperienza alla Sansovino, alle porte del Duemila: obiettivo, promozione in C2, in tre-anni-tre. Nessun volo pindarico, sia ben chiaro. Quando c’è bisogno, e pare accada spesso, ci si affida pure alla scaramanzia: «Alla Sansovino portavo una divisa tutta nera e vincevo. Quando non funzionava più, ho smesso». E conquista la C2 e la Coppa Italia Serie D. La leggenda vuole che, in quel periodo, gli affibbino l’appellativo di Mister 33. Il motivo? È presto detto: nell’arco di una stagione, tra un allenamento e l’altro, riuscì a mettere a punto circa trentatré schemi sui calci piazzati. Quisquilie: l’antidivo per eccellenza non si scompone più di tanto. Piuttosto, minimizza: «Il numero preciso non lo so, magari sono anche di più. Si tratta di schemi su palle inattive: falli laterali, calci d’angolo, punizioni. È il frutto di oltre dieci anni di lavoro». Si cambia ancora, step by step. Annate 2003-05: è la volta della Sangiovannese, che conduce alla promozione, l’ennesima, in C1. Tuttavia il giorno dopo – è insito nel genoma del personaggio – si dimette. Idem comparate, l’anno seguente, al Pescara. Ha inizio così un girovagare ondivago. Svilente. Un vagabondare in cerca di stabilità e, malgré soi, di un pugno di felicità. Perché sembra di rivedere Sisifo che, per aver sfidato gli dèi, è costretto a patire in eterno la punizione del mito: ogni volta che Sarri si trova – dopo aver sudato le proverbiali sette camicie per arrivarci – a un palmo dalla vetta, puntualmente ripiomba a valle, costretto a ricominciare daccapo, dal gradino più in basso. Arezzo, Avellino, Verona, Perugia, Grosseto, Alessandria, Sorrento. Sette passaggi obbligati in sei primavere, dal 2006 al 2011. Soddisfazioni, esoneri e malumori. Fino all’ultima chiamata, fino all’ultima curva. Empoli, l’isola che (non) c’è. «Un allenatore che indovina la piazza ideale», ammette, «ha un gran fiuto o un gran culo». O, perché no, entrambi. La squadra toscana è il trampolino di lancio: al primo anno, finale play-off (persa); al secondo, fiat lux, la Serie A. L’ambita Serie A. La vetta agognata. Prima dichiarazione: «Qui ci arrivi per meriti e grazie alle società che credono in te». Seconda: «Nelle categorie inferiori conosco tanti che potrebbero stare al mio posto, se solo godessero di un minimo di attenzione mediatica». Terza, e al sapore di promessa: «Ci divertiremo». Prendete nota: ci divertiremo. L’Empoli gioca che è una meraviglia, palla a terra, schemi mandati a memoria, verticalizzazioni continue. Le vittorie non mancano, fioccano non casualmente. I tifosi, dal canto loro, apprezzano: ringraziano. E mentre il calcio italiano, dai corsivi dei giornali agli opinion makers, scopre un nuovo fenomeno, quasi spu(n)tato dal nulla, Aurelio De Laurentiis azzarda la scommessa e va per l’all-in: dalla provincia alla città, Sarri viene catapultato al San Paolo. Volendo, il cerchio può anche chiudersi qua: Napoli, l’origine (e le origini). Ma le storie a lieto fine, va detto, non fanno al nostro caso. L’obiettivo pare scontato, tanto sottaciuto quanto manifesto, e cioè riverberare i fasti di un tempo. Dimenticando, se del caso, Diego Armando Maradona; magari partendo dai fondamentali, insegnando cioè calcio ai profani, con ciò che offre il tinello di casa. Il materiale umano è quello che è, poche pretese e spazio all’ingegno. E una preghiera: che il popolo partenopeo torni a divertirsi, a rinnamorarsi della squadra, dell’anima e dei suoi beniamini. A riempire lo stadio di colori e pathos. Di frustazioni quotidiane e sogni (ir)realizzabili. Napul’è-mille-colori.
Ecco la domanda: quale finale per questo Napoli? E sarà lo stesso finale dell’uomo di Figline? Comunque finirà, in fondo, sarà l’epilogo di una città. Un epilogo collettivo-personale che ha avuto in Sarri, un po’ Diabolik e un po’ Jean Reno, il suo protagonista – sallustiano, quisque faber fortunae suae – principale. «È uno che se fosse stato in politica», confida chi lo conosce bene, «avrebbe fatto l’ideologo, non il parlamentare». Già. Intanto si porta avanti con il lavoro, tanto da essere l’avversario dei turiferari del politicamente corretto. Non ha peli sulla lingua, insomma. È uno che le etichette non sa proprio dove appiccicarle. Uno che non riesce a vivere senza libri, Charles Bukowski, John Fante, Mario Vargas Llosa e altri autori sudamericani: «Vado per biblioteche, annuso la carta, guardo le quarte di copertina». Seppur nell’accezione nicciana (Nessun vincitore crede al caso) e bolívariana (L’arte di vincere la si impara nelle sconfitte), un vincente. Una rarità. Soprattutto, in questo mondo intinto nel nichilismo. Soprattutto, nel calcio contemporaneo, pieno di retorica e di mezze figurine. Soprattutto, riferendoci a Maurizio Sarri. L’uomo nuovo.
Scrivere per l'utopia e per la memoria. Per gli eroi e i perdenti vestiti di sogno. Attraverso la tecnologia e grazie alla storia, lungo quell'ombra tra romanzo e realtà che noi chiamiamo Calcio.
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